È per questo che, dopo quattro anni in cui era praticamente scomparso, quando ha chiesto di riallacciare i rapporti con il figlio ha ottenuto dal tribunale, che a suo tempo aveva decretato l'affidamento congiunto del bambino, di poterlo vedere in incontri protetti. La ex moglie non si è opposta. È Filippo a ribellarsi, a piangere, a tentare ogni volta di fuggire, ad essere trascinato a forza agli incontri dagli educatori.
Franca Selvatici, la Repubblica ...

Stereotipi vecchi e nuovi

  • Sabato, 11 Ottobre 2014 10:05 ,
  • Pubblicato in L'Analisi

Chagall, uomo e donnaMarisa Guarnieri, Libreria delle donne di Milano
9 ottobre 2014

Negli ambienti che si occupano di “violenza di genere” circola un nuovo stereotipo.
Fare azioni a favore dei maltrattanti (uomini che hanno fatto, fanno, vorrebbero fare violenza alle donne) fa bene alle donne ed alla società.

L'Espresso
01 10 2014

Cinquemila donne lavorano nelle serre della provincia siciliana. Vivono segregate in campagna. Spesso con i figli piccoli. Nel totale isolamento subiscono ogni genere di violenza sessuale. Una realtà fatta di aborti, “festini” e ipocrisia. Dove tutti sanno e nessuno parla-


VITTORIA (RG) - «Possono prendere il mio corpo. Possono farmi tutto. Ma l’anima no. Quella non possono toccarmela». Alina mi indica un locale in mezzo alla campagna. «Lì dentro succede tutte cose possibili». È uno dei pochi edifici che interrompe la serie infinita di serre. Il bianco dei teli di plastica va da Acate a Santa Croce Camerina. Siamo a Sud di Tunisi, terra rossa e mare azzurro che guarda l’Africa. Siamo nella “città delle primizie”, uno dei distretti ortofrutticoli più importanti d’Italia. Il centro di un sistema produttivo che esporta in tutta Europa annullando il tempo e le stagioni. Gli ortaggi che altrove maturano a giugno qui sono pronti a gennaio. Un miracolo chimico che ha ancora bisogno di braccia.

I tunisini arrivarono già negli anni ’80, a frontiere aperte. Le dune di sabbia, il clima rovente, le case cubiche più o meno incomplete ricordavano la nazione di provenienza. Hanno contribuito al miracolo economico della provincia – l’oro verde - e poi sono stati sostituiti senza un grazie. Dal 2007 arrivano nuovi migranti che lavorano per metà salario. I rumeni. E soprattutto le rumene. Nell’isolamento della campagna sono una presenza gradita. Così è nato il distretto del doppio sfruttamento: agricolo e sessuale.

FESTINI

Una cascina in aperta campagna. Ragazze rumene sui vent’anni. Un padrone che offre carne fresca ai parenti, agli amici. Ai figli. Tutti sanno e tutti tacciono. Don Beniamino Sacco è il sacerdote che per primo ha denunciato i “festini agricoli”. «Sono diffusi soprattutto nelle piccole aziende a conduzione familiare», denuncia il parroco. Tre anni fa ha mandato in carcere un padrone sfruttatore. Ha subito minacce e risposto con una battuta: «Non muoio neanche se mi ammazzano».

La solidarietà è scarsa, anche tra rumeni. Come è possibile che tutto questo succeda nel silenzio generale? Secondo Ausilia Cosentini, operatrice sociale dell’associazione “Proxima”, «la mancanza di solidarietà tra i rumeni, e la loro mentalità omertosa, si incastra con quella altrettanto omertosa del territorio. In più, da qualche mese noto un aumento dell’intolleranza».

«Se non ci fossero i migranti, la nostra agricoltura si bloccherebbe», dice all’Espresso Giuseppe Nicosia, sindaco di Vittoria. «C’è una buona integrazione, ma la violenza sulle donne è un peso sulla coscienza di tutti. Un fenomeno disgustoso, anche se in regressione». Giuseppe Scifo della Flai Cgil spiega che allo sfruttamento lavorativo si aggiunge la segregazione. Per questo è stato avviato il progetto “Solidal Transfert”, un pulmino che permette di spostarsi senza dipendere dai padroni. «Ho conosciuto rumeni che non erano mai stati in paese», dice.

Uno squillo

«Se sei abituato dalla Romania, qui non è tanto più pesante», spiega Adriana con un sorriso. Non è facile crederci ascoltando la storia di Luana, quaranta anni. I due figli l’hanno raggiunta dopo il suicidio del marito in Romania. Lavora in una serra sperduta nelle campagne di Vittoria, vive in un casolare fatiscente nei pressi. La scuola è difficile da raggiungere a piedi. Il tragitto è lungo e pericoloso per due bambini soli. Il padrone è un signore di Vittoria. Si offre generosamente: «Li accompagno io». La sua non è una richiesta disinteressata.

In piena notte la chiama. Chiede se i bambini si sono addormentati. Le dice di raggiungerlo sotto un albero. Anche il padrone vive lì, a due passi. Con la moglie e un figlio. Luana teme soprattutto le minacce dell’uomo, ha paura per i bambini. A volte si nega. Lui subito minaccia. «Non li porto più a scuola. Niente acqua da bere. Neanche a te. Qui c’è caldo e l’acqua che diamo alle serre è avvelenata. Vuoi andare al supermercato? È molto lontano».

Luana sopporta tutto. Persino quando lui perde la testa e la minaccia con la pistola. Ma quando dice che non porterà più i bambini a scuola, condannandoli all’isolamento più assoluto, pensa che può bastare. Decide di fuggire. Di notte prepara la valigia, prende i bambini per mano. Luana è stata accolta e protetta nel centro di accoglienza dell’associazione “Proxima”. È inserita nei programmi destinati alle vittima di tratta. Come se fosse una storia di prostituzione. Si tratta invece di lavoratrici che producono ortaggi. Quelli che tutti compriamo al supermercato. Dopo un mese ha deciso di andare via. Ora lavora nuovamente nelle serre. Sfruttamento estremo significa anche mancanza di alternative.

Lontano da Seva

La storia di Luana è stata raccolta da Alessandra Sciurba, ricercatrice dell’Università di Palermo. Perché le donne accettano queste condizioni? «In genere sono consapevoli di quello che le aspetta. Ma lo fanno per tenere unita la famiglia». Nelle serre puoi vivere coi bambini. A casa di un anziano no. Meglio quindi fare la contadina che la badante. Per questo ci sono nelle serre tante mamme rumene coi bambini. «Possiamo parlare di un estremo esercizio del diritto all’unità familiare».

Le rumene vengono da Botosani, una delle zone più povere del paese. Anche lì lavoravano in campagna. «Non potevo stare lontana da Seva, sono troppo attaccata», dice Adriana. Sciurba spiega che le rumene possono essere definite bread winner. Sono le prime a partire. I mariti, se arrivano, arrivano dopo. Intanto gli italiani diventano padroni della loro vita e della loro morte. Sono padroni in tutti i sensi. Le rumene hanno una “considerazione inferiorizzata” di tutti gli uomini: tunisini, rumeni, italiani. «Qualunque cosa possono farci, loro sono niente», conferma Adriana.

Un’altra storia raccolta da Sciurba è quella di Cornelia e Marco. Cercavano una situazione tranquilla. Una serra dove portare la bambina e un padrone che tiene le mani a posto. Hanno trovato un lavoro vicino Gela. Dieci ore al giorno, pochi soldi e in nero. La “casa” è una stanza spoglia nel magazzino. «Ma non devi guardare mia moglie», ha chiarito Mario al padrone. Va bene, ha risposto lui. Anche perché c’è un’altra rumena, sposata, che assecondava le sue voglie. Il marito fa finta di niente per non perdere il lavoro.

Nella serra ci sono cani da guardia molto aggressivi. Sono addestrati per sorvegliare e controllare i lavoratori. Un giorno un dobermann azzanna Cornelia e la bimba, ferendo gravemente alla coscia la piccola. «Ci sono voluti quasi 100 punti», dice mostrando la gambetta della bimba. «Io la tenevo in braccio e ho cercato di proteggerla ma è stato impossibile fermare il cane». Arrivano i carabinieri, il padrone dice che l’animale passava per caso. Intanto il dobermann viene nascosto. La rumena che ha una relazione col padrone conferma. Cornelia e Marco devono ricevere ancora 5000 euro. Denunciano l’uomo. La bambina dovrà essere sottoposta a intervento chirurgico per fare in modo che il muscolo possa svilupparsi correttamente.

Almeno i due non pagavano l’affitto. C’è anche chi chiede fino a 300 euro al mese per un rudere. «Ci sono abitazioni piccole e senza infissi», rivela una ricerca condotta dall’“Associazione per i diritti umani”. «I buchi nel soffitto fanno passare l’acqua piovana. Le mura sono erose dall’umidità. Proliferano i miceti, con conseguenti patologie come l’asma in soggetti, soprattutto in tenera età, prima perfettamente sani. Il tutto nel totale disinteresse del locatario». Nella zona sono intervenuti sia Emergency che Medici Senza Frontiere. Come fosse una zona di guerra e non un distretto produttivo. Spesso gli operatori affermano che certe cose (letti di cartoni, cucine col fornelletto a gas, magazzini adattati ad abitazione) non le hanno viste nemmeno in Africa.

L’anima non me la toccano

È il più spaventoso dei metodi contraccettivi. Vittoria è il primo comune in Italia per estensione delle coltivazioni plastificate e per numero di aborti in proporzione al numero di abitanti. Va avanti così da anni. Spesso le rumene sono giovanissime. Arrivano in ambulatorio accompagnate da uomini, in genere italiani ma a volte anche tunisini e albanesi. «Restano sedute con lo sguardo fisso a terra e gli uomini parlano al posto loro», racconta un’operatrice dell’Asl. «Anni fa un tunisino mi ha portato tre ragazze rumene, tutte incinta, per farle abortire. Parlavano poco. Quando sono rimasta sola con loro mi hanno detto di lavorare nelle serre di cui lui era proprietario».
«Nel caso specifico di Vittoria le donne si trovano impossibilitate ad interrompere la gravidanza poiché tutti i medici sono obiettori di coscienza», spiega la ricerca dell’“Associazione Diritti Umani”. Solo all’ospedale di Modica sono presenti medici non obiettori, ma la crescita esponenziale di richieste di aborto porta un allungamento dei tempi di attesa, rendendo impossibile l’aborto entro i tre mesi previsti dalla legge. Alcune donne sono costrette a ritornare nei loro paesi d’origine per abortire. Altre, invece, si affidano a strutture abusive e a persone che, sotto cospicuo pagamento, praticano l’aborto senza averne competenza».

L’uomo cacciatore

Per le vittoriesi la colpa è delle rumene. Sono loro a tentare il maschio siciliano, per sua natura focoso. C’è una fortissima rivalità tra donne. L’“uomo cacciatore”, ovviamente, è orgoglioso delle “conquiste”. Vantarsi di queste cose dentro le serre è normale. Molto complessa la figura del marito rumeno, a volte presente anche lui in serra. Sa e non sa, vede e non vede. Se non accetta la situazione, è il primo a essere cacciato.
Di fronte a certi orrori lo sfruttamento sul lavoro passa quasi in secondo piano. Anche se significa salari da dieci euro al giorno, temperature di fuoco sotto i teloni, veleno che può rovinare i polmoni, la pelle, gli occhi. Per non parlare delle “fumarole”. Quando di notte bruciano piante secche e fili di nylon, di mattina si soffoca.
Così si produce l’ortofrutta che troviamo in tutti i supermercati. «Abbiamo circa 3000 aziende agricole di piccola e media dimensione», spiega il sindaco Nicosia. «È la più grossa espressione dell’ortofrutta meridionale, oltre che il mercato è il più importante d’Italia di prodotto con confezionato». Nel 2011 risultavano regolarmente registrati 11845 migranti, una stima di quelli che lavorano nelle serre oscilla tra 15mila e 20mila. Migliaia di schiavi che ci permettono di mangiare ortaggi fuori stagione.

La Repubblica
30 09 2014

In Iran, è stata rinviata l'impiccagione della 26enne iraniana Reyhaneh Jabbari, condannata a morte per omicidio. Lo riporta il sito di Iran Human Rights (Ihr), organizzazione non governativa che si batte contro la pena di morte nella Repubblica islamica. L'esecuzione, prevista per stamane, è slittata di 10 giorni. La donna - scrive Ihr - è stata riportata dal carcere di Rajaishahr, dove era programmata la sua impiccagione, alla prigione di Varamin, a sud di Teheran. Secondo l'ong, decine di persone si erano radunate ieri davanti all'istituto penitenziario di Rajaishahr per protestare contro la sua impiccagione.

La notizia dell'imminente esecuzione di Reyhaneh Jabbari era stata confermata su Facebook dalla madre della giovane, Sholeh Pakravan. Secondo quanto scritto dalla donna, Reyhaneh le aveva comunicato di essere stata trasferita nel carcere di Rajaishahr. Da fonti carcerarie la madre di Rayhaneh aveva appreso che sua figlia era sulla lista delle prossime esecuzioni.

La 26enne iraniana è stata condannata a morte per l'omicidio, avvenuto sette anni fa, di un ex impiegato del ministero dell'Intelligence, Morteza Abdolali Sarbandi. Reyhaneh, allora 19enne, lo avrebbe ucciso perché aveva cercato di stuprarla. La giovane aveva confessato di essere l'autrice del delitto subito dopo l'arresto, affermando di aver agito per autodifesa. Ma non le fu consentito di avvalersi di un avvocato durante la deposizione e aveva finito con l'essere condannata a morte da una corte penale della capitale iraniana nel 2009, sentenza confermata dalla Corte Suprema pochi mesi dopo.

A marzo di quest'anno i familiari di Reyhaneh sono stati informati che la donna sarebbe stata giustiziata in 15 aprile: anche allora l'esecuzione era poi stata rimandata. Sul caso di Reyhaneh Jabbari si era già appuntata l'attenzione anche dell'Onu e artisti iraniani si erano mobilitati per salvarla raccogliendo fondi per il "diyeh", il cosiddetto "prezzo del sangue" che il condannato deve pagare alla famiglia della vittima se questa acconsente a commutare la pena capitale in detenzione. Proprio in aprile era sembrato che il figlio del funzionario ucciso fosse disposto ad accettare quel risarcimento se la ragazza avesse rivelato il nome di un secondo uomo che sarebbe stato nell'appartamento al momento dell'uccisione di suo padre.

Ihr ha lanciato un appello alla comunità internazionale e a tutti i Paesi che hanno rapporti con l'Iran affinché "usino i loro canali per fermare l'esecuzione di Reyhaneh". Il presidente di Neda Day, Taher Djafarizad, chiede una mobilitazione internazionale per scongiurare l'esecuzione e punta l'indice contro il presidente iraniano Hassan Rohani. "Da quando è al potere - dice - le esecuzioni sono aumentate. Non è affato un moderato, è sempre stato dentro l'apparato del regime e ha avuto un ruolo in tutte le pagine più nere della Repubblica Islamica. L'Occidente ripone in lui una fiducia ingiustificata". L'associazione presieduta da Djafarizad, che risiede a Pordenone, ha lanciato una campagna con la quale invita tutti gli italiani a recapitare un messaggio di protesta contro Rohani all'ambasciata iraniana a Roma, nel tentativo di riuscire a fermare l'esecuzione di Reyhaneh.

"Violenza sulle donne, fermiamola all'inizio"

  • Mercoledì, 24 Settembre 2014 14:03 ,
  • Pubblicato in L'ESPRESSO

L’Espresso
24 09 2014

“Fermarla prima che inizi”. Questo è il monito che Rona Salomon, la vice direttrice del Centro contro la Violenza domestica di New York, ripete piu’ volte prima di salutarmi, con quel suo tono determinato ma accogliente che non perde mai durante tutta l’intervista, persino in quei momenti in cui le considerazioni personali prendono il sopravvento tradendo, se cosi’ si puo’ dire, la sua immutata passione per un lavoro che la vede in prima linea da vent’anni.

Il Consiglio d'Europa pubblica un rapporto sulle attività dei paesi Ue per il contrasto ai maltrattamenti. E noi siamo in fondo alle classifiche: pochi posti letto, poca prevenzione, poca formazione. Anche se le leggi ci sono. E gli omicidi per la prima volta sembrano in diminuzione. Mentre continua la polemica sui fondi
Era il 1976 quando, a New York, grazie alla spinta di un forte movimento di opinione che premeva in tale direzione, nacque il primo Centro contro la violenza domestica che, solo un anno dopo, aprì il primo punto di accoglienza per le donne che chiedevano aiuto. Era stato, infatti, immediatamente chiaro dall’incontro con le donne che si erano fatte avanti per condividere la propria storia che il “non saper dove andare”, era uno dei maggiori deterrenti contro la fuga da situazioni di violenza.

Oggi il centro, che ha la sua sede principale a Brooklyn, ha tre case di accoglienza che ogni anno offrono rifugio a circa 1000 fra donne e bambini. “E’ evidente – chiarisce subito la Solomon – che la violenza domestica riguarda anche gli uomini, ma le cifre a sfavore delle donne, purtroppo, parlano da sole”.

Secondo l’APA ( American Psychological Association ), infatti, negli USA, più di una donna su tre è vittima di stupro, violenza fisica o stalking da parte di un partner; una studentessa di scuola superiore su cinque è vittima di abusi sessuali e psicologici da parte di ragazzi con cui esce e, in media, più di tre donne ogni giorno sono uccise dai loro partner.

Questo, a distanza di vent’anni da quando il presidente Bill Clinton firmò, trasformandolo in legge, il Violence Against Women Act, fortemente sostenuto e voluto dall’allora senatore Joe Biden, oggi vice presidente del paese e ancora instancabile sostenitore dei diritti delle donne. Grazie a quella legge, per esempio, picchiare una donna diventò un “fatto serio” con conseguenze altrettanto drammatiche.

“La decisione della NFL" dice la Solomon riferendosi alla vicenda di Ray Rice, il giocatore di football americano dei Baltimore Ravens espulso a tempo indeterminato per un episodio di violenza a danno dell'allora fidanzata, oggi moglie, Janay Palmer "è ammirevole in questo senso. Sono lieta che ci sia stato un ripensamento rispetto all’originaria sospensione per soli due turni che avrebbe dato un segnale sbagliato. Per fortuna, l’attivismo di tutti coloro che hanno inviato mail di protesta alla lega e fatto sentire la propria voce attraverso i social network ha funzionato e ora la NFL ha dimostrato di dare il giusto peso a una vicenda cosi grave”.

Rice era stato filmato dalla telecamera a circuito chiuso di un ascensore mentre colpiva duramente la donna che si accasciava a terra priva di sensi, tanto che lui era costretto a trascinarla per i piedi una volta arrivati a destinazione. Un episodio che ha riportato la violenza domestica sotto i riflettori “ma non ha spinto piu’ donne a denunciare abusi”, perlomeno a New York. Rona Solomon, infatti, ritiene che sebbene la storia di Rice sia “utile” per far parlare di più di questo problema, essa è troppo lontana, almeno apparentemente, dalla quotidianità delle vittime che non sentono di potersi paragonare a personaggi famosi.

“Eppure la violenza domestica riguarda tutti i tipi di donne – precisa la Solomon – Ricche, povere, colte, con carriere importanti, di religioni ed etnie diverse: tutte possono diventare vittima e l’unico elemento che può aiutare a uscire fuori dalla spirale della violenza è la stima di sé”.

Facile, dunque, trovarsi in una relazione violenta, difficile uscirne, come testimonia il successo dell’hashtag ì#WhyIStayed che sta raccogliendo, da giorni, le storie di donne che non hanno avuto il coraggio di chiedere aiuto a lungo, nonostante situazioni familiari intollerabili.

“Le donne restano per due ragioni fondamentali – dice la Solomon – La prima è la paura. Paura di scatenare una rabbia ancora pù feroce, una violenza ancor più cieca. “L’obiettivo”, in una relazione domestica basata sulla violenza è quello di avere il controllo totale sulla vittima e la fuga rappresenterebbe la perdita di tale controllo e il conseguente esplodere della rabbia. La seconda ragione è l’amore. Si sta in una relazione per amore e si fa di tutto per farla funzionare. A tutti capita di vivere relazioni difficili da cui si fa fatica ad uscire e la violenza, laddove c’è, viene vista troppo a lungo come un elemento risolvibile”.

Se ci sono due ragioni fondamentali per restare ce n’è almeno una, ancor più determinante, per scegliere di andare via: i figli. “Se un uomo non estende la sua violenza ai figli, la donna resta più a lungo possibile, ma nel momento in cui anche i figli diventano vittime, la fuga diventa quasi sempre inevitabile”. E se ci sono innumerevoli fattori che contribuiscono a relazioni violente e che vanno dalla religione, che spesso giustifica comportamenti dominanti nei confronti delle donne, alla violenza dell’ambiente in cui si vive, sia familiare che sociale, c’e un elemento essenziale che può diventare il vero argine alla diffusione di questo fenomeno: l’educazione.

“Noi organizziamo – dice la Solomon – moltissimi interventi all’interno delle scuole per insegnare come vivere una relazione “sana”. Ogni anno, circa 2700 studenti sono coinvolti in workshop che aiutano a stabilire i limiti comportamentali che bisogna imparare a rispettare. Il nostro obiettivo è quello di gettare le basi perché il loro futuro sia sano ed equilibrato”. Senza mai arrendersi, perché il fatto che oggi ci siano tante denunce, non significa necessariamente che le cose siano peggiorate, piuttosto che la rete di protezione sociale e legale costruita intorno alle donne funziona meglio e abbatte sempre di piu’ il muro della paura, spingendole a chiedere aiuto.

facebook