Desaparecidos#43 e Megalopolis a Roma

  • Mercoledì, 07 Ottobre 2015 16:04 ,
  • Pubblicato in Lo Spettacolo
9 ottobre, ore 21.30
Garage Zero

Via Treviri, parcheggio L.go Spartaco - Roma

Ayotzinapa somos todos: una marea invade le strade in Messico

  • Martedì, 29 Settembre 2015 06:23 ,
  • Pubblicato in DINAMO PRESS

Dinamo Press
29 09 2015


Ad un anno dall'assassinio di tre normalisti e dalla sparizione di altri 43 studenti, le strade di decine di città sono state invase da migliaia di manifestanti. "Chiediamo giustizia e denunciamo le responsabilità del governo di Enrique Peña Nieto".

Il cielo si è fatto grigio, sembra vestito a lutto. Leggere gocce di pioggia hanno accolto l’arrivo dei primi manifestanti, i più puntuali. Ma subito la timidezza della tenue pioggia mattutina si è trasformata in un grande aquazzone. I partecipanti seguono l'andamento della pioggia, e crescono sempre di più: in poco tempo piccoli gruppi sparsi si trasformano in una moltitudine, con presenze stremamente variegate, dalle comunità cattoliche di base fino ai gruppi anarchici.

Secondo le stime dei conservatori, quelle della segreteria della sicurezza pubblica del distretto federale, questo 26 di settembre, ad un anno esatto dal più grande crimine dello Stato messicano degli ultimi anni – l’uccisione di tre studenti normalisti e la sparizione forzata di altri 43 – hanno manifestato per le strade della capitale quindicimila persone. Secondo le stime dei manifestanti invece il corteo ha coperto dieci chilometri di strada, cosa che contrasta con le irrisorie stime ufficiali. Quando la testa del corteo arrivava al cosiddetto anti-monumento ai 43, la metà del corteo si trovana ad Estela de Luz, ovvero 5 chilometri più indietro, sul Paseo de la Reforma.

Quali che siano i numeri reali, che valgano o no le stime degli organizzatori, secondo cui hanno manifestato 150mila persone, si è trattato senza dubbio di una manifestazione, quella iniziata alle 12.30, davvero enorme. Non è stata la tipica manifestazione studentesca. E’ stata la protesta della società che sic è svegliata in seguito all’orrore dei fatti di Iguala nello stato del Guerrero.


La grande partecipazione ha causato tre problemi di ordine logistico. L’ordine degli spezzoni, nonostante lo sforzo degli organizzatori, è saltato. Uomini, donne, bambini, bambine, giovani, anziani, continuavano ad aggiungersi alla protesta. Arrivano continuamente famiglie, gruppi con i loro settori di lavoro e sindacati, ed entravano nel corteo in ordine sparso. I familiari dei 43 studenti arrestati e spariti e dei tre assassinati aprivano il corteo, tenendo in mano lo striscione con le foto dei loro ragazzi. Era impossibile avvicinarsi a loro, blindati da una doppia barriere: un cordone bianco e una marea umana.

Dietro di loro, gli studenti delle scuole normali rurali del paese, progetto educativo nato dalla Rivoluzione messicana. Stavolta non portavano con sé il telo rosso che li contraddistingue e che per colore ed insegne (quella della Federazione degli studenti contadini socialisti del Messico) ricorda la loro ideologia politica. Hanno sostituito questo simbolo con due teloni neri, della stessa misura, in cui si legge, con lettere costituite da tante piccole foto, la frase “Nessun perdono, nessun oblio”.

I normalisti, uomini e donne, li si distingueva per la freschezza del volto e la grande voglia di dare voce ad ogni slogan, così come per i vestiti umili e i capelli rasati nel caso degli studenti neoiscritti, coloro i quali nonostante tutto hanno deciso di far parte di una nuova generazione di futuri docenti. “Vogliono far scomparire i normalisti rurali, con la lotta e il sangue li difenderemo” cantavano. Dietro tutti gli altri, una mescolanza eterogenea. Studenti delle superiori, professori, sindacalisti, attivisti, difensori dei diritti umani, artisti, tutti uniti contro l’indifferenza e l’oblio. “Se ami qualcuno devi lottare affinché possa vivere in un mondo migliore”, “Figlio, sono qui a lottare affinché tu possa crescere senza la paura di sparire” sono solo alcune delle frasi che i manifestanti hanno scritto sui cartelli e gli striscioni.

Anche i bambini sono scesi in piazza, bambini e bambine che lottano fin da adesso per costruire un futuro e un paese vivibile. Nonostante la pioggia, i bambini sono arrivati allo Zocalo della capitale con globi multicolori e cartelli in mano, con i loro genitori poco dietro. La rabbia sociale cresce e non può essere occultata. La gente lo sa e lo manifesta per le strade, come recita lo slogan “E’ storicamente provato, il terrorismo è di Stato”, “E’ stato l’esercito” si legge con una scritta spray su un camion che passa per il Paseo de la Reforma.

Carmelita y Cristina, madri di due dei ragazzi arrestati e scomparsi, hanno preso parola durante il comizio finale. Entrambe hanno sottolineato la responsabilità dello Stato rispetto al crimine di Iguala, per il quale hanno reclamato la destituzione del presidente Enrique Peña Nieto.

“Il 26 settembre e la mattina del 27 tutto il corpo di polizia ha partecipato, fin dalle cinque del pomeriggio sapevano che i normalisti stavano andando a Iguala. Per questo noi cogliamo che si dimetta Enrique Peña Nieto e il suo staff, ma prima deve ridarci i nostri figli perché sono in mano loro. E da qui lo dico, non faccia il furbo, perché sa dove sono" ha detto Carmelita.

Cristina, che abita nelle montagne del Guerrero, ha parlato alla moltitudine con il suo spagnolo . Ma la forma non è riuscita a mitigare il contenuto del suo messaggio “ Ora vedo, mi rendo conto, che il nostro invito non è stato vano. Sì, ci hanno ascoltato. Oggi sono scesi in piazza. Oggi sono scesi in piazza assieme, per difendere i nostri diritti. Mi rivolgo a tutti gli studenti che camminano assieme a noi, oggi è il momento di alzare la voce affinché non accada a loro, affinché non si ripeta ciò che stiamo vivendo. Che non accada ai nostri figli, ai nostri nipoti. E’ il momento di alzare la voce e cambiare questo paese, cambiare questo governo, affinché non continuino a governarci loro. Che in ogni paese e in ogni villaggio indigeno non permettano che entri il presidente. Che sia ognuno di noi e voi a governare, e non il governo con le armi”.


*Tratto da Desinformemonos, traduzione a cura di Dinamopress

La Repubblica
23 09 2015

CITTÀ DEL MESSICO - Fino a un anno fa, Gildardo López Astillo era uno sconosciuto, uno dei tanti affiliati al cartello criminale messicano Guerreros Unidos. I media iniziarono a parlare di lui nell'ottobre 2014, quando nella città di Iguala apparse una narcomanta, uno striscione scritto su un lenzuolo, in cui si accusava le autorità di essere colluse con il narcotraffico, e affermava che i 43 studenti di Ayotzinapa scomparsi il 26 settembre 2014 erano vivi.

López Astillo, meglio conosciuto come El Cabo Gil, è stato arrestato il 16 settembre nei pressi di Iguala, da cui non si è mai allontanato perché sapeva di godere della protezione della polizia.

A dieci giorni dell'anniversario dell'attacco del 26 settembre - durante il quale 6 persone sono state uccise, più di 40 ferite e 43 fatte sparire - è stata annunciata la cattura dell'uomo che la ricostruzione ufficiale diffusa lo scorso gennaio indica come esecutore materiale dell'uccisione degli studenti. Ricostruzione che la procura generale della Repubblica (PGR) ha definito "verità storica", ma che è stata presto contraddetta da inchieste giornalistiche e da analisi di esperti indipendenti.

Secondo la "verità storica" della magistratura, alcuni tra i 111 detenuti per il caso di Ayotzinapa hanno dichiarato che la Polizia Municipale avrebbe consegnato i ragazzi al Cabo Gil. Dopo averli identificati come integranti del cartello rivale de Los Rojos, l'uomo li avrebbe portati nella discarica di Cocula per ucciderli, bruciarli e gettare le loro ceneri nel fiume San Juan, all'interno di una borsa. "Non li troveranno mai, li abbiamo polverizzati e gettati in acqua", scrisse in un sms al suo capo, Sidronio Casarrubias Salgado.

Il giorno successivo alla detenzione del Cabo Gil, il governo messicano ha reso pubblica un'altra prova a sostegno della ricostruzione ufficiale dei fatti. Il 17 settembre le autorità hanno annunciato che, grazie alle analisi dei frammenti ossei contenuti nella borsa rinvenuta nel fiume San Juan, l'università di Innsbruck ha identificato il dna di un secondo studente di Ayotzinapa: Jhosivani Guerrero de la Cruz. I suoi genitori lo hanno scoperto guardando la televisione.

Tutto sembra tornare. I colpevoli vengono assicurati alla giustizia e i desaparecidos ricompaiono. Sotto forma di frammenti ossei e cenere, ma almeno le famiglie smetteranno di aspettarli e reclamarli. "Non crediamo alla versione della procura. La procura inventa le prove, fa quadrare le sue ipotesi", ha dichiarato Felipe de la Cruz, portavoce dei genitori dei ragazzi scomparsi, che hanno convocato una manifestazione a Città del Messico sabato prossimo in occasione dell'anniversario della scomparsa.
Studenti scomparsi in Messico, sabato in piazza mentre la procura difende la 'sua' verità
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La sfiducia di Felipe de la Cruz non è solo una reazione al dolore per la sparizione del figlio. Secondo un sondaggio dell'istituto Parametrí a, il 64% della popolazione messicana non crede alla versione diffusa dalla procura sul caso Ayotzinapa. E non stupisce, visto che nei mesi scorsi numerose inchieste giornalistiche hanno portato a galla le incongruenze presenti nella ricostruzione del caso, tra cui un dettaglio grottesco: quella notte, a Cocula, stava piovendo sul presunto rogo di corpi.

Anche gli esperti del Equipo Argentino de Antropologí a Forense (EAAF), che hanno svolto un'indagine forense indipendente, hanno sollevato dubbi. Secondo i periti argentini, nella discarica di Cocula non sono stati trovati i resti di nessuno studente, ed è solo una probabilità "bassa in termini statistici" che i frammenti ossei analizzati dall'Università di Innsbruck appartengano a Jhosivani Guerrero de la Cruz. Non esiste invece nessun dubbio sull'accertamento dell'identità, avvenuto a dicembre, dello studente Alexander Mora, i cui frammenti ossei si trovavano nella stessa borsa.

Il colpo di grazia alla ricostruzione dei magistrati messicani è arrivato il 6 settembre scorso, quando un gruppo di esperti indipendenti nominato dalla Commissione Interamericana di Diritti Umani (CIDH) ha presentato il risultato di una ricerca durata sei mesi. "Gli studenti non sono stati bruciati a Cocula, il nostro perito lo ha determinato a partire dall'analisi delle condizioni oggettive della discarica. E abbiamo riscontrato forti incongruenze tra le dichiarazioni degli imputati sulla dinamica dei fatti", avverte in intervista Carlos Baristain, uno degli esperti che ha partecipato all'indagine.

Il Gruppo Interdisciplinare di Esperti Indipendenti (Giei) ha dimostrato che gli studenti non erano stati confusi con narcotrafficanti, e che la Polizia Federale e l'esercito hanno preso parte all'aggressione. La procura ne era a conoscenza, ma lo ha occultato. Le autorità sapevano anche dell'esistenza di un quinto autobus, che non compare nella ricostruzione ufficiale. Si tratta di uno dei pullman che i ragazzi avevano occupato ad Iguala e che probabilmente veniva utilizzato per trasportare droga, all'insaputa dei giovani. Secondo gli esperti, questo autobus potrebbe rappresentare il movente dell'attacco.

"Gli elementi su cui non si è indagato, che sono stati occultati e omessi nell'inchiesta della procura sono molti. Abbiamo fatto delle raccomandazioni alle autorità che speriamo vengano accolte, il nostro lavoro è un'opportunità per lo stato messicano, è un contributo alla lotta contro l'impunità nel paese", conclude Carlos Baristain.

minima&moralia
26 08 2015


“Oggi è lunedì e non sappiamo chi si prenderà cura dei tuoi cani.
Non sappiamo chi si prenderà cura di noi”.

(Lettera a Nadia Vera, Comitato Universitario di Lotta, Xalapa, Veracruz, 3 agosto 2015)
di Alessandro Raveggi

La storia mostra a volte un ghigno insperato nella scelta dei propri toponimi. In Italia risuona ancora, inadatto a pronunciarsi, scomodo in bocca e al concetto, il nome della località messicana da dove provenivano i 43 studenti desaparecidos, svaniti nel nulla da oramai un anno: tra un mese, mentre si scoperchiano ancora decine di fosse comuni, ci toccherà ricordare il lugubre anniversario del 27 settembre 2014, della sparizione forzata ad Iguala degli studenti di Ayotzinapa. Un nome che parte sordo e poi ti taglia la lingua con la sua lama, per poi ritornare a svelarsi arcaico, azteco, quasi sanante nella sua coda.

Oggi il giro di vite mi porta invece ad un nome che personalmente mi suona come una sorta di everyman messicano: Ruben Espinosa. Un nome da messicano di strada, che potrebbe essere quello di un addetto di pompa di benzina, multimilionario del cemento, di un uscere di ristorante di lusso, di giovane scrittore della casa editrice Anagrama, di un artigiano di Oaxaca. O, disgraziatamente, quello del fotoreporter barbaramente assassinato lo scorso primo agosto a Città del Messico, nella Colonia Narvarte, nel suo auto-esilio al Distrito Federal.

Rinvenuto non per caso dopo le frequenti minacce e intimidazioni subite nello Stato di Veracruz – ad oggi lo stato più pericoloso per i giornalisti, con ben 15 assassinii dal 2011 ad oggi – amministrato dal discutibile a dir poco governatore Javier Duarte (un ammiratore di Francisco Franco, per dirne una). C’è una foto, uno scatto, datato marzo 2015, che forse lo definisce più di tutti, al buon Duarte: il corpulento governatore che, ad un comizio elettorale in pieno stile priista, frana addosso a degli scolari in una palestra, travolgendo tutto. Questa frana umana illustra meglio di altro le responsabilità strutturali del governatore nel caso Espinosa.

Conosco poi bene la colonia, cioè il quartiere, della Narvarte dove è stato perpetrato l’orrendo delitto: è stato il mio primo approdo a Città del Messico, vivevo infatti a pochi passi da quell’appartamento dell’orrore. Per almeno un anno ho vissuto lì, ho mangiato i suoi polli arrosto, i suoi decenti tacos, ho fatto yoga per un solo mese e jogging per non molti di più, ho visto scorrere frastornati e tuonanti tanti tir sgasati dai suoi crocevia principali, mentre attendevo mezz’ore per attraversare su strisce pedonali inesistenti. Una colonia piena di cliniche mediche private più o meno buone, dove era più facile trovare per strada un bianco camice che una bigia uniforme da polizia – quelle messicane col giubbotto antiproiettile messe su anche per la festa del patrono.
Uno spazio, la Narvarte, tutto sommato tranquillo, di classe media ma anche di media pericolosità, con i suoi parchetti e pratini verdi, pochissime spazzature e miasmi fognari per strada, i mercati rionali affabili che ti gridano dietro senza fregarti solo perché sei straniero e di carnagione un po’ più chiara, i piccoli caffè con la torrefazione personale, e qualche bar che si stava affacciando timidamente al business con prodotti sofisticati. Un pezzo di città che s’avviava a riempirsi negli anni sempre più di studenti – vuoi perché è servito da una strategica stazione del metro che ti permette di arrivare alla Universidad Nacional in quindici minuti, non facendoti pesare il fatto di vivere in una megalopoli. Piena di universitari e di conseguenza di loro necessità notturne. Certo non vedevi studenti di classe alta, studenti mantenuti che arrivano ai parcheggi dell’università privata rombanti con le loro cineree BMW, giovanissimi e in via di sviluppo, che manco riescono a far capolino con la testa dietro il cruscotto portentoso della loro Mustang.

Alla Narvarte ci sono più studenti paragonabili ai fuori sede italiani e europei, studenti di classe media. È forse per questo che è meta di tanti stranieri, che qui vi si orientano maggiormente: artisti tedeschi, architetti catalani, cooperanti francesi, qualche italiano. Questo luogo, pur nella sua tranquillità, non nasconde quindi un certo brio intellettuale: era d’altronde anche il quartier generale del movimento de la Onda, la controcultura letteraria degli anni ’60, di José Agustín e Parménides García Saldaña, della ribellione di Pasto verde. Nonché il quartiere dove visse Ernesto “Che” Guevara, che mentre faceva il dottore ad Hospital General proprio lì si preparava alla rivoluzione cubana.

È così, nel mezzo di questa calma ebollizione della mia Narvarte, che il corpo di Ruben Espinosa, fotoreporter fuggito da Xalapa, Veracruz, è stato rinvenuto. Freddo, duro e indigeribile ai più, ancora uno dei figli di Tlatelolco in giro e da cantare piangendo, direbbe Auxilio Lacouture, l’eroina dell’Amuleto di Bolaño: Ruben seviziato, con escoriazioni per tutto il corpo, e con un oramai “classico” colpo di grazia alla tempia. Braccato, lontano dal suo luogo d’operato. E il corpo di Ruben non era lì da solo: altri quattro corpi, corpi per giunta di ragazze, di donne – di cui una, Nadia Vera Pérez, attivista del Movimento #YoSoy132, organizzatrice culturale e teatrante – che sono state anch’elle martoriate, in quello che la polizia sta indagando anche come un omicidio per furto – segue un’amara risata per il ridicolo di questa flebile pista. Pochi ci credono più infatti, alla storia del furto, tale la puntualità del crimine brutale. Il Messico è una terra di violenze efferate, ma difficilmente si compie sadismo del genere senza secondi fini.

Il massacro interiore della Narvarte: un titolo possibile che mi tocca nell’intimo, e che sveglia tutta la sonnolenta metropoli messicana – si spera, ma ci si crede poco. Che rompe quella sua misura di sicurezza che forse è difficilmente apprezzabile fuori dalla città: la tranquillità in cui si vive e si opera nella capitale caotica e in continuo cantiere, come io vivevo placidamente alla Colonia Narvarte, nell’incoscienza che un mio coetaneo avrebbe potuto esser rinvenuto in quelle condizioni, a pochi passi dal mio farmacista di fiducia. Quell’oramai antico e necessario oblio di intere classi che si rifiutano giornalmente di vedere la realtà per come è, è oggi diventato un grave disturbo schizoide – di fronte alla guerra subita dai giornalisti e non solo: studenti, figli, giovani prima di tutto, donne, direi anche bambini, in tutto il Paese, cifre, numeri, ricorrenze di uno sterminio – il disturbo schizoide di tutto quel Messico che sogna fulgore, sviluppo, grattacieli, start up, e una stereotipata Europa che non esiste forse più. Una tranquillità che già vacilla al di fuori dei caselli autostradali del Distrito Federal.
La caccia a Ruben Espinosa nel cuore della Città del Messico pare che abbia però smosso maggiormente gli animi, ma anche terrorizzato gli intellettuali e gli scrittori che nel DF trovavano consolazione temporanea al nominato “Interior de la Republica” (mai termine, usato per definire tutto quello che sta al di fuori del DF, è più calzante oggi): il crimine, ci sta bussando alla porta, l’orrore è veramente dietro casa. O meglio, il suo toc toc è una strana eco che viene da dentro il nostro cervello, dal nostro Interior, o è il suono delle mascelle del crasso corpo avido d’espansione dell’apparente democrazia messicana, che frana su degli studenti in una palestra di provincia. Siamo infatti sempre di più di fronte ad un Messico Saturno, intento ad annullare, annientare, divorare i propri figli, in modo per lo più incosciente, sovrasviluppato dalle ossa e meningi molto fragili.

Per impotenza, per pusillanimità, o per premeditazione mafiosa, per timore di lasciare vecchie pratiche di corruttela oramai incancrenite, per l’incapacità di modernizzarsi come democrazia, per il terrore indetto dai narcos e alimentato dalla guerra governativa di pochi anni fa, si sta compiendo un vero e proprio genocidio dove sono i giovani che ne subiscono le più crude conseguenze: un sistema che uccide i propri figli degno delle storie del Cile del 1973 e l’Argentina del 1976. Quei giovani che imbracciano la camera per documentare la verità del proprio quartiere, che usano la penna, aprono un blog o un account Twitter, fanno lavori creativi, o vanno in America e divengono premi Oscar, vanno a Berlino e spopolano alle Biennali. Molti anche nell’intento di smascherare, sovvertire, la logica del piccolo cacicco di provincia come del Presidente – che, lasciatemelo dire, oggi pare il male minore di una nazione divoratrice di generazioni.
Quando il corpo crasso del Messico Saturno che divora i propri figli con gli occhi fissi nel vuoto come in Goya finirà col mangiare se stesso? In attesa che l’ONU voglia fare veramente qualcosa in questo paese, dove dal 2007 si sono registrati più morti violente che in Afghanistan ed in Iraq. Quando e come avrà fine questo banchetto saturnino, questa immane frana umana sugli scolari di tutta la nazione, se lo chiedono in molti. Oggi è lunedì e non sappiamo chi si prenderà cura dei tuoi cani. Non sappiamo chi si prenderà cura di noi.

Messico, il mistero dei 43 ragazzi scomparsi

  • Martedì, 16 Giugno 2015 07:58 ,
  • Pubblicato in L'ESPRESSO

L’Espresso
16 06 2015

 

Le aspre montagne del Guerrero, a tre ore di pullman da Città del Messico, sono punteggiate di cactus, sentinelle minacciose sulla strada verso i campi di cannabis, papavero da oppio e fosse clandestine. Dopo il sequestro, il 26 settembre 2014, da parte della polizia municipale di Iguala, di 43 studenti della scuola normale rurale di Ayotzinapa, anche questo Stato - un tempo frequentato dal jet-set internazionale per la sua suggestiva costa e i locali di Acapulco - è entrato nella rosa dei più violenti e corrotti di tutta la Federazione messicana.

Quando, a un mese dal sequestro, il procuratore generale della Repubblica Jesus Murillo Karam rivelò che il sindaco di Iguala Luis Abarca, legato al cartello Guerrero Unidos, aveva ordinato alla polizia municipale di Iguala di attaccare gli studenti e consegnarli ai sicari del cartello, che li avrebbero bruciati in una discarica della zona, i periti argentini e i familiari dei sequestrati iniziarono a cercarne i resti. Ma nella spazzatura non c’erano. Si misero quindi a perlustrare i dintorni. Anziché quelle dei loro ragazzi, trovarono in fosse clandestine centinaia di ossa appartenenti a sconosciuti.

ANCORA OGGI LA FINE DEI 43 STUDENTI è avvolta nel mistero. Anche se pare chiaro il movente della loro sparizione: dare una lezione a quelle scuole dove si formano i futuri maestri rurali che sono considerate una fucina di marxismo in un Paese che ha scelto il liberismo sfrenato. Le ipotesi sul loro destino comunque sono tre: uccisi e sepolti; tenuti prigionieri nelle celle di sicurezza del 27esimo battaglione dell’esercito nei pressi di Iguala; segregati nei campi di papavero a lavorare come schiavi per i narcos. Si tratta di deduzioni plausibili, compresa quella che riguarda l’esercito. Il comportamento dei militari è stato quanto meno sospetto quella notte: non sono intervenuti quando gli studenti furono presi a fucilate dalla polizia municipale ma successivamente e solo per minacciare i sopravvissuti nell’ospedale di Iguala, inoltre non hanno permesso ai loro padri di entrare nella sede, respingendoli con violenza. Anche l’ipotesi della sepoltura clandestina è credibile. C’è un dato sconcertante che la sostiene: dal 2006 al 2014 in Messico sono scomparse ufficialmente 30mila persone, ma secondo le organizzazione non governative la cifra reale è di 200mila. Resta il fatto che il mandante è chiaramente lo Stato perché qualunque cosa sia accaduta ai 43, a sequestrarli, ed eventualmente a consegnarli ai narcos, è stata la polizia municipale, su mandato del sindaco di Iguala.

«L’esercito non è intervenuto per fermare gli agenti non solo per ammissione dello stesso Abarca ma per le telefonate divulgate dalla stampa indipendente da cui emerge che il 27esimo battaglione ha saputo in tempo reale cosa stesse accadendo. Lo Stato, nella figura del procuratore federale Murrillo Karam, ora ministro dell’agricoltura, ha prima cercato di minimizzare, poi ha tenuto una sbrigativa conferenza stampa in cui senza mostrare prove ha chiuso il caso accusando i narcos di aver bruciato i corpi e non ha risposto alle domande dei giornalisti pronunciando l’arrogante frase di commiato “mi sono stancato, basta”, diventata un hastag postato milioni di volte da tanti indignati», spiega Xavier Robles, regista e sceneggiatore del documentario “Cronaca di un crimine di Stato”. Secondo Robles i narcos non potrebbero produrre droga, fare traffico di clandestini, taglieggiare, decapitare e appendere ai ponti delle autostrade chi si ribella, senza la collaborazione delle autorità. L’esercito controlla le strade: se volesse, bloccherebbe i camion che portano la droga negli Stati Uniti.


«IL CORAGGIO E LA DETERMINAZIONE dei familiari dei 43 ci hanno spronati a cercare i nostri parenti che un giorno non sono più tornati a casa», dice Carmela Barca, una giovane signora che non ha più notizie del marito, poliziotto e studente di diritto, scomparso un anno fa senza lasciare tracce. «Abbiamo deciso di riunirci sotto il nome “familiari degli altri scomparsi” e cercare tra i boschi i nostri mariti, figli, fratelli, nipoti», spiega mentre attendiamo la gendarmeria nella cucina della chiesa San Francesco di Iguala dove ogni domenica queste persone disperate si ritrovano per andare a “buscar las fossas”, a trovare le fosse. Con la gendarmeria a distanza di sicurezza, seguendo le istruzioni disegnate a mano da uno sconosciuto su un foglio di quaderno, il gruppo si incammina con alla sua testa un signore con in mano un lungo bastone dall’estremità a forma di àncora. Dopo averla infilata nel terreno con forza, l’uomo la ritira e annusa. L’odore della decomposizione è inequivocabile. Una mesta bandierina segnalerà la fossa clandestina perché la polizia e i periti possano fare le riesumazioni. La sensazione è di essere gli attori di un film horror. Ma è la drammatica realtà di un Paese con una cultura millenaria alle spalle, membro del G20, appiattito sui desiderata neoliberali della vicina “Gringolandia”, come vengono definiti gli Stati Uniti. «Il sequestro degli studenti da parte della polizia, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. La gente ha capito, sa che il mandante è lo Stato e ne ha perso del tutto la fiducia. Per questo migliaia di persone ogni 26 del mese, da quando sono stati sequestrati i 43, scendono in piazza per manifestare contro lo Stato e chiedere giustizia. Lo fanno per gli studenti ma anche per sé e per i propri figli e nipoti. Non so per quanto questa indignazione, mai vista prima, terrà. Resta il fatto che molti per protesta non andranno a votare alle elezioni politiche di domenica 7 giugno, altri voteranno il nuovo partito di sinistra Morena, perché il Prd, nato come partito delle sinistre, non rappresenta più gli interessi di nessuno, se non di se stesso, ed è corrotto. Il sindaco di Iguala era del Prd», dice il famoso scrittore e attivista Paco Ignatio Taibo II.


IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, Enrique Peña Nieto, 48 anni, del Pri, è percepito da buona parte della società come un burattino nelle mani dell’ex presidente Salinas de Gortari. Colui che nel 1994 fece entrare il Messico nell’area di libero scambio nord-americano, il Nafta, dando il via alla deriva neoliberista. Anche se i media lo blandiscono, la coraggiosa quanto circoscritta stampa indipendente ne ha più volte denunciato “missioni” e omissioni. Questo signore, dall’aspetto curato e giovanile è un maestro nell’applicazione della politica neo liberale. Ha firmato l’ultima legge sull’energia secondo cui lo sfruttamento delle risorse ambientali ha la priorità sull’agricoltura e la legge sull’educazione che favorisce le scuole private. Entrambe non piacciono agli studenti delle scuole normali rurali, tra cui c’è Ayotzinapa ( tartaruga in lingua Nahuatl).

Ayotzinapa si trova a 1400 metri di altezza nel comune di Tixtla, un tipico pueblo con le case colorate e lo zocalo al centro. Per arrivare al cancello con un’enorme tartaruga disegnata bisogna percorrere un viale in mezzo al bosco. A proteggerlo ci sono i volontari della polizia comunitaria, istituita vent’anni fa in varie città e villaggi con l’avallo del governo per difendere le etnie autoctone. «Premetto che noi difendiamo tutti gli sfruttati, indipendentemente dall’etnia. Ora ci accusano di essere fuorilegge ma la vera ragione è che il coordinatore si è venduto al governo che non ci vuole tra i piedi perché andiamo a cercare i narcos e non abbiamo paura di scontrarci con loro e nemmeno con la polizia municipale e l’esercito che fanno affari o sono a libro paga degli stessi cartelli», racconta Tori, nome di battaglia di una universitaria di 27 anni che comanda il gruppo armato di autodifesa. Possiamo vederne solo gli occhi neri dietro il passamontagna.

UNA VOLTA ENTRATI nella scuola ci si trova di fronte a un’azienda agricola e ai ritratti di Marx, Lenin, Che Guevara, Lucio Cabanas, e altri rivoluzionari messicani. Dove c’erano le stalle, oggi ci sono le misere stanze degli studenti del primo anno. Celle di 14 metri quadrati, senza finestre, dove dormono stipati fino a 11 futuri maestri. Al posto dei comodini e armadi, cassette della frutta appese al muro. Qua e là prese della corrente che alimentano gli smartphone per coordinarsi via Internet sulle attività di boicottaggio dei comizi elettorali, chiamare i volontari della comunitaria quando l’esercito viene da queste parti. «Per essere ammessi alle scuole normali innanzitutto bisogna avere un reddito molto basso. Siamo quasi tutti figli di campesinos. Ci prepariamo per andare a fare i maestri elementari nei villaggi di montagna ma lo Stato ogni anno taglia il numero delle matricole e riduce il sostegno economico», spiega Ernesto detto Marlboro, 23 anni, rappresentante degli studenti del “primero” nonché uno dei superstiti del 26 settembre.

«NON ACCETTIAMO I RISARCIMENTI in denaro che ci vuole dare lo Stato, è un’offesa. Siamo poveri ma abbiamo una dignità. Vogliamo sapere dove sono i nostri figli. Nella discarica di Cocula non c’erano, vogliamo sapere chi li ha presi e cosa gli hanno fatto», dice Delfina de la Cruz Felipe che ha deciso di vivere qui fino a quando non tornerà Adan Abrajan, suo figlio, già padre di due bambini. Sulla facciata di una casa di Tixtla, da cui provenivano 14 dei 43 studenti scomparsi, c’è una scritta sotto la foto di Israel: «L’ultimo segnale del suo Gps proveniva dalla zona dove ha sede il 27esimo battaglione dell’esercito». Omar, un altro sopravvissuto, racconta che «quella notte, dopo la prima sparatoria da parte della polizia contro uno dei bus che avevamo confiscato, io e altri feriti eravamo andati all’ospedale per farci curare. Io assistevo un compagno con un buco sulla mascella. Nulla in confronto a uno dei nostri trovato morto senza più la pelle del viso e gli occhi. A un certo punto sono arrivati dei soldati, compreso il loro medico, del 27esimo battaglione. Ci hanno chiesto le generalità e detto che se non le avessimo date, avremmo fatto la fine degli altri “Ayotzinapo”, che è un modo dispregiativo di definirci. Noi ancora non sapevamo che erano stati sequestrati dei nostri compagni. Pensavamo fossero fuggiti e nascosti, come altri che poi sono ricomparsi in tarda mattinata.

L’esercito non ci ha mai amati, siamo considerati dei sovversivi, ma è solo un pretesto per mettere a tacere chi si oppone alla militarizzazione, al terrore di Stato», conclude piangendo.

CIÒ CHE È CERTO in questa terribile storia è che un centinaio di studenti delle scuole rurali avevano confiscato alcuni pullman per andare alla marcia del 2 ottobre a Città del Messico e per effettuare, come vuole la legge, i tirocini nei puebli dove poi insegneranno. «Lo facciamo perché lo Stato non ci fornisce i mezzi, solo un bus da 30 posti ma qui siamo più di cinquecento, ma poi li restituiremo», riprende Ernesto. La marcia per ricordare gli studenti uccisi dalle forze dell’ordine nel 1968 durante la “guerra sucia” (sudicia) è un’occasione per denunciare i delitti di Stato rimasti impuniti. «Anche quello che riguarda i nostri compagni lo è. È stata la polizia a spararci addosso mentre eravamo sui pullman. Noi stavamo tornando alla scuola. Eravamo stati portati lì dall’autista per scaricare i passeggeri, ma lui ci ha chiusi dentro e ha chiamato la polizia municipale», dice Josè, altro sopravvissuto. La polizia spara. I ragazzi saltano giù dai bus, corrono, due rimangono a terra, altri si trascinano feriti, c’è chi tira sassi, chi si nasconde. Quando la sparatoria finisce, i sani improvvisano una conferenza stampa. «Proprio quando ci stavano spiegando la dinamica, è arrivata di nuovo la polizia. Hanno iniziato a spararci addosso e tutti siamo scappati», ricorda Alejandro Guerrero, giovane cronista.

LA MATTINA SUCCESSIVA MANCAVANO 43 studenti. Secondo i periti argentini per cremare così tanti corpi all’aria aperta in una notte di pioggia, ci vuole una quantità enorme di legna e carburante o pneumatici. La gigantesca pira avrebbe dovuto ardere anche le piante intorno, il terreno. Ma non ci sono resti di vegetali bruciati. Nella discarica di Cocula sono state trovate inizialmente solo ossa di pollo, in un secondo momento è stato rinvenuto un dito, che molti sospettano sia stato messo per avvalorare la versione della cremazione. «E, in ogni caso, se sono state trovate ossa di pollo, a maggior ragione si sarebbero dovute trovare quelle dei ragazzi seppur carbonizzate», ragiona Roxana Enriquez, direttrice generale dell’équipe messicana di antropologia forense.


DAL CARCERE, DOVE sono stati rinchiusi come mandanti il sindaco di Iguala José Luis Abarca e la moglie Maria de los Angeles Pineda, sorella di uno dei fondatori del cartello Guerrero Unidos, assieme ai presunti sicari, oltre ad alcuni agenti tra i quali il vice capo della polizia, sono emerse versioni diverse del motivo per cui gli studenti di Ayotzinapa sono stati sequestrati e forse uccisi. Il sindaco e la moglie negano il coinvolgimento e affermano di aver chiamato il 27esimo battaglione per fermare la sparatoria ma i militari non hanno risposto. «Alcuni sicari sostengono che il sindaco credeva che dentro quei bus ci fossero anche i membri del cartello nemico dei Los Rochos, tanto che la polizia sparò anche a un pullman con a bordo una squadra di calciatori che stava transitando. Altri ancora dicono che in uno dei tre veicoli con gli studenti fosse nascosto un carico di eroina», sostiene lo scrittore Josè Reveles.

Gli studenti di Ayotzinapa sarebbero dunque solo finiti nel posto sbagliato? «I narcos non si limitano a fare traffico di droga ma, assieme alla polizia, taglieggiano i cittadini, li rapiscono, gestiscono la prostituzione, fanno traffico di esseri umani e terrorizzano la popolazione», spiega un altro scrittore, Jaime Aviles. Nella sua prefazione al saggio “Ni vivos, Ni muertos” di Federico Mastrogiovanni scrive che i sequestri sono perpetrati dalle forze dell’ordine e dall’esercito su ordine del governo interessato a militarizzare gli Stati con più risorse naturali (nel Guerrero c’è una delle miniere d’oro più grandi dell’America Latina). «I soldati anziché difendere i cittadini, proteggono gli affari dei narcos che sono in grado di esprimere direttamente i politici come è avvenuto con l’elezione di Abarca a sindaco».

IL 26 APRILE è stato collocato dagli attivisti e dai padri dei sequestrati un “contromonumento” costituito da un gigantesco 43 dipinto di rosso. «Lo piantoniamo per evitare che la polizia lo rimuova», dice uno studente. In testa al corteo, c’era uno striscione con la scritta: “Ne mancano 43. Fu lo Stato. Peña Nieto dimettiti”. Il capo dello Stato aveva tentato di dare la colpa alla natura riottosa degli studenti rurali e in seguito attribuendo la responsabilità ai narcos. Anche la Chiesa si è schierata con i familiari. Il nunzio apostolico, su mandato di papa Francesco, ha celebrato una messa ad Ayotzinapa. Ma il miracolo non è avvenuto: degli studenti ancora non c’è traccia.

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