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“C’ha il cancro, mica è scema”

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Abbiamo le prove
18 02 2014

Era tutto azzurrino come il fiocco attaccato al portone quando nasce un bambino. Lo mettono lì fuori perché pensano che possa interessare anche agli altri condomini. Lucido di linoleum e screziato animalier. Zebrato, per la precisione.

Dovevamo andare al primo piano. Le scale erano fratturate in tre bracci, finito il secondo ho visto la scritta «centro prevenzione tumori» sul lato sinistro di una porta bianca.

«È troppo tardi» ho pensato. A ogni gradino diventava più grande. Solo a guardarla mi faceva più paura di Freddy Krueger e mi sono ricordata di quando guardavo i film horror con mia nonna e mi diceva «a me fanno ridere». Siamo entrate per chiedere dove fosse la dottoressa con il cognome di un nome da uomo. «In fondo a sinistra. Dovete aspettare».

A sinistra c’era un corridoio, un distributore di caffè sempre troppo dolce, un distributore di merendine, una porta con scritto «uomini» che era verosimilmente il bagno – quello delle donne doveva stare nel corridoio di destra – e poi una stanza quadrata. Era azzurrina animalier pure questa: per terra, fino a tre quarti delle pareti. Ci siamo guardate davanti a un’altra scritta sullo stipite di un’altra porta: «oncologia», in stampatello, rossa su grigio argentato. Avevamo capito, eravamo lì apposta.

Le sedie erano quasi tutte occupate. Ci saranno state dieci persone. Tutte più vecchie di noi. Anche più malandate.

«Siediti».

«No, restiamo in piedi». Ho pensato «fossi matta, il cancro è contagioso».

Stare insieme in quella stanza era come esporre la tessera del club «malati di cancro». Che all’improvviso condividono tutto alla voce «il cancro ti rende migliore, ti fortifica, ti fa apprezzare la vita» e tutte quelle stronzate consolatorie.

Il dolore non serve a niente.

Il cancro non rende meno stupidi.

E non è il tuo caso, non lo sei mai stata. Ma gli altri continuavano a essere stupidi. Indaffarati e lamentosi. Continuavano a vivere come se niente fosse. «Io che qui sto morendo e tu che mangi il gelato».

Spesso diventavano ancora più stupidi. Ti seguivano con parole inutili. Ti offrivano consigli, sguardi obliqui, rassicurazioni. Parole che non avevi chiesto. «È sbagliato fare la chemioterapia prima dell’intervento chirurgico», ti aveva detto una tua amica che di oncologia ne sapeva quanto Anthony Weiner di continenza iconografica e promesse violate. «Non lo faccio più».

«Hai il cancro? Anche io, siamo uguali». Una pornografia esistenziale e salvifica peggiore dell’onnipresenza mortale.

Stare in piedi era il mio modo di protestare.

E poi eravamo lì per sbaglio. Conservavamo la possibilità di un effetto sorpresa, la scoperta di essere arrivate nel posto sbagliato.

«La sua era soltanto una cisti».

«C’è stato un errore con le cartelle cliniche».

Aspettavamo.

A sinistra c’era una segreteria con dentro una tipa che sembrava quella di Misery non deve morire. Compilava una cartella clinica e quando ci siamo spiaccicate sul vetro tra noi e lei non ha alzato nemmeno lo sguardo. Il primo tentativo di chiedere informazioni è fallito. Nello spazio tra il vetro e il muro fatto apposta per far passare la voce, ma non le braccia per strangolare il funzionario, qualcuno aveva infilato quattro anime di rotoli di carta lunghi almeno un metro. Resti dei rotoli da cui strappi un pezzo per pulirti dal gel di una ecografia. Resti di rotoli di una carta che ha l’odore di cantina ammuffita. Ce ne stavano quattro, una accanto all’altro. La cabina era insonorizzata.

La copia di Annie Wilkes riempiva una cartella clinica con una tale concentrazione da farti sembrare un rompicoglioni. Te ne stavi lì a farle domande superflue mentre lei campiva spazi preziosi in una fotocopia. Annie aveva la ricrescita di un paio di centimetri e siccome aveva i capelli neri si vedeva molto. Ricrescita bianca su sfondo azzurrino. Divisa bianca come la ricrescita, cardigan blu aperto, occhiali calati a metà naso, penna infilata nel taschino di sinistra, penna viola con cui scriveva. Dietro alle sue spalle una decina di faldoni come quello che aveva aperto davanti a lei. Contenitori di date di nascita, matrimoni, appendicectomie, divorzi, colecisti, figli, metastasi, 048, effetti collaterali, appuntamenti. L’ultima scheda va lasciata vuota per il certificato di morte? Metti una X su «trattamento fallito», archivia, calcola la media e la mediana.

Immaginavo che avesse da qualche parte animaletti da mettere in ordine sul comodino con la testa rivolta verso il sole. Magari applicava la sua ossessione alle flebo e agli aghi e ai sacchetti di fisiologica e di taxotere e di ciclofosfamide. Magari era lì per sbaglio pure lei.

Ho alzato la voce e aderito al vetro come un rettile annoiato. «Abbiamo appuntamento con, aspettiamo qui che ci chiami?». Mi ha guardato, non voleva mollare la cartella clinica per rispondere a domande che avrà ascoltato centinaia di volte.

Poi mi ha detto «dovete aspettare». «Questo lo avevo immaginato, volevo sapere se dovevamo darle l’impegnativa o un documento». «Sì, certo ma poi dovete aspettare». L’odore del litigio.

L’ho guardata e ho guardato i rotoli infilati tra noi e lei. Ho ricominciato, come se niente fosse. «Buongiorno, siamo appena arrivate, è la prima volta che veniamo qui, potrebbe dirci cosa (ho pensato “cazzo”, ma non l’ho detto perché Annie avrebbe potuto legarmi a una sedia e torturarmi) dobbiamo fare?».

«Come ti chiami?», con quella seconda persona singolare che fa subito famiglia. Annie, manco per zia di secondo grado ti vorrei, e poi Annie, chi ti conosce?

Abbiamo ripetuto il nome due volte. Una volta insieme, una volta sono stata io a scandire il tuo nome. «C’hai l’impegnativa?». Le abbiamo passato la ricetta rossa infilandola nella fessura rimasta. È rimasta incastrata. Annie non voleva affaticarsi per niente. «Devi firmare» ha detto indicando un angolo del foglio. Hai firmato. «Devi mettere la data di nascita e il luogo di nascita». Abbiamo cominciato a ridere davanti alla ricrescita di Annie. Trasformare l’orrore in una beffa burocratica deve essere un protocollo terapeutico. Non pensavo più a TAC, scintigrafia, chemioterapia e CEA. Pensavo che volevo strozzare Annie con la sua tenuta color infermiera seduta tra le pareti azzurrine.

Quando hai cercato di ripassarle l’impegnativa, uno dei rotoli è caduto tra Annie e quello che stava scrivendo. Ha alzato gli occhi, io ho fatto istintivamente un passo indietro, come quando si tocca qualcosa che scotta.

Ha preso una lista e ha aggiunto il nome dopo averlo chiesto tre volte. «Dovete aspettare». «L’abbiamo capito» e avrei voluto aggiungere «c’ha il cancro mica è scema». Mi sono chiesta se avrei dovuto aggiungere «come te» per chiarire il mio pensiero, ma non mi è sembrato necessario.

Mentre ci siamo allontanate ci ha urlato dietro «c’è una visita e poi te».

Ci siamo appoggiate alla porta a vetri. «Sono tutte più vecchie e malconce di me». L’avevo notato. «Quella ha la parrucca, ha i capelli troppo perfetti». L’ho guardata e non lo sapevo se avesse la parrucca. Aveva i capelli neri e lucidi, sembravano quelli di Barbie nera. Forse era una parrucca, la frangetta era troppo perfetta e troppo immobile.

È entrato un omone in tuta acetata e pancia ovale. È andato verso una donna seduta in un angolo con i capelli corti e neri. Erano opachi però. Troppo corti per essere una parrucca, troppo folti per essere veri. La pancia di lui mi ha fatto venire in mente una puntata di Grey’s Anatomy dove arriva un tipo enorme talmente enorme che non riesce nemmeno a camminare e dio solo sa come fa a fare l’amore. Non sono riuscita a ricordarmi come finiva. Dimagriva? Moriva? Non ho finito di vedere la puntata?

 

Siamo entrate dalla porta che aveva per stipite la scritta «oncologia». Alle pareti del corridoio interno era attaccato più volte il poster Leggere di Einaudi. Poi una foto dei tetti di Roma e le frecce con la scritta «Castel Sant’Angelo» e tutti gli altri luoghi che era il caso di nominare. Era meglio l’avviso con il numero di fax e l’elenco degli esami da fare il giorno prima della chemioterapia che stava appeso fuori. Il numero era evidenziato con il giallo, come la pagina rinnovata di Repubblica.it, con un tratto appena incerto e scolorito dagli sguardi. «Evidenziatore giallo sbavato sulla destra, sbiadito dal tempo e dall’osservazione dei malati», questo ci sarebbe scritto in un referto.

Abbiamo aspettato in corridoio perché l’oncologa stava parlando al telefono di difese immunitarie e globuli bianchi. Ha detto «questo mi preoccupa». Una telefonata che si sarebbe potuta ripetere con te nei giorni successivi. Noi eravamo qui per sbaglio, questo equivoco si sarebbe dovuto chiarire prima o poi.

Siamo entrate, ci siamo sedute, abbiamo ricapitolato. Dovevi sempre ricominciare dall’inizio. Bozzo, ecografia, ago aspirato, esame istologico, ecografia, risonanza, esame istologico, ago aspirato, biopsia, linfonodo sentinella, TAC, esami del sangue, scintigrafia.

Quando dovevi fare la scintigrafia a caccia di metastasi l’ago aspirato non ti sembrava male.

«Hai i risultati della TAC?». Ci risiamo con la grande famiglia.

«No, in ospedale mi hanno detto che li avrebbero mandati direttamente qui».

È uscita a cercare il referto.

Sul tavolo c’erano cartelle cliniche, sul monitor liste di esami e numeri. Tutte quelle persone erano accessibili ai miei occhi. Eravamo tutti lì per un tumore, forzatamente intimi, seduti uno accanto all’altro facendo un quiz mentale di «chissà dove t’ha preso a te».

Tutti loro per te. Se avessi potuto decidere li avrei scambiati con te.

Che poi tu, con quei capelli opachi, cosa avrai avuto da fare nella tua misera vita? A che ti saranno serviti altri anni, altre inutili cene, altro sesso con l’uomo dalla pancia ovale?

Non ho sprecato tempo a discutere di ammissibilità morale dello scambio, era così evidentemente giusto. E tanto quello che volevo io era totalmente irrilevante. In un baratto immaginario avrei consegnato pure quella con la frangetta immobile e tutti gli altri ancora seduti fuori per sentirci dire «c’è stato un errore diagnostico». Non uno solo, una sfilza di errori diagnostici, ma il senso sarebbe stato quello.

C’era pure una pianta sul tavolo, mi sembrava un’azalea di quelle vendute nelle piazze contro il cancro. Ho sperato che avessero strumenti più efficaci di un’azalea fucsia. C’era un ninnolo di Padre Pio – che forse Annie spolverava una volta al giorno per rimetterlo esattamente al suo posto con lo sguardo rivolto al sole – accanto al monitor con la lista di esami. Padre Pio era peggio dell’azalea. Mi sono alzata e l’ho spostato.

Quando siamo rimaste sole abbiamo imprecato, dimostrando di essere superstiziose almeno quanto chi crede nei miracoli. Il pensiero magico si nutre di paura, e in una stanza con le cartelle cliniche e i risultati istologici C5, Ki-67, Ca19-9, le lastre e i profili stilizzati del corpo dove mettere una X per la parte del corpo impazzita eravamo autorizzate ad avere paura.

La scintigrafia riportava il tuo scheletro in miniatura. Quattro ripetizioni del tuo scheletro perfetto. Le gambe lunghe, il bacino simmetrico, la cassa toracica montata sulla colonna vertebrale e la testa che nel referto si chiama cranio. Nel referto c’erano scritte cose come «fissazione del tracciante osteotropo». In questo tipo di esami quando leggi «positivo» devi preoccuparti, quando leggi «negativo» invece puoi ricominciare a respirare. È lo stesso invertimento semantico di «falso» davanti a positivo. Ci sono sempre quei due o tre secondi in cui ti dimentichi di sostituire la semantica della vulgata a quella del mondo diagnostico. Vale anche per «scarsamente differenziato» che mi è sempre sembrato meglio di «ben differenziato» e invece no.

«Perché cazzo abbiamo perso tempo a studiare filosofia?», ti ho chiesto con la scintigrafia in mano.

«Avrei anche avuto una predisposizione a studiare medicina».

«Non a toccare corpi indistintamente però».

«Te lo ricordi quel video?». Mi è venuta in mente la copertina di Ok Computer anche se non c’è uno scheletro ma i colori sono quelli di una scintigrafia. «Quale video?».

Saremmo dovute essere in un presidio per l’Alzheimer, altro che oncologico, perché ci abbiamo messo non so quanto a ricordarci qualche parola utile per domandare a Google.

Hey Boy, Hey Girl. Trovato. Play. «Here we go». Scheletri che ballano. Si è affacciato qualcuno, forse attirato dal rumore, forse in cerca di qualcosa. È squillato il telefono. «Here we go».

Abbiamo fatto le foto di tutti i referti. Abbiamo imprecato di nuovo contro Padre Pio. Poi ci siamo girate e sulla parete c’erano tre foto di Budda. Meglio ma non ancora abbastanza. Se culto della personalità doveva proprio essere avrei voluto un mezzobusto di Alexander Fleming, o di Ignac Semmelweis. Non mi veniva in mente nessuno meglio correlato al cancro che avrei voluto vedere riprodotto in gesso o marmo.

«Perché ci mette tanto, ha trovato qualcosa nella TAC?».

Avrei voluto dire «no». Ma non potevo dirlo. Avrei voluto dire «spero di no». Ma era ovvio.

È tornata. Ha chiesto «hai pensato al tessuto ovarico?». Ci avevi pensato ma no, hai detto, proseguiamo con il trattamento – perché chiamavamo quella cosa trattamento. «Poi tanto ci sono i suoi» hai detto ridendo e guardandomi. La dottoressa ha accennato un sorriso ma non ha capito.

«I suoi ovuli, ci sono i suoi se poi dovessero servirmi». Ti avevo sempre risposto «se mi dai 50.000 euro sono tutti tuoi».

Solo allora ho pensato che se avessi avuto bisogno di ovociti non avresti potuto averli qui, perché è vietato. L’ovodonazione è vietata, quella che legislatori ubriachi hanno chiamato «fecondazione eterologa», tanto valeva venderli. Se diventi sterile perché hai un tumore sono cazzi tuoi, qui non puoi averne di nuovi. La natura ha deciso così, la legge ha ipocritamente sancito che sia giusto rassegnarti al cancro e poi magari possono farti santa.

«Non è mica mia moglie, ma comunque ci sono i suoi ovuli». Abbiamo riso. L’oncologa sarà stata abituata a musi lunghi e a pianti. Forse anche alle risate isteriche, ma isterica ci sarai tu mica noi.

Qualcuno l’ha chiamata e lei è uscita di nuovo.

«Peccato, proprio ora, non abbiamo capito come la pensa».

«Non ha fatto nemmeno una smorfia», ho detto. Però poi ho pensato che non fosse significativo, la sua mimica facciale era allenata da centinaia di diagnosi e prognosi, due mogli che vuoi che siano?

È tornata.

«I capelli quando mi cadono?».

«Sempre più spesso dalla prima volta».

«Allora devo sbrigarmi a comprare la parrucca».

«L’appuntamento è per giovedì prossimo».

 

 

 

Chiara Lalli è filosofa e giornalista. Il suo ultimo libro è A – La verità vi prego sull’aborto (Fandango). Ha una rubrica su Il Mucchio Selvaggio e collabora con La Lettura del Corriere della Sera. La potete trovare anche su Twitter.

 

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