D.i.Re
07 05 2015
Domani 7 maggio alle 14 il Governo sottopone all’intesa della Conferenza unificata Stato Regioni il Piano Straordinario contro la violenza sessuale e di genere previsto all’articolo 5 della legge numero 119 del 2013.
Il Governo Renzi perde un’occasione storica di combattere con azioni specifiche, coordinate ed efficaci la violenza maschile contro le donne attraverso un Piano che affronti le esigenze tassative poste dalla Convenzione di Istanbul per prevenire e combattere la violenza maschile.
Il ruolo dei Centri Antiviolenza risulta depotenziato in tutte le azioni del Piano e vengono considerati alla stregua di qualsiasi altro soggetto del privato sociale senza alcun ruolo se non quello di meri esecutori di un servizio.
Il Piano non è stato concertato con le Associazioni. D.i.Re, l’Ass. naz. Telefono Rosa Onlus, Udi, fondazione Pangea, Maschile Plurale, che firmano questo comunicato e che non hanno avuto parte alcuna nella elaborazione e nella stesura di questo documento – che, anzi, è stato comunicato loro senza possibilità di cambiamento. Questo Piano non è stato nemmeno sottoposto alla Task Force governativa in materia, il cui lavoro di due anni, sia pure a volte discutibile, è stato in grande parte del tutto vanificato.
Il caotico sistema di “governance” delineato in questo Piano non garantisce il buon funzionamento di tutto il sistema nazionale e pone, inoltre, rilevanti problemi giuridici di coordinamento a livello locale, vanificando il funzionamento delle reti territoriali già esistenti, indispensabili per una adeguata protezione e sostegno alle donne. In particolare, le grandi città, le Province e le Città metropolitane rischiano che, sullo stesso territorio, si creino più reti con gli stessi soggetti istituzionali che si sovrappongono tra loro (es. ASL, Procura, Prefettura).
La distribuzione delle risorse viene frammentata senza una regia organica e competente. Non avrà quindi alcuna ricaduta sul reale sostegno dei percorsi di autonomia delle donne. L’allocazione delle risorse è inoltre, assolutamente esigua per gli obiettivi del piano in ambito triennale, troppo sbilanciata sui percorsi di inclusione, in particolare quelli di inserimento lavorativo, a scapito dell’ascolto, dell’accoglienza, dell’ospitalità, dei percorsi di empowerment.
Il linguaggio del Piano è discriminatorio rispetto al genere: non c’è la declinazione al femminile nemmeno quando si parla di figure professionali femminili.
Infine, la funzione dell’Istat, l’istituzione dello Stato che fino ad oggi ha raccolto, validato ed elaborato i dati sulla violenza di genere, è cancellata dal Piano. Viene istituita una “Banca Dati” che sarà appaltata a privati. Con questa decisione scompare il progetto di rendere stabile e obbligatoria una periodica ricerca sulla violenza di genere. Senza queste ricerche periodiche non è pensabile – né verificabile – alcuna politica di prevenzione e di contrasto.
D.i.Re Donne in Rete contro la Violenza
Ass. Nazionale Telefono Rosa Onlus
Udi – Unione Donne Italiane
Fondazione Pangea
Maschile Plurale
La Repubblica
23 03 2015
E’ pieno giorno in India, sono le 2,30 del pomeriggio, fa caldo e la stazione di Kandivli a Mumbai pullula di passeggeri in arrivo o in partenza. Pradnya Mandhare, 20 anni cammina svelta verso i binari per tornare a casa dopo una mattina di lezione nel college universitario di Sathaye alla periferia della metropoli. Nella calca viene avvicinata da un uomo …
Cronache di ordinario razzismo
23 03 2015
Sono storie tristi quelle che ci giungono dalle campagne del ragusano. Storie di violenze e di sfruttamento. Storie di donne migranti sole, magari con figli piccoli. Storie inaccettabili e sottaciute.
Ma con tristezza e rabbia ancor più grande, scopriamo che la storia di Luana, cittadina rumena, che si è ribellata al suo datore di lavoro perché sfruttata e violentata, riportata in un articolo di ieri, non è recente, ed è soltanto la punta dell’iceberg di un fenomeno che neanche immaginiamo.
Infatti, la vicenda è tornata a galla durante un seminario su “La tratta di esseri umani in Europa e in Italia”, organizzato dall’associazione Ciss di Palermo. Ma è una storia già denunciata nel settembre 2014, attraverso un’indagine de L’Espresso, che a sua volta, ha preso le mosse da una ricerca condotta da Alessandra Sciurba dell’Università di Palermo. E purtroppo, nonostante la gravità dei fatti, non ha avuto “l’onore” di essere diffusa e denunciata abbastanza.
L’indagine parla del “nuovo orrore delle schiave romene” a Vittoria. Di fatto, l’analisi è interessante perché spiega come, nelle campagne, i lavoratori rumeni, a partire dal 2007, abbiano lentamente soppiantato quelli tunisini, chiedendo, rispetto a quest’ultimi, dei salari nettamente inferiori. Ma, ancor più interessante è la filiera migratoria al femminile. Una novità. Le donne tunisine non partecipano alla vita dei campi. Quelle rumene si, andando a creare una nuova e odiosa forma di doppio sfruttamento: agricolo/lavorativo e sessuale. Il silenzio dell’agro e i casolari isolati sono ottimi alleati, anche per segregare ulteriormente, per nascondere. Qualcuno aggiunge la “mentalità omertosa”. Ma di fronte a questo nuovo orrore, non vi sono giustificazioni di sorta. Il quadro della situazione è terribile, poiché sovrappone alle vecchie forme di sfruttamento (accompagnate dai bassi salari, dalle condizioni abitative ai limiti della decenza, tanto da chiedere l’intervento degli operatori sia di Emergency che di Medici Senza Frontiere, quasi fosse una zona di “guerra”, e non un distretto produttivo), nuove prospettive, come quella dello sfruttamento sessuale delle lavoratrici (che porta con se anche l’angosciante fenomeno degli aborti, molti dei quali clandestini).
Nelle cronache nazionali, non vi è traccia. Eppure, il fenomeno dello sfruttamento delle donne straniere in campagna, non è una vicenda che si conosce solo dall’altro ieri e grazie all’inchiesta de L’Espresso, bensì pare che s’insinui sotterraneamente nel tessuto del territorio da diversi anni. Eppure, nel giorno in cui in Prefettura si discute dei problemi dello sfruttamento del lavoro femminile in agricoltura e degli abusi sessuali nei confronti di alcune lavoratrici straniere, a seguito dell’inchiesta dell’Espresso, la notizia dell’ennesimo episodio di molestie sessuali nei confronti di una donna rumena, ancora una volta non desta attenzione.
Eppure, sempre all’indomani dell’inchiesta de L’Espresso, pare ci sia stata la visita di una delegazione parlamentare (Ansa del 16 ottobre 2014), giunta sul posto per analizzare la situazione delle donne straniere nelle campagne del ragusano.
E ancora. Nell’ottobre 2014, persino un parroco della zona si è visto minacciare (da chi?, ndr) per aver denunciato (lo ha fatto attraverso la radio vaticana) i cosiddetti “festini agricoli”, ovvero delle feste nei casolari, dove i “padroni” insieme agli amici cercano “sollazzi” costringendo le giovani donne straniere, per lo più cittadine rumene, a cedere alle loro richieste.
Quindi, nonostante tutte queste premesse, ci chiediamo come mai non siano ancora state prese delle misure adeguate. Come mai non se n’è parlato abbastanza.
Ma, torniamo alla storia-simbolo di Luana. Quaranta anni, due figli a carico, dopo il suicidio del marito in Romania. Lavora in una serra sperduta nell’agro ragusano e vive in un casolare fatiscente poco lontano. Una vita di stenti e sacrifici. Il suo “padrone” si offre di accompagnare a scuola i due piccoli, viste le enormi difficoltà del tragitto da percorrere, lungo e pericoloso. Ma non senza un “ritorno”. L’uomo la chiama, la assilla anche in piena notte. Le fa richieste sessuali pressanti. Lui vive poco distante con la moglie e un figlio. Luana teme soprattutto le minacce dell’uomo, ha paura per i figli. Luana sopporta tutto e a lungo. Anche quando lui la minaccia con la pistola. Ma, quando le dice, per ripicca, che non porterà più i bambini a scuola, e non darà più acqua da bere, Luana decide di fuggire. Viene accolta e protetta nel centro dell’associazione “Proxima”, e inserita nei programmi destinati alle “vittime di tratta”. Come se si trattasse di una storia di prostituzione. Dopo un mese, decide di andare via. E torna a lavorare nuovamente nelle serre. Forse per mancanza di alternative valide, di un percorso che la faccia reinserire nella società. Torna nelle serre e non sappiamo più nulla di lei. Anche se significherà prendere un salario da dieci euro al giorno, sopportare temperature di fuoco, e respirare veleno. In tutti i sensi.