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la Repubblica
30 07 2015

In tredici anni, dal 2000 al 2013, l'Italia è stato il Paese che e' cresciuto meno, +20,6% rispetto al +37,3% dell'area Euro a 18, addirittura meno della Grecia, che ha segnato +24% quale effetto della forte crescita negli anni pre crisi, che è riuscita ad attenuare in parte il crollo successivo. Questa la fotografia scattata da Svimez nelle anticipazioni del Rapporto sull'economia del Mezzogiorno 2015, che sottolinea come la situazione e' decisamente più critica al Sud, che cresce nel periodo in questione la metà della Grecia, +13%: oltre 40 punti percentuali in meno della media delle regioni Convergenza dell'Europa a 28 (+53,6%).

Una situazione che Svimez fotografa così: "Il Sud è ormai a forte rischio di desertificazione industriale, con la conseguenza che l'assenza di risorse umane, imprenditoriali e finanziarie potrebbe impedire all'area meridionale di agganciare la possibile ripresa e trasformare la crisi ciclica in un sottosviluppo permanente". Un quadro che preoccupa il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per il quale "non possiamo abbandonare giovani e Meridione".

Prodotto, la forbice si amplia. Il divario del Pil pro capite tra Centro-Nord e Sud è tornato ai livelli del secolo scorso, dettaglia ancora il rapporto Svimez. In particolare, in termini di Pil pro capite, il Mezzogiorno nel 2014 è sceso al 63,9% del valore nazionale, un risultato mai registrato dal 2000 in poi. Recentemente, uno studio di Confindustria aveva mostrato che il Mezzogiorno offre segnali di ripresa, dal calo della cassa integrazione al recupero dell'occupazione, ma aveva anche aggiunto che bisognerà aspettare il 2025 (assumendo per altro una crescita in linea con il resto del Paese) per recuperare i 50 miliardi di Prodotto interno dispersi negli anni della recessione.

Allarme lavoro e consumi. Tornando ai dati Svimez, resta comunque un allarme sul fronte del lavoro: "Il numero degli occupati nel Mezzogiorno, ancora in calo nel 2014, arriva a 5,8 milioni, il livello più basso almeno dal 1977, anno di inizio delle serie storiche Istat". Al Sud, inoltre, lavora solo una donna su cinque. Nel 2014, a fronte di un tasso di occupazione femminile medio del 64% nell'Europa a 28 in età 35-64 anni, il Mezzogiorno è fermo al 35,6 per cento. Dal rapporto emerge poi che i consumi delle famiglie meridionali sono ancora scesi, arrivando a ridursi nel 2014 dello 0,4%, a fronte di un aumento del +0,6% nelle regioni del Centro-Nord. Qui si è registrato un recupero dei consumi di beni durevoli, con un aumento delle spese per vestiario e calzature (+0,3%) e di altri "beni e servizi", categoria che racchiude i servizi per la cura della persona e le spese per l'istruzione (+0,9%). In crescita nel centro-nord anche i consumi alimentari (+1%), a fronte della contrazione del mezzogiorno (-0,3%). In generale, nel 2014 i consumi pro capite delle famiglie del mezzogiorno sono stati pari al 67% di quelli del Centro-Nord.

Rischio povertà. In Italia negli ultimi tre anni, dal 2011 al 2014, le famiglie assolutamente povere sono cresciute a livello nazionale di 390mila nuclei, con un incremento del 37,8% al Sud e del 34,4% al Centro-Nord. Quanto al rischio povertà, nel 2013 in Italia vi era esposto il 18% della popolazione, ma con forti differenze territoriali: 1 su 10 al Centro-Nord, 1 su 3 al Sud. La regione italiana con il più alto rischio di povertà è la Sicilia (41,8%), seguita dalla Campania (37,7%). La povertà assoluta è aumentata al Sud rispetto al 2011 del 2,2% contro il +1,1% del Centro-Nord. Nel periodo 2011-2014 al sud le famiglie assolutamente povere sono cresciute di oltre 190 mila nuclei in entrambe le ripartizioni, passando da 511 mila a 704 mila al Sud e da 570 mila a 766 mila al Centro-Nord.

Desertificazione industriale. Nel 2014 a livello nazionale il valore aggiunto del manifatturiero è diminuito dello 0,4% rispetto al 2013, quale media tra il -0,1% del Centro-Nord e il -2,7% del Sud. Un valore ben diverso dalla media della Ue a 28 (+1,6%), con la Germania a +2,1% e la Gran Bretagna a +2,8%. In calo anche l'industria in senso stretto: -0,7% al Centro-Nord, -3,6% al Sud. Complessivamente, negli anni 2008-2014 il valore aggiunto del settore manifatturiero è crollato in Italia del 16,7% contro una flessione dell'Area Euro del -3,9%. A pesare, ancora una volta, soprattutto il Mezzogiorno: dal 2008 al 2014 il settore manifatturiero al Sud ha perso il 34,8% del proprio Prodotto, e ha più che dimezzato gli investimenti (-59,3%). La crisi non è stata altrettanto profonda nel Centro-Nord, dove la diminuzione è stata meno della metà, -13,7% del prodotto manifatturiero e circa un terzo negli investimenti (-17%).

Non si fanno più figli. Oltre al tessuto economico, preoccupa la situazione demografica: "Nel 2014 al Sud si
sono registrate solo 174 mila nascite, livello al minimo storico registrato oltre 150 anni fa, durante l'Unità d'Italia: il Sud sarà interessato nei prossimi anni da un stravolgimento demografico, uno tsunami dalle conseguenze imprevedibili", sono le parole del rapporto.

L'Espresso
22 07 2015

In un post precedente abbiamo dato un'occhiata a quanto diversi sono i redditi di uomini e donne italiani a seconda del loro percorso di studi. Per capire meglio come stanno le cose, anche nei confronti degli altri paesi, abbiamo intervistato Alessandra Casarico, docente di economia all'Università Bocconi di Milano.

Qual è la situazione italiana, oggi?
Se guardiamo i dati dell'OCSE e facciamo il confronto con altri paesi la differenza di salario fra uomini e donne italiane non è particolarmente elevata. Una delle ragioni per cui succede questo, soprattutto rispetto ai paesi anglosassoni, è legata al comportamento delle donne italiane in tema di occupazione.

In che senso?
Le donne con un minore livello d'istruzione, e quindi con salario potenzialmente più bassi, partecipano meno al mercato del lavoro che in altri paesi. Così, quando calcoliamo la differenza fra reddito maschile e femminile, in un caso troviamo uomini che guadagnano tanto e altri che guadagnano poco. Nell'altro solo donne che guadagnano molto, perché le altre al mercato del lavoro non partecipano affatto.

Quindi non è per forza una buona notizia?
Non necessariamente. Il fenomeno, in parte, si spiega proprio con il fatto che in Italia molte donne non lavorano. Cosa che succede anche altrove, ma nel nostro paese in misura maggiore.

Il divario è cambiato negli ultimi anni, e in che misura?
In molti paesi – fra cui l'Italia – fino all'inizio degli anni 2000 il differenziale salariale di genere si è ridotto. Nell'ultimo periodo, circa dal 2003-2004, la discesa ha rallentato quando non si è arrestata del tutto. In Italia il gap è addirittura aumentato: secondo l'OCSE era intorno al 25% nel 1975 per poi arrivare a un minimo del 7%. Da lì una leggera risalita, che in effetti non si vede né nel Regno Unito, né in Germania o tantomeno negli Stati Uniti.

Che effetto ha avuto la crisi economica in tutto questo?
L'impatto si vede sia in termini di occupazione che di salario. Durante la crisi la differenza fra il tasso di occupazione maschile e femminile si è ridotta, per esempio: quest'ultimo è caduto meno.

E per quanto riguarda i salari?
Come dicevo negli ultimi tempi il divario è aumentato, ma per capire se è una tendenza di lungo periodo oppure relativa alla sola crisi economica bisogna aspettare ancora un po'.

Secondo i dati Eurostat le differenze salariali sono particolarmente accentuate in alcuni settori lavorativi, fra cui la finanza e le professioni tecnico-scientifiche. Come si spiega?
Sulla finanza e le professioni legali ci sono alcuni studi relativi agli Stati Uniti, dai quali risulta che in professioni ad alto reddito di quel genere è spesso richiesto di lavorare in orari non convenzionali. L'idea è che in alcuni campi c'è ancora un premio forte a fare orari molto lunghi e questo, in qualche modo, svantaggia le donne. Lo stesso vale anche per il Regno Unito. E in effetti una delle spiegazioni principali del divario di reddito fra uomini e donne è proprio che queste ultime non hanno accesso alle professioni più remunerative.

Ci sono altre ipotesi?
Un'altra riguarda le diverse caratteristiche delle donne in termini di istruzione. Soprattutto in passato era diffuso lo studio di discipline che portavano poi a un reddito minore. Quindi già prima di entrare nel mercato del lavoro le qualifiche erano diverse e quelle degli uomini garantivano l'accesso a migliori opportunità di lavoro. Nel tempo le differenze d'istruzione si sono ridotte, ma non altrettanto il divario di reddito, quindi ci dev'essere qualcos'altro.

Per esempio?
C'è l'accumulazione di capitale umano durante la carriera lavorativa, e quindi l'idea che le donne abbiano più interruzioni di carriera durante la vita lavorativa, un maggiore uso del part time: tutti fattori che rendono più difficile andare avanti nella propria carriera.

Che altro?
Di recente altre spiegazioni si concentrano su diverse preferenze o caratteristiche psicologiche fra uomini e donne, per così dire. Per esempio il fatto che le donne sono più avverse al rischio, meno portate alla competizione o a contrattare il proprio salario. In alcune professioni quest'ultima attitudine porta senz'altro un ritorno economico. Poi naturalmente c'è tutto l'aspetto legato alla discriminazione.

Ovvero?
Anche a parità di condizioni e caratteristiche alle donne vengono richiesti standard più elevati rispetto agli uomini.

I dati mostrano anche che il divario tende a crescere con l'età in molti paesi, ma non in Italia.
Spesso si sottolinea questo punto: due persone laureate nella stessa disciplina con identico voto dovrebbero essere in grado di avere lo stesso reddito. Eppure è stato mostrato che a parità di qualifica già i ragazzi guadagnano di più delle ragazze.

E come mai il gap aumenta nel tempo?
Perché gli svantaggi delle donne tendono a cumularsi. Maggiore anzianità di servizio, ruoli gerarchici di solito più elevati: sono tutti elementi che nel tempo si sommano e portano a questo risultato.

Eppure sotto questo aspetto l'Italia fa caso a parte.
Mi aspetterei è una maggiore differenza fra i 35 e i 44 anni, il periodo in cui professionalmente tendi a fare il “salto”. Come spiegazione penso anche, come dicevo prima, alla differenza nella partecipazione al mercato del lavoro. Un'altra possibilità è il peso del settore pubblico che in Italia è senz'altro maggiore del Regno Unito – magari non della Francia – e nel quale le differenze di reddito sono inferiori che nel privato. Ma non ho una spiegazione precisa per questo.

Un altro elemento che emerge, per il nostro paese, è il che gap fra giovani uomini e giovani donne è aumentato molto, circa dal 2010 in avanti.
Va detto che nel periodo precedente eravamo abbondamente sotto altri paesi, però possiamo notare che c'è una dinamica simile anche in Spagna. Anche lì, come da noi, l'occupazione femminile è diminuita meno di quella maschile: possiamo ipotizzare che alcune siano entrate nel mercato del lavoro per supportare il marito che ha perso il lavoro, per esempio. Persone con qualifiche – e quindi redditi – più bassi, che possono dunque aver fatto aumentare il gap.

Un paradosso.
Sì, è vero. Ma in effetti l'aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro genera spesso un aumento della differenza di reddito con gli uomini. Succede se molte di loro trovano un impiego a tempo determinato, per esempio.

Ma l'alternativa sarebbe avere donne che non lavorano affatto, e che per questo non vengono conteggiate nelle statistiche sulle differenze di genere?
Esatto.

Cosa è possibile fare, in termini di politiche da adottare, per ridurre il gap?
In primo luogo c'è l'istruzione: evitare che l'istruzione femminile si concentri solo in alcuni settori, ma anzi assicurarsi che l'investimento si diriga anche verso ambiti tecnico-scientifici, ingegneristici o medicali. Sono tutte discipline quantitative con un migliore ritorno sul mercato del lavoro.

E per quanto riguarda la struttura della carriera?
Per evitare frequenti interruzioni si può andare verso più politiche più “tradizionali” come quelle rivolte alla child-care e a servizi per l'infanzia in grado di rendere più agevole il tutto per la famiglia. In particolare se consideriamo che a farsi carico dei figli sono soprattutto le donne. Lo scopo è fare in modo che le interruzioni di carriera siano meno significative.

Che altro?
Un altro aspetto si è visto nel nostro paese, negli ultimi anni, e consiste nel cercare di limitare la cosiddetta “segregazione verticale”: ovvero fare in modo che le donne arrivino ai vertici. Le quote nei consigli di amministrazione, per esempio, possono essere lette in quest'ottica. Raggiunte queste posizioni di vertice, bisognerebbe vedere se poi si realizza un meccanismo a cascata che va a coinvolgere il top management e gli altri gradi gerarchici, che è l'idea di base.

Rispetto all'organizzazione del lavoro, invece?
In questo senso c'è tutta una parte legata ai tempi del lavoro, e cioè renderlo più flessibile. Il che non vuole dire per forza più part time, ma più in generale abbandonare nelle aziende l'idea di orari strettamente rigidi così da aumentare per le donne la possibilità di crescere nella loro carriera.

L'autore ringrazia Fausto Panunzi, professore all'università Bocconi di Milano, per l'aiuto durante il lavoro di ricerca per questo articolo.

Davide Mancino

Gli ispettori dell'Ue in Italia contro le fughe dei migranti

  • Mercoledì, 22 Luglio 2015 11:55 ,
  • Pubblicato in Flash news
La Stampa
22 07 2015

Non si fidano dell'Italia. Lo suggerisce anche la Commissione Ue, laddove sottolinea che il sistema degli "hotspot" per il controllo e la registrazione delle genti che attraversano il Mediterraneo, e poi sbarcano sulle nostre coste, è "concepito come contributo per facilitare l'attuazione degli schemi di riallocazione" dei disperati nei 28 Stati dell'Unione. ...

Marco Zatterin

Il grande assente è lo Stato

  • Lunedì, 20 Luglio 2015 17:21 ,
  • Pubblicato in L'Articolo

Cesare Martinetti, La Stampa
18 luglio 2015

Che sia la periferia di Roma o quella di Treviso, Casale San Nicola o Quinto. O Piacenza, Crema, Pisa, Livorno, dove già ora si vivono disagi. In questo caos dove tutti sono vittime e nessuno vincitore, l'unica cosa certa è l'assenza dello Stato....

Il grande assente è lo Stato

Che sia la periferia di Roma o quella di Treviso, Casale San Nicola o Quinto. O Piacenza, Crema, Pisa, Livorno, dove già ora si vivono disagi. In questo caos dove tutti sono vittime e nessuno vincitore, l'unica cosa certa è l'assenza dello Stato.
Cesare Martinetti, La Stampa ...

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