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Un tribalismo commerciale

Da anni, il lavoro di Marco Aime si concentra su alcuni nodi politico-sociali riletti e risignificati attraverso la lente dell'antropologia culturale e della sua grande esperienza che gli proviene dai molti viaggi e incontri in Asia, America Latina e Africa. Anche in questo suo ultimo libro, Etnografia del quotidiano. Uno sguardo antropologico sull'Italia che cambia (Elèuthera, pp. 192, euro 15) l'idea è quella di offrire una bussola per orientarsi intorno ad alcune istantanee del presente e farne punto di estesa discussione.
Alessandra Pigliaru, Il Manifesto ...

Amnesty International: da 40 anni in Italia

  • Venerdì, 17 Aprile 2015 11:43 ,
  • Pubblicato in Flash news

Amnesty International
17 04 2015

Il 2015 è un anno importante per i diritti umani in Italia: Amnesty International compie 40 anni.

Fino a quando parole come povertà, insicurezza, privazione, esclusione, discriminazione, violenza, tortura, pena di morte, detenzioni arbitrarie, processi iniqui, crimini di guerra e crimini contro l'umanità non diventeranno lontane, Amnesty International Italia continuerà a chiedere ai governi e ad altre entità (quali i gruppi armati e le imprese economiche) di rispettare per la loro parte i diritti umani e porre fine alle loro violazioni, e lo farà con ancora più forza e convinzione.

Tutto ebbe inizio nel lontano 1975, da quando un gruppo di poche decine di persone decise di dare vita alla sezione italiana dell'organizzazione, c'è Amnesty International. Sono passati da allora 40 anni: ed è una storia da raccontare (e noi la racconteremo, nel corso dell'anno), fatta di impegno e di battaglie, alcune vinte, altre ancora in corso.

È la storia di una parte della società italiana che crede profondamente nei diritti umani e vuole che questi diventino, molto più di quanto non siano attualmente, parte integrante della cultura del nostro paese e fonte di ispirazione di legislatori e governanti. Ed è la storia di chi non difende il proprio spazio ma che, al contrario, vorrebbe che fossimo molti di più; che vorrebbe condividere Amnesty, questo formidabile strumento di costruzione di un mondo più giusto e più libero, con molti altri. Per avere la forza di rendere la vita migliore a tante persone.

Vogliamo dedicare all'Italia e alle sue persone questo importante anniversario.

All'Italia che oggi finalmente sta lavorando per eliminare la tortura dalla realtà menzionandola nel codice penale; all'Italia che, dopo migliaia di morti in mare ha dato vita a un'iniziativa meritoria del governo denominata Mare nostrum - improvvidamente interrotta e senza il sostegno dell'Unione europea - per salvare la vita di chi attraversa il Mediterraneo per sfuggire a guerre, persecuzioni, povertà estrema, e che ancora all'inizio del 2015 si trova a soccorrere da sola migliaia di persone naufraghe in mare.

All'Italia nella quale gli atti di violenza domestica contro le donne sono dieci volte di più di quelli che vengono denunciati e che, mentre giustamente inasprisce le pene per tali atti, non trova risorse da destinare alla loro prevenzione. All'Italia nella quale vi è ancora chi pensa che l'omosessualità sia una malattia, da curare con le buone o con le cattive; o nella quale per un cittadino italiano di origine rom la prospettiva pare essere sempre e soltanto quella di essere "sgomberato", mese dopo mese, anno dopo anno.

La storia e i risultati raggiunti da Amnesty International in Italia e nel mondo raccontano l'impegno preso da milioni di persone in difesa dei più deboli, dei dimenticati.

Perché crediamo che il mondo sarà migliore quando, insieme, sentiremo nostre le ingiustizie del mondo.

Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia

Adesso c'è anche l'Onu a chiedere all'Unione europea un maggiore impegno per fronteggiare l'emergenza immigrazione. "L'Italia sta portando avanti un fardello enorme per conto dell'Europa", ha detto ieri il portavoce della Nazioni unite Stephane Dujarric riferendosi alle migliaia di profughi che ogni giorno arrivano nel nostro paese. 
Il Manifesto ...

Fisco e appalti irregolari: un Paese a delinquere

Un paese illegale. È questa l'Italia che emerge dal rapporto 2014 della Guardia di Finanza. Non che sia una sorpresa: ma a leggerli tutti in fila, cifre e fatti spiccano ancora più crudi. Sono cifre e fatti di un paese in cui si froda su tutto. Sul fisco, naturalmente, ma anche sugli appalti (uno su tre è risultato irregolare, per un totale di quasi 1,8 miliardi) e sull'energia, sulla previdenza e la sanità, sui fondi comunitari e sugli incentivi alle imprese. Un paese che accumula illegalmente tonnellate di rifiuti industriali.
Nunzia Penelope, Il Fatto Quotidiano ...

Internazionale
20 02 2015

Uno studente italiano su tre abbandona la scuola statale superiore senza aver completato i cinque anni. È quanto emerge dai dati del ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca elaborati nel dossier Dispersione di Tuttoscuola. Un dato che in alcune regioni, come le isole, arriva a quota 35–36 per cento.

Una vera e propria emorragia tra le mura e i banchi delle scuole italiane, che prosegue silenziosa e inosservata. “Negli ultimi 15 anni quasi 3 milioni di ragazzi italiani iscritti alle scuole superiori statali non hanno completato il corso di studi”, spiegano gli autori del dossier. “Si tratta del 31,9 per cento dei circa 9 milioni di studenti che hanno iniziato in questi tre lustri le superiori nella scuola statale”. Facendo i calcoli è come se l’intera popolazione scolastica di Piemonte, Lombardia e Veneto non ce l’abbia fatta.

Un fenomeno nazionale, che unisce nord e sud passando per il centro e le isole. Si passa da regioni più virtuose come l’Umbria e le Marche dove circa l’80 per cento degli studenti termina il quinquennio, a regioni come la Sicilia, la Sardegna e la Campania dove il dato arriva a poco più del 60 per cento. Un problema che colpisce anche le regioni settentrionali, dove la quota più allarmante si registra in Lombardia, con il 29,8 per cento, seguita dalla Toscana con il 28,4 per cento di ragazzi persi per strada prima del quinto anno.

Le cose poi variano molto di provincia in provincia, come se ogni regione d’Italia abbia la sua sacca di dispersione scolastica. Province nella stessa regione presentano tassi di abbandono molto diversi. Per esempio Firenze e Prato, dove rispettivamente il 29 e il 38 per cento degli studenti non completano il quinquennio. La maglia nera va a Caltanissetta, dove quasi la metà degli studenti non termina il ciclo delle scuole superiori (41,7 per cento), seguita da Palermo e Catania (rispettivamente 40,1 per cento e 38,6 per cento). Ciò significa che in queste province quattro studenti su dieci abbandonano i banchi precocemente.

Una distribuzione a macchia di leopardo che ridimensiona il divario tra mezzogiorno e resto d’Italia. Se infatti Caltanissetta spicca in negativo, al meridione appartiene anche la provincia che presenta il tasso di dispersione più basso: Benevento, con il 14 per cento di dispersi prima di finire le superiori. Allo stesso tempo tra le provincie con il più alto tasso di abbandono ne compaiono alcune del centronord come Prato (38,5 per cento) e Asti (36,3 per cento).

Nel tempo le cose sembrano migliorare, ma il fenomeno è duro a morire. Nel 2000 i ragazzi non arrivati al diploma del quinto anno erano stati 216.805, cioè il 36,8 per cento di quelli che erano presenti al primo anno. Nel 2014 si è scesi alle 167mila unità, pari al 27,9 per cento. Di questi, 69mila sono usciti dopo il primo anno, 22mila dopo il secondo, 39mila dopo il terzo e 37mila prima dell’ultimo anno. Concentrandosi sul biennio dell’obbligo a livello nazionale, il 15 per cento dei giovanissimi italiani nell’anno scolastico 2013-14 ha lasciato i banchi senza completare il terzo anno delle scuole superiori.

I numeri cambiano molto tra i vari indirizzi scolastici. Negli istituti professionali quattro studenti su dieci lasciano i banchi prima del quinto anno, a fronte di circa due su dieci dei licei classico e scientifico. Anche gli indirizzi artistici hanno un tasso di abbandono molto alto: il 35 per cento.

Quello della dispersione scolastica è un problema che passa inosservato, ma che porta con sé costi sociali, politici ed economici molto alti. Lo sa bene l’Europa che ha inserito tra i cinque obiettivi principali della Strategia Europa 2020 – il pacchetto decennale per la crescita e il lavoro lanciato dall’Unione europea nel 2010 – quello di ridurre al 10 per cento la quota di early school leavers, ossia dei giovani europei tra i 18 e i 24 anni che smettono di studiare dopo la licenza media (o l’equivalente europeo). I ragazzi che lasciano la scuola, spiega l’Unione europea, “sono più soggetti alla disoccupazione, hanno bisogno di più sussidi sociali e sono ad alto rischio di esclusione sociale, con conseguenze sul benessere e la salute. Inoltre, tendono a partecipare meno ai processi democratici”.

Nel contesto europeo l’Italia appare ai piani bassi della classifica, con il 17 per cento di early school leavers registrati nel 2013. Un dato che posiziona il nostro paese a pari merito con la Romania. Ben al di sotto della media dei ventotto paesi europei, pari al 12 per cento. E lontanissima dalle prime in classifica, come Slovenia e Croazia, entrambe sotto il 5 per cento.

Il quadro è drammatico anche dal punto di vista economico. Il fatto che 167mila ragazzi abbandonano la scuola prima del termine del quinquennio vanifica gli sforzi di 12.800 professori. E quindi è come se facesse sprecare 503 milioni di euro all’anno per la fine di ogni ciclo della scuola superiore.

Molti dispersi finiscono inoltre per rientrare nella categoria dei neet, i giovani che non studiano e non lavorano (not in education, employment or training). L’Istat nel rapporto Noi Italia 2014 ne ha contati oltre due milioni, circa il 24 per cento dei giovani tra i 15 e i 29 anni. Una quota significativamente superiore a quella media dell’Unione europea (15,9 per cento di inattivi).

Altre stime, come quella del rapporto Social Justice in the EU, parlano del 32 per cento di giovani italiani inattivi di età compresa tra i 20 e 24 anni. E che ha un costo enorme sull’economia: Confindustria stima un costo pari a 32,5 miliardi di euro l’anno. Se i giovani inattivi entrassero nel sistema produttivo, il prodotto interno lordo italiano salirebbe di 2 punti.

Jacopo Ottaviani

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