Corriere delle Migrazioni
09 12 2013
09 12 2013
Fabio Bracci
Edoardo Nesi scrive da anni lo stesso articolo. Fino a due decenni fa Prato produceva “i tessuti più belli del mondo”. La ricchezza generata era distribuita equamente. Eravamo giovani. E soprattutto felici.
I suoi articoli e i suoi saggi sono scritti con mestiere, ma questa notazione non vuole essere un complimento. Il tono, il lessico e il ricorso a figure retoriche come la ripetizione (“Cazzate. Erano tutte cazzate”, La mia città in ginocchio, La Repubblica, 3 dicembre 2013) hanno come unica funzione l’accrescimento della visibilità e dell’ego – già ipertrofico – dello scrittore premio Strega.
Ma il punto non è stilistico. E’, come si sarebbe detto un tempo con fierezza – oggi purtroppo solo con circospezione -, politico. Nesi si erge a tutore degli interessi violati di quella che chiama paternalisticamente ed ininterrottamente la “sua gente”. Dato che a Prato vivo da oltre dieci anni, vorrei sommessamente sottolineare che non mi sento affatto “suo”. E vorrei anche aggiungere perché: non lo sono perché non mi riconosco nella sua retorica passatista e nella sua elegia nostalgica, nel vittimismo diffuso a piene mani e nel manicheismo di fondo del suo argomentare.
Perché Prato è diventata quella che è oggi? E’ proprio come Nesi la descrive, vale a dire una città violata da un nemico inafferabile, eterodiretto dalla nuova superpotenza? I cinesi sono forse alieni? La città – in tutte le sue componenti – può dichiararsi esclusivamente vittima inconsapevole dello sviluppo di un modello produttivo che molti giornalisti e titolisti con scarsa fantasia si affannano a definire ora “manchesteriano”, ora “dickensiano”, giusto per sentire correre lungo la schiena il brivido della denuncia, ma senza uno straccio di approfondimento e di riflessione sui nessi che collegano i laboratori di pronto moda al mercato italiano ed europeo dell’abbigliamento, per non dire alle griffes?
La letteratura sul distretto – mai territorio è stato più studiato di Prato, dal punto di vista socio-economico – ha sempre esaltato le doti di un modello nel quale mercato e comunità sembravano marciare uniti di buon passo e rendere concreta l’utopia di una società locale operosa e non conflittuale. Una Toscana rossa di fuori e rosa (socialdemocratica) di dentro, con i suoi governi locali attenti, le categorie produttive sensibili, l’imprenditoria vocata ad un profitto non ignaro delle esigenze collettive.
E tuttavia pochi, quando i soldi giravano vorticosamente e trionfavano le aziende “piccine”, come le chiama Nesi – usando un altro aggettivo ‘di mestiere’, malinconicamente evocativo -, pochi si sono posti il problema di capire cosa si nascondesse dietro la mitologia del modello distrettuale. Il ‘nero’, tanto per dirne una, è sempre stato considerato un effetto collaterale secondario dello sviluppo locale. Una “esternalità negativa”, per usare un’espressione tecnica cara agli economisti: come l’elevatissimo tasso di decessi per tumore negli anni ’60 e ’70, o le devastazioni del Bisenzio fino agli anni ’90.
L’esaltazione acritica del distretto – oggi divenuta così egemone da avere eletto Nesi a suo cantore popolare – ha avuto l’effetto di coltivare una presunzione di autosufficienza, che ha reso per forza di cose inspiegabile la presenza cinese. Inspiegabile – e quindi da ascrivere unicamente a ragioni che nulla avevano a che fare con la storia produttiva della città -, perché non integrabile all’interno di quel modello interpretativo. Nemmeno il minimo dubbio che quel modello potesse contenere iniquità, disfunzionalità o storture (l’autosfruttamento, la sfrenata rincorsa acquisitiva a danno dell’ambiente e della salute, l’occultamento delle asimmetrie di potere): nell’interpretazione apologetica, il distretto sarebbe entrato in crisi soltanto perché aggredito dall’esterno.
Il laboratorio di pronto moda non è il risultato di un complotto internazionale ordito contro Prato e i pratesi – Prato, ovvero un piccolo punto nella cartina geografica del mondo, per l’onnipotente Partito Comunista Cinese – ma l’esito di una radicale trasformazione dell’assetto produttivo tradizionale sotto la spinta delle pressioni competitive globali, trasformazione che ha trovato nell’assetto urbano ed imprenditoriale locale un terreno appropriato per radicarsi e crescere. Rispetto alla constatazione, di per sé assai banale, che le caratteristiche della presenza cinese non sono incidentali ma funzionali a un modello produttivo sempre più esasperato, nessuno può chiamarsi onestamente fuori: non certo l’imprenditoria locale, per la quale i terzisti cinesi non hanno rappresentato un problema (il contrario, caso mai) almeno fino a quando i rapporti di forza non hanno cominciato a cambiare; non la politica locale e nazionale, entrambe incapaci di fare decentemente il proprio mestiere, vale a dire produrre beni pubblici e regolare adeguatamente il fenomeno; non i mezzi di comunicazione, costantemente alla ricerca dell’effetto trash in nome della monetizzazione della merce/informazione.
E’ evidente che la tragedia chiama tutta la città ad affrontare gli enormi problemi che essa ha davanti. E’ possibile che frustrazione e impotenza prevalgano. D’altra parte bisogna pur diffidare di chi sostiene di avere soluzioni facili e pronte all’uso. Sarebbe già qualcosa se la discussione ricominciasse dal senso delle proporzioni: da un punto geografico sulla cartina del mondo, e dalla ricostruzione dei nessi – tutti, nessuno escluso – che collegano quel laboratorio del Macrolotto al turbocapitalismo che inghiotte il nostro tempo.
Fabio Bracci