La Repubblica
23 03 2014
L'idea prevedeva che un agente 'invertitore' avrebbe permesso di portare alla luce l'infezione nascosta nelle cellule, che oggi non siamo in grado di combattere. Ricercatori: "Nessuno dei composti che abbiamo testato su cellule infettate ha attivato il virus latente"
CI HANNO provato gli scienziati della Johns Hopkins University, ma i farmaci che speravano avrebbero "risvegliato" i serbatoi dormienti di Hiv all'interno delle cellule T del sistema immunitario - una strategia messa a punto per invertire la latenza e rendere le cellule vulnerabili alla distruzione - non sono riusciti nell'impresa. I composti non hanno superato le prove di laboratorio su alcuni globuli bianchi prelevati direttamente da pazienti infetti. In termini non scientifici, non riusciamo a 'stanare' l'infezione nascosta nelle cellule per renderla visibile, mentre i farmaci sono in grado di combattere l'Hiv in circolo. Se la ricerca avesse avuto successo, il passo avanti verso una cura definitiva sarebbe stato importante.
"Nonostante le nostre grandi speranze, nessuno dei composti che abbiamo testato su cellule infettate dall'Hiv ha attivato il virus latente", dice Robert F. Siliciano, professore di medicina alla Johns Hopkins University School of Medicine a ricercatore dell'Howard Hughes Medical Institute. Siciliano è l'autore senior di un rapporto sui risultati deludenti dello studio, pubblicato su Nature Medicine.
L'idea accarezzata dagli esperti era che un singolo agente 'invertitore' di latenza avrebbe permesso di 'stanare' l'Hiv che si nasconde nelle cellule di pazienti, in cui la carica virale è essenzialmente non rilevabile con esami del sangue. Mentre è inattivo, l'Hiv dormiente si nasconde nelle cellule, ma non si replica nelle quantità necessarie per produrre proteine che possono essere riconosciute dalle difese dell'organismo. Senza questo riconoscimento, il sistema immunitario non può eliminare l'ultimo residuo di Hiv dal corpo.
E l'attuale trattamento con antiretrovirali non ha come obiettivo l'Hiv dormiente. Gli studi hanno da tempo dimostrato che questi piccoli serbatoi possono essere riaccesi se un paziente smette di prendere i farmaci, un fenomeno che ha dimostrato di essere il principale ostacolo a una cura. Modelli di laboratorio di cellule infettate da Hiv latente avevano suggerito che alcuni composti potevano invertire la latenza e risvegliare le cellule infette quel tanto che basta per renderle vulnerabili all'eradicazione, spiega lo scienziato. L'obiettivo del nuovo studio è stato quello di confrontare i vari agenti che mettono la retromarcia alla latenza sulle cellule prelevate dai pazienti, attaccati a una macchina che separava i globuli bianchi reimmettendo nel loro organismo solo quelli rossi.
"La sorpresa è stata che nessuno di questi in realtà ha funzionato", conclude il ricercatore Greg Laird, coautore dello studio. Gli scienziati non si arrendono, e il prossimo passo sarà quello di studiare i farmaci in combinazione. Non solo: Laird spiega che gli esperimenti hanno portato a sviluppare test più sensibili per testare la riattivazione del virus. Non tutto il lavoro, dunque, finirà 'cestinato'.
Pagina 99
06 03 2014
LAURA MARGOTTINI
Aggredire il virus con i farmaci subito dopo la nascita, potrebbe essere l'arma vincente contro l'Hiv che contagia i bimbi
Un bambino potrebbe essere stato definitamente curato dall'infezione da Hiv. Questo è il risultato annunciato lunedì scorso ad Atlanta, Usa, nel corso di una conferenza scientifica sui retrovirus.
C'è ancora scetticismo intorno alla clamorosa notizia, me se i risultati ottenuti su un neonato del Mississippi saranno replicati anche su altri, allora si potrà parlare di cura. La prima finora capace di azzerare del tutto il carico virale dell'Hiv e di non farlo mai più tornare.
Anche l'anno scorso c'era stato il caso di un paziente tedesco che, trattato con un trapianto di midollo di un donatore geneticamente resistente all'Hiv, era guarito del tutto. I dubbi della comunità scientifica, però, non tardarono a farsi sentire. Quello su cui c'era scettismo era il fatto che il soggetto potesse in realtà non essere mai stato contagiato dal virus. Lo stesso argomento è stato riproposto alla conferenza di Atlanta, ma i medici che hanno trattato il bimbo assicurano che i test effettuati davano per certa la presenza del virus. “Abbiamo fatto 5 test solo nel corso del primo mese di vita del bambino,” ha detto al New York Times Deborah Persaud virologa del Johns Hopkins Children Centre, autore del rapporto presentato ad Atlanta. Tutti positivi all'Hiv, spiega.
L'idea è stata quella di trattare il neonato con un cocktail di 3 diversi farmaci antiretrovirali - quelli che nell'adulto sono usati per cronicizzare la malattia – non più tardi di 30 ore dopo la nascita. Una pratica che non è normalmente utilizzata nei bimbi. Il trattamento a base di antiretrovirali è stato protratto per 18 mesi, ma già dopo un mese il livelli di viralità non si registravano più. Dopo i 18 mesi la cura è stata sospesa del tutto e, nel corso del controllo avvenuto a 5 mesi di distanza dall'interruzione, i test sono risultati ancora una volta negativi.
Perché una dose massiccia di farmaci a poche ore dalla nascita potrebbe rivelarsi decisiva per eradicare il virus? Secondo la dottoressa Persaud, un'ipotesi potrebbe essere che i medicinali riescano a ucciderlo prima che abbia il tempo di depositarsi nelle riserve latenti, i serbatoi dove si annida indisturbato in stato di inattività. Una volta che il virus si trova lì in stato dormiente, i farmaci non riescono più a raggiungerlo ed estirparlo del tutto. Se l'ipotesi fosse corretta, vorrebbe anche dire che nell'adulto il razionale non potrebbe avere lo stesso successo. Il motivo per cui la cura sembra funzionare così bene nel neonato, è perché si riesce ad intervenire poco dopo che il contagio è avvenuto. Fuori da questo caso specifico, purtroppo, è impossibile conoscere il momento esatto in cui l'infezione ha luogo. E quindi intervenire altrettanto tempestivamente anche negli adulti.
Secondo le Nazioni Unite, nel 2011 (ultimo anno per cui sono disponibili i dati) i neonati contagiati nel mondo erano almeno 330mila, e più di 3milioni erano i bambini sieropositivi. Numeri che, se il trattamento avrà successo anche in altri bimbi, potrebbero essere azzerati. Insieme al virus.
Il Fatto Quotidiano
12 12 13
Sono nato libero.
In realtà dovrei dire sono nato. Anzi: sono nato vivo. E vi assicuro che da queste parti ha del miracoloso.
Scusatemi, non mi sono ancora presentato: mi chiamo… ma no, non importa come mi chiamo. Mettete voi un nome che vi piace.
La cosa importante è come e dove sono nato.
Sono nato a quasi centocinquanta chilometri da Harare, la capitale dello Zimbabwe.
Mia mamma è una delle tante donne africane che vedete nei documentari.
Vestita come ve l’aspettate. Con lo sguardo che vi aspettate.
No, non è così triste perché “ha fame”. Certo, grassa non è. Si nutre quasi esclusivamente di rifiuti. Quando va bene, un pugno di riso, regalatole da qualche Onlus europea.
Non ha quello sguardo “perché è povera”. Certo, ricca non è. Ha i vestiti che si porta addosso. Non ha scarpe. E provate a camminare per duecento chilometri al nono mese di gravidanza in mezzo alla foresta senza scarpe.
Perché, allora, è così triste mia mamma?
Perché sa di avere l’Aids.
Ma non teme per la sua vita. E’ soddisfatta di essere arrivata a 17 anni. Ha vissuto abbastanza e bene, dice sempre. E lo pensa davvero.
No, è triste perché sa che io nascerò malato. Dello stesso virus. Lo sa perché ha visto morire decine, centinaia, migliaia di figli di altre donne con lo stessa malattia.
A lei l’Aids l’ha attaccato mio padre. Mio padre pensa che mettere il preservativo svilisca la sua virilità. Peccato che così abbia infettato mia mamma.
Comunque. Mia mamma è arrivata fin qui, in quest’ospedale che si chiama St. Albert, perché le hanno detto che fanno nascere i bambini sani, anche se la madre è malata.
Adesso, se vi va, seguitemi. Venite con me in questa stanza. Vedete, c’è una dottoressa minuta dal sorriso dolce. Credo sia una suora. Spiega a mia madre come funziona la cura. Si danno delle medicine alle donne incinte e il figlio nasce sano.
“E’ un miracolo?” chiede mia madre.
“Se far nascere sani dei bambini condannati a morte in mezzo all’Africa non lo consideri un miracolo, non so cosa lo sia”.
Purtroppo io sono già nato.
Mia mamma doveva arrivare prima.
E anche in quel caso non so se sarei potuto nascere sano.
“Perché” spiega la dottoressa minuta “non abbiamo abbastanza medicine per tutti. E allora dobbiamo decidere a chi darle e a chi no”.
Le vengono gli occhi lucidi e mia mamma quasi si sente in colpa.
Non vorrebbe essere al posto della dottoressa che deve decidere chi salvare e chi condannare a morte.
Io ho pochi giorni di vita e anche se fossi grande non credo che da queste parte saprei cos’è Twitter.
Però mi dicono che un’associazione italiana laica, il Cesvi (www.cesvi.org) ha lanciato una campagna per la raccolta fondi per continuare a far nascere dei bambini sani. Si chiama #sononatolibero.
So che la situazione in Italia è davvero difficile. Ma se tra voi c’è qualcuno che può donare 2 euro inviando un sms al 45503 (o 5 e 10 euro da telefonia fissa), sappia che sarà artefice di un miracolo.
Tutti dovrebbero nascere liberi.
Io sono già schiavo di un male che non si può curare.
Sono nato libero.
Non trovate siano tre parole meravigliose?
E non trovate che, messe insieme, siano ancor più significative?
Sono.
Nato.
Libero.
Gabriele Corsi