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Manifesto per un'Europa egualitaria

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Dinamo Press
22 05 2014

A pochi giorni dalle elezioni europee proponiamo un estratto del Manifesto per un'Europa egualitaria di Karl Heinz Roth e Zissis Papadimitrou (edito da DeriveApprodi che ringraziamo), un testo importante per immaginare un'Europa diversa da quella della Troika e delle destre populiste, nella consapevolezza che l'orizzone europeo è lo spazio minimo per immaginare l'efficacia dei conflitti e dei movimenti. Nel loro Manifesto Roth e Papadimitrou, dopo una lunga ricostruzione critica dell'assetto istituzionale, economico e sociale europeo, passano a delineare delle proposte in forma programattica:

Delineare un programma di azione

Nelle pagine seguenti, definiremo i capisaldi di una bozza di programma operativo, che oltre a obiettivi di resistenza sociale faccia da presupposto al blocco dei programmi di austerità, a una moratoria dei debiti e a una prima azione di supporto per il contenimento dei processi di impoverimento. Lo scopo più importante del programma di azione consiste dunque nel mo strare le possibilità di successo e la plausibilità di uno rivolgimento politico e sociale che metta in conto le esigenze di giustizia sociale e di ripristino della sicurezza e della dignità esistenziale, e che mostri, allo stesso tempo, in che modo si possa lottare per una nuova legittimazione politica a questo fine necessaria. Il programma di azione dovrebbe in ultimo contribuire a rimuovere le impasse mentali che hanno scoraggiato i movimenti sociali ad agire, a causa della mancanza di prospettive, e produrre una rottura con la politica restrittiva, sociale ed economica. In questa sede, ci limiteremo a delineare i punti principali.

1. Condizioni di lavoro, tempi di lavoro e retribuzioni

L’ambito delle condizioni di lavoro decide al giorno d’oggi, più di prima, gli sviluppi regressivi o progresivi di una società divisa in classi. Perché le classi lavoratrici possano rimpadronirsi delle redini dei loro interessi, dovrebbero anzitutto trasformare rapporti di lavoro sfibranti e limitanti, ricavando l’energia e la serenità necessarie. Per questo occorre decelerare i tempi e i ritmi in tutti gli ambiti della società lavorati- va: nelle fabbriche e nei centri di distribuzione, ma anche nel sistema educativo, nella cura degli anziani e nelle professioni di ingegno. Contemporaneamente, il tempo di lavoro individuale – che sia suddiviso tra una o più occupazioni – dovrebbe essere radicalmente ridotto, per sradicare la disoccupazione di massa. Questo dovrebbe accadere senza che i salari vengano abbassati, riconducendo la forbice salariale e di reddito a una proporzione di 1 a 5, con un contemporaneo aumento dei salari minimi e una linearità dell’aumento delle retribuzioni. Di primo acchitto, questi interventi provocheranno un blocco della divaricazione tra datori di lavoro e dipendenti, includeranno la giovane generazione nell’ambito della riproduzione sociale e daranno risalto a una generale democratizzazione delle condizioni di lavoro.

2. Ripristino di sicurezza e dignità sociale

Dalla democratizzazione dei rapporti di lavoro deriveranno nuove forme di sicurezza sociale ed esistenziale per le famiglie della classe lavoratrice. Per questo non è una buona idea ricalcare il sistema di sicurezza sociale quale si è configurato in epoca keynesiana. Esso andrebbe, piuttosto, separato dal legame socialmente disciplinante con la pretesa di prestazione della vita messa al lavoro. Per questo andrebbero anzitutto introdotte misure urgenti quali un’assicurazione sanitaria valida in tutta Europa, l’aumento dell’assistenza sociale e una pensione di anzianità standardizzata, che rimuovano l’insicurezza esistenziale complessiva legata alla povertà. Da qui occorrerebbe pensare a un sistema che preveda per tutti una pensione sociale di base, che sradichi durevolmente la povertà, un sistema materialmente fondato sull’uguaglianza di genere e intergenerazionale, così come tra tutti i gruppi che prendono parte alla vita sociale. In un secondo momento, questo fondo per la sicurezza socia- le potrebbe essere decentralizzato e integrato nelle strutture amministrative comunali e regionali.

3. Redistribuzione della ricchezza sociale dall’alto verso il basso

Ovviamente la crescente socializzazione delle politiche lavorative e di previdenza causerà costi considerevoli e recuperabili solo a lungo termine. Di conseguenza, occorrono misure generose e di ampio respiro su più livelli per la ridistribuzione della ricchezza sociale, della quale dagli anni Settanta si sono progressivamente appropriati i ceti medi superiori, le élite di funzionari e i capitalisti. In questa sede possiamo citare soltanto gli ambiti di attività più rilevanti: l’aumento della tassazione sul capitale, l’introduzione in tutta Europa di tasse patrimoniali, un sensibile aumento della tassazione sul reddito delle fasce più alte, la progressiva tassazione delle eredità e la conversione di eredità multimilionarie in fondi sociali e culturali regionali, così come l’introduzione di una tassa permanente sulle transazioni concluse sui mercati di capitali. Inoltre, durante la prima fase di transizione, occorrerà una patrimoniale mirata sui grandi capitali, per rendere irreversibile la distribuzione paritaria del reddito.

4. Ostacolare la fuga di capitali e socializzare gli investimenti

Appena entrato in vigore questo programma operativo, i centri nevralgici economici delle élite dominanti cercheranno di portar via i loro capitali dall’Europa e di organizzare estesi scioperi degli investimenti. Poiché tutti quelli che sono convinti dell’urgenza di un’inversione radicale di tendenza sono anche ben consigliati, quando imparano a reagire possono apportare cambiamenti significativi. Almeno nella prima fase di passaggio, saranno necessari accurati controlli dei movimenti di capitale, per ostacolare lo spostamento della ricchezza sociale negli altri blocchi economici della regione della Triade, nei paesi emergenti e nella rete mondiale dei paradisi fiscali. Con l’implementazione di queste misure, anche la funzione del Trattato di Schengen dovrà essere rivista radicalmente: non scoraggerà più l’ingresso di rifugiati e migranti in cerca di lavoro, servirà al contrario a en- trare in possesso dei capitali in fuga, a identificarli e a ricondurli ai fondi sociali federali. Con la stessa rapidità, si dovrà consolidare anche la socializzazione degli investimenti. In un primo momento limitata ai settori strategici – grandi banche, medie aziende, principali settori dell’economia quali tecnologie informatiche e della comunicazione, fonti di energia e reti di trasporto –, a breve termine essa dovrà coinvolgere anche le imprese multinazionali delle esportazioni. Consolidata la prima tappa della rivoluzione, si potranno cominciare a smantellare le grandi aziende, trasformandole in compagnie di dimensioni ragionevoli, e a regionalizzarle, cosicché possano diventare parte del comune processo di democratizzazione socio-economica.

5. Riappropriazione dei beni pubblici

Un altro punto chiave del nostro programma operati- vo consiste nella riappropriazione di tutti i beni pubblici che dagli anni Ottanta sono passati sotto l’amministrazione di investitori privati. Tale processo completerebbe la socializzazione delle grandi ban- che e di settori chiave e strategici della politica comunale, dal basso verso l’alto. Perciò in primo piano dobbiamo porre la comunizzazione dei servizi pubblici e delle infrastrutture su piccola scala, in particolare la fornitura di acqua, elettricità ed energia, la costruzione e l’amministrazione delle case, i trasporti locali, la produzione e la distribuzione di cibo, i centri per la salute e gli ospedali, così come le scuole e gli asili. Una volta consolidata questa prima tappa della riap- propriazione, seguirà l’acquisizione delle imprese decentrate e dei centri per i servizi dei settori chiave, tanto nell’amministrazione comunale quanto in quella regionale. Le premesse essenziali perché questo accada verranno create attraverso la socializzazione di internet, dei media digitali e di tutte le innovazioni scientifico-tecnologiche.

6. Parità tra i sessi

Nei decenni passati, il nuovo movimento femminista ha ottenuto considerevoli successi nella lotta per la parità di genere. Tuttavia, dall’inizio della crisi, queste acquisizioni sono state costantemente messe in discussione: in numerosi paesi europei sono aumentati l’aggressività maschile, lo sfruttamento sessuale e le violenze domestiche. Queste tendenze ci portano a pensare che la parità di genere sia più di una «questione di classe». In mancanza di questa consapevolezza, sembrerebbe che gli aspetti sociali ed economici della parità delle donne debbano essere assunti come pun- to di partenza di una contro-iniziativa efficace. In questo quadro sta la rivalutazione materiale e sociale di un’area del lavoro nel quale le donne sono ancora attive in maniera predominante, in particolare il lavoro – pagato o non pagato – di riproduzione sociale (lavori domestici, servizi a domicilio, cura dei malati e degli anziani, ecc.). Da questo presupposto consegue la necessità di avviare iniziative per rendere la parità delle donne irreversibile su tutti i piani della vita sociale, economica, politica e culturale.

7. Liquidazione del Trattato di Schengen

Le misure definite da Schengen sono da liquidare immediatamente, eliminando la sua infrastrutturaparamilitare («Frontex») e il suo sistema di data base («sistema informatico di Schengen»). Contemporaneamente, dovrebbero essere sciolte anche tutte le istituzioni europee discriminanti e deterrenti per rifugiati e migranti (centri di detenzione, limitazione della circolazione e così via). Anche l’obbligo del visto per persone provenienti da cosiddetti paesi del Terzo mondo dovrebbe essere allentato e, col procedere del processo di risanamento degli squilibri globali economici e politici, del tutto annullato.

8. Rovesciamento della politica ambientale

Anche in Europa, le risorse naturali sono estrema- mente esigue, a seguito di un ipersfruttamento illi- mitato e scellerato. Una parte considerevole dell’eco- sistema non si rinnova da sé, deve al contrario essere rigenerata attraverso l’intervento umano, mentre l’effetto serra assume proporzioni sempre maggiori. Ogni tentativo di ridimensionare la preoccupante crisi ambientale e climatica con gli strumenti del libero mercato (quali il controllo delle emissioni) sono falliti. Per questo è inevitabile un radicale cambiamento di rotta – che sarebbe senz’altro facilitato dal generale rallentamento dei processi lavorativi e di produzione, dalla riduzione del volume dei trasporti e dal passaggio a una politica del paesaggio e dell’alimentazione ecologica. Ma l’adattamento dell’economia alle limitate risorse ecologiche, attraverso riforme decisive, non basterà da solo a produrre un nuovo equilibrio tra economia ed ecologia. Occorre far pas- sare in primo piano i processi di valorizzazione delle risorse naturali, la diminuzione dell’uso di energie fossili, l’attivazione di fonti energetiche rinnovabili, oltre alla chiusura delle centrali nucleari in tutta Eu- ropa, così come i costi dovuti a tali misure.

9. Il superamento degli squilibri interni all’Europa e della sua crisi

Non è affatto un caso, se solo a questo punto affrontiamo alcuni interrogativi che oggi imperversano sui media e che catturano l’attenzione anche di coloro che sono criticamente impegnati a riflettere su un’alternativa. Con questo non intendiamo dare l’impressione di considerare un problema minore lo squili- brio interno europeo prodotto dal dumping neomercantilista della zona centrale e il conseguente deficit degli Stati periferici. Che l’Unione europea, a seguito di un atteggiamento semplicemente irresponsabile, sia finita in un pericoloso squilibrio è innegabile. Ma la nostra ragione è diversa: applicando le proposte di riconversione e standardizzazione della politica lavo- rativa, sociale, economica e fiscale europea finora presentate, il problema dello squilibrio interno si risolverebbe ampiamente da solo. A quel punto non ci sarebbe più dumping delle esportazioni con i relativi problemi sociali e salariali, perché tutti i parametri essenziali – produttività del lavoro, costo unitario del lavoro, livello dei prezzi e così via – sarebbero livellati. Di conseguenza, nella prima fase di cambiamento resterebbe soltanto da consentire alle nazioni periferiche una nuova partenza, attraverso un trasferimento di finanze e risorse senza precedenti.

Per questo, in un primo momento basterebbe far convergere i loro debiti privati e pubblici dentro un fondo europeo di estinzione e, con l’aiuto dell’enorme potenziale economico dell’Europa integrata, costringere gli investitori a un’estesa rinuncia alle loro richieste – comunque alquanto illegittime – di interessi e di rimborso dei debiti. In secondo luogo, la Banca centrale europea dovrebbe autorizzare una conseguente revisione del proprio status, emettendo eurobond unita- ri che finora potevano essere emessi solo dai singoli paesi membri. Un terzo punto di partenza dovrebbe infine collegare le misure di contenimento dello squilibrio a una condizione di stabilità. Per questo basterebbe trasformare il Meccanismo europeo di stabilità in un sistema regolativo, attraverso il quale i paesi con surplus di bilancio dovrebbero automaticamente cedere determinate somme alle nazioni in deficit per compensare lo squilibrio. Queste misure presuppongono la sostanziale democratizzazione e conversione dell’emergente federazione europea, così che le sue operazioni siano libere dall’influsso del capitalismo della finanza.

E che fine farebbe l’euro?

Tutti i passi verso le riforme e le misure di stabilizzazione descritti possono essere attuati senza problemi conservando la moneta unica, se fosse soddisfatta una premessa fondamentale: la democratizzazione della Banca centrale e la sua sottomissione alle priorità e alle condizioni del cambiamento. Si tratterebbe di un passaggio carico di conseguenze, poiché porrebbe fine alla supremazia di una politica restrittiva della circolazione della moneta e con essa all’era della strategia dei bassi salari per tenere sul fronte delle esportazioni. Mentre la Banca centrale europea ha operato indipendentemente dalle autorità europee – e di conseguenze nell’illimitato interesse dei capitalisti e delle multinazionali – la moneta unica ha acquisito un carattere di feticcio, attraverso il quale si esprime la supremazia illimitata di un Gold-standard de facto. Con la sua sottomissione al volere democratico del popolo, anche la valuta prodotta e messa in circolazione assumerebbe a medio termine tratti «democratici»: da puro e semplice mezzo di scambio, tornerebbe ad assumere una funzione di mediazione economica neutrale. Quanto più la società riesce a sottoporre la sfera economica alle proprie necessità vitali, tanto più irrilevante diventa il problema della valuta, poiché la funzione incarnata dal denaro di un equivalente per ogni cosa perde sempre più di significato. Ma molto prima che ciò accada, il dibattito sul ritiro o l’espulsione di determinati paesi o gruppi di paesi dall’eurozona, legato al feticcio del denaro, verrà messo a tacere.

Dall’Unione europea alla Repubblica federale europea

Abbiamo fin qui delineato i punti e le tappe principali di una riforma decisiva. L’insieme degli interventi necessari sul piano lavorativo, sociale, economico, fiscale, finanziario e politico è considerevole; oltre al fatto che tali interventi, se il cambiamento avesse successo, andrebbero attuati contemporaneamente.

Manca dunque ancora un anello di congiunzione: connettere qualunque tentativo di riforma alle strutture politiche, cosa che li renderebbe irreversibili e produrrebbe la stabilità necessaria. Quale può essere la forma di una costituzione politica che conferisca a questo programma operativo la consistenza e la durata necessarie? Che prenda in considerazione la pluralità storica e culturale del continente europeo e si faccia, inoltre, ovunque promotrice dei cambiamenti del sistema? A questo proposito, possiamo partire da due premesse: in primo luogo dal riconoscere che per raggiungere lo scopo è necessario un approccio che vada oltre gli Stati nazionali; in secondo luogo dalla consapevolezza, maturata nei paragrafi precedenti, che l’Unione europea, come impalcatura non legittimata di un gruppo di Stati nazionali fortemente gerarchizzati, non abbia nessuna struttura forte a cui appoggiarsi.

Il nostro contro-modello è una Repubblica federale europea, dentro la quale dissolvere tutti gli Stati membri, «superiori» e «inferiori». Le cose potrebbero andare così.

1. Costruzione dal basso verso l’alto. La struttura di base della Federazione sono i Comuni e le associazioni comunali (circoli, distretti e così via). Questa unione di piccole comunità si configurerebbe in cantoni, risultanti dalla struttura degli ex Stati membri o da territori contigui di diverse nazioni non più esistenti. Più cantoni, imparentati geograficamente, storicamente e culturalmente vengono incorporati in una regione europea: regione mediterranea, paesi del Danubio e dei Balcani, Europa centrale e dell’est, Scandinavia, regione atlantica dell’ovest. La Federazione sarebbe formata infine dalla fusione di questi gruppi regionali.

2. Costruzione dall’alto verso il basso. La Federazione dà vita a un terreno di azione politica autonomo, che compensa le disparità economiche, politiche e culturali tra le regioni e rappresenta la Federazione con l’esterno. Questa funzione si riproduce su tutti i piani fino al livellamento delle disparità tra i comuni e tra gli interessi di tutti i cantoni.

3. I diversi piani della Federazione hanno una diversa valutazione a livello politico ed economico. In tutti i sistemi regolativi la posizione e lo statuto degli organismi politici sono determinati dalla portata del denaro ricevuto, in primo luogo le tasse. Nel nostro modello questi introiti sono suddivisi in modo da garantire l’efficienza dei diversi piani, ma sono unanimemente sottoposti a un principio decisionale democratico senza vincoli. La somma più alta è perciò destinata ai comuni e agli agglomerati comunali, con il 40%, mentre i cantoni ricevono il 25%, le regioni il 20% e la Federazione il 15%. Attraverso questi parametri viene garantita una distribuzione delle risorse per l’autoamministrazione particolarmente importante sul piano funzionale. Ma anche le regioni dispongono di mezzi più che sufficienti per il coordinamento dei progetti infrastrutturali e tutto il resto. Il denaro dovuto alla Federazione è allo stesso modo principalmente destinato alle infrastrutture e alle operazioni di compensa zione sovraregionale. Al contrario le risorse non basteranno a mantenere le classiche insegne del potere imperialista e nazionalista: quali un esercito e gli altri strumenti di dominazione della politica estera. Il governo della Federazione è dunque, inoltre, nella posizione di dover seguire dettami di disarmo e pacifismo ed è impossibilitato a partecipare a organizzazioni militari come la Nato, a guerre giuste e ingiuste, a sostenere un complesso militare industriale e a condurre una politica imperialista.

4. Di particolare importanza è infine la questione della rappresentanza politica. Che potrebbe essere risolta, almeno nella prima tappa del rovesciamento, attraverso una combinazione sia diretta che indiretta di strutture decisionali democratiche. La base sarebbe costituita da strutture di democrazia diretta a un livello comunale (assemblee plenarie, consigli degli agglomerati omunali ecc.), delegate, per un tempo limitato, a rappresentare la popolazione presso le autorità del cantone; l’altra metà del Parlamento cantonale sarebbe assegnata tramite elezioni universali. Un processo che dovrebbe ripetersi sul piano regionale e della Federazione. A questo proposito occorrerà garantire, nell’ultimo caso, che i delegati dei consigli regionali nel consiglio federale siano dotati di altrettanti mandati dello stesso rango. L’altra metà dovrebbe essere determinata attraverso elezioni da effettuarsi in tutta Europa. Inoltre, i comitati esecutivi eletti dai parlamenti cantonali, regionali e federali opereranno con un mandato necessariamente limitato nel tempo e a rotazione. Poiché allo stesso tempo ci si premunirà anche che i salari dei delegati di qualunque livello non superino quelli delle famiglie europee, verrà efficacemente stacolata la formazione di una nuova «classe politica». In questo modo, è possibile garantire lo sviluppo di una democrazia diretta costituzionalmente fondata sul diritto universale di esistenza e i diritti umani.

Partenza per nuovi lidi

C’è ancora un secondo piano d’azione della resistenza sociale a cui vogliamo fare riferimento con le nostre proposte: le reti dell’economia alternativa. Dall’inizio della crisi si sono estese in tutte le regioni europee e possono godere di una base sociale che cresce di giorno in giorno. Lavorano in silenzio e chi non si trova nelle vicinanze difficilmente si accorgerà della loro esistenza. Allo stesso tempo hanno manifestazioni straordinariamente molteplici e i loro campi d’azione spesso si incrociano. Migliaia di giovani disoccupati, che hanno avuto una formazione, sono attratti da aree rurali e qui fondano cooperative agricole, avviano progetti basati sulle energie rinnovabili per la fornitura locale di corrente e riscaldamento e ridanno vita alle strutture centenarie del baratto.

Anche negli agglomerati urbani di tutta Europa nascono progetti di scambio di beni o professionalità. Co-operative di affittuari, collettivi di occupanti di case e cooperative di costruzione vanno per la maggiore, poiché offrono alle famiglie sfrattate dalle loro case e abitazioni un’alternativa ai ricoveri per senzatetto. I loro progetti sono sostenuti da collettivi di artigiani e da piccole cooperative di produzione e da istituzioni per la salute e la formazione. Le comunità impegnate in queste attività di microeconomia hanno aperto orizzonti di esperienze e processi di comprensione finora sconosciuti. Scoprono nuovi progetti di vita, fondati sul mutualismo, sull’uguaglianza economica e sociale e sul consolidamento di rapporti di solidarietà comunitaria.

Simili strutture di cooperazione non costituiscono tuttavia una novità. Da secoli i lavoratori poveri, che si sono trovati colpiti nei periodi più duri della crisi e della depressione e hanno attraversato processi di impoverimento e demoralizzazione sociale, hanno cercato di reagire costruendo un’economia alternativa, casse di risparmio amministrate dalla comunità e sistemi di condivisione che non passano per il denaro. L’ultima volta, il punto più alto dell’economia alternativa e solidale è stato raggiunto tra gli anni Ottanta e Novanta, quando le società del sud globale – in particolare in America Latina – e nell’Europa dell’est sono state sottoposte a «terapie d’urto» da parte del Fondo monetario internazionale e dai funzionari che hanno sostenuto la svolta ultraliberista, l’equivalente dei diktat della troika oggi. Queste esperienze, insieme al processo di comprensione che le ha accompagnate, oggi sono tornate a riguardare il continente europeo. Ci permettono di riflettere sulle prospettive e sui limiti delle strutture dell’economia alternativa che si dispiegano di fronte ai nostri occhi.

È dai racconti sempre più frequenti che provengono dagli Stati europei periferici che possiamo capire quanto sarebbe sbagliato attribuire ai nuovi protagonisti delle economie senza denaro e non capitalistiche comportamenti omogenei, poiché le loro motivazioni sono molto diverse. Vi sono gruppi che operano per ragioni puramente caritatevoli. A loro si contrappongono quelle piccole comunità che riconducono la loro prassi alla speranza di un rovesciamento sostanziale del sistema. Essi anticipano consapevolmente il cambiamento dei tempi, cercando di dare un esempio: per loro il personale è diventato immediatamente politico. Tra questi due campi sta il gruppo di gran lunga maggiore delle abitazioni alternative e solidali: di coloro che sono stati costretti dalla necessità e dalla miseria a cambiare il proprio stile di vita. È allora probabile che queste persone, una volta finita la depressione e con «normali» condizioni di vita e di lavoro, tornino, insieme ai gruppi di carità, a una quotidianità capitalistica. La questione è perciò fino a che punto le forme associative dell’economia alternativa, che agiscono consapevolmente, riusciranno a preservarsi dopo il ritorno nel poco solidale sistema normativo del feticismo delle merci e del consumo.

Un approccio promettente per l’elaborazione sociale di un orientamento anti-sistemico potrebbe consistere in questo: che le attiviste e gli attivisti, collocati al di fuori del ciclo capitalistico, divengano coscienti dei problemi chiave di tutti i progetti economici alternativi. Oggi, sono tutti consapevoli della mostruosa ricchezza sociale di cui si sono prevalentemente appropriati i ceti superiori e le élite dominanti. La consapevolezza di una prospettiva di vita socialmente sicura e la concreta possibilità di un benessere collettivo possono difficilmente essere compensate da modelli di ascetismo, tralasciando le promesse delle diverse religioni di un bene superiore nell’aldilà. Per tenere insieme capra e cavoli, gli orizzonti dell’economia alternativa vanno dunque collegati a una vasta riappropriazione dei beni pubblici. Abbiamo già indicato l’ambito di intervento che si offrirebbe in quel caso. Se si riuscisse a creare un orizzonte comune di prassi tra i settori portanti dell’economia alternativa e le attiviste e gli attivisti per la riappropriazione sociale, sarebbe allora possibile un salto di qualità che superi i confini delle «riforme decisive» nella direzione di una società egualitaria postcapitalistica: come prova concreta del fatto che è possibile appropriarsi collettivamente della ricchezza accumulata attraverso il lavoro reificato e riconoscersi in quella soggettività sociale libera dal dominio che si va sviluppando.

Un simile sviluppo aiuterebbe inoltre a liberarsi di molte barriere, che oggi continuano a ostacolare la credibilità e l’auto-affermazione della resistenza sociale. La chiamata a un’auto-amministrazione della vita sociale, a partire da un modello consiliare, non sarebbe più solo una questione di parole, bensì una prova che la democrazia diretta può offrire buoni strumenti per l’appropriazione sociale e la costruzione di una vita materiale. Ma potrebbe anche condurre la vita culturale, liberata dalla tutela delle élite e dell’istruzione borghese, a una nuova fioritura. Precisamente, la storia culturale europea è caratterizzata da una lunga tradizione di simbiosi tra creazioni popolari e lavoro individuale, che ha allargato i limiti della soggettività sociale attraverso i mezzi stilistici delle arti figurative, le creazioni musicali, i film e la letteratura. Ci auguriamo che l’avvento di un periodo di uguaglianza porti anche a nuove dimensioni multiculturali della vita in comune, la cui portata possiamo oggi soltanto immaginare.

Con queste osservazioni sulle possibilità di un’Europa egualitaria e multiculturale non vogliamo in alcun modo suscitare l’impressione di essere eurocentristi: è l’esatto opposto. Siamo ben consapevoli di quale miseria e devastazione abbia portato nel mondo l’espansione europea cominciata nel XV secolo. Così come abbiamo presenti gli abissi provocati dalle due guerre mondiali e analizzato a fondo le cause che hanno portato alla Shoah e ad Auschwitz. Nulla è più distante dalle nostre intenzioni della presunzione di«dare lezioni» agl altri continenti e subcontinenti con le nostre proposte per una federazione europea. Nel contesto europeo, tuttavia, devono essere esaminate le esperienze delle sottoclassi dei tre continenti e dei restanti territori della regione della Triade: il risultato di questa analisi è già parzialmente incluso nelle nostre proposte. Non solo, siamo consapevoli che un’Europa federale duratura possa funzionare soltanto se sarà sostenuta da movimenti di emancipazione nelle altre regioni del mondo, anche se dotati di una struttura diversa. Naturalmente vale anche il contrario. Perciò la nostra proposta va intesa come un contributo a una globalizzazione dal basso e questa ricerca assumerà punti di collegamento transcontinentali.

L’Europa egualitaria non può essere un blocco di potere chiuso in se stesso e inattivo. Dovrà continuamente aprirsi ai movimenti migratori globali, contribuire attivamente all’eliminazione della politica di violenza imperialista e al rovesciamento socioeconomico degli squilibri globali. Uno degli strumenti più importanti per raggiungere lo scopo sarà probabilmente l’introduzione di una moneta scritturale globale, illimitatamente disponibile per tutte le economie nazionali e che trasferisca automaticamente i surplus di bilancio ricavati per coprire i costi dei paesi più deboli e in particolare delle nazioni in via di sviluppo. In questo senso, la strada verso l’Europa federale non è né più né meno che un contributo, caratterizzato dalle specificità del continente, verso una società globale ampiamente egualitaria.

Associazione dell’Europa egualitaria

In conclusione, abbiamo pensato a come sottoporre le nostre proposte ai forum di resistenza sociale e alle piccole comunità di economia alternativa. Poiché solo dialogando con loro è possibile sostenere i loro programmi, prendere parte ai loro processi di comprensione e convogliare le loro esperienze nell’elaborazione di un programma generale di rovesciamento sistemico. Per questo proponiamo la fondazione di un’associazione che abbia nessi tra tutte le regioni europee e tra tutti gli ambiti del nuovo multiverso delle classi subalterne. Quest’associazione non è un partito, poiché il sistema dei partiti della democrazia rappresentativa ha perso da tempo la propria credibilità. Ma dovrebbe superare anche l’idea della sinistra tradizionale e rinunciare a qualunque pretesa avanguardista. Dovrebbe, invece, darsi la forma di una rete in grado di rappresentare tutti quei punti di cristallizzazione sociale che costituiscono collettività autonome e responsabili del cambiamento. Dovrebbe inoltre, da un lato, fondarsi sui format forniti da internet – portali, blog, forum ecc. – e, dall’altro, organizzare incontri tra delegati comunali, cantonali, regionali e federali, per permettere loro di scambiare esperienze, promuovere le prospettive programmatiche e fissare i punti principali delle attività e delle campagne.

A questo proposito, l’associazione dell’Europa egualitaria dovrà sempre vincolarsi a non agire come rappresentante degli interessi burocratici dei molteplici ceti e gruppi del multiverso, bensì esserne parte attiva. In questo modo si potranno convincere settori sempre più rilevanti della classe lavoratrice della possibilità di prendere in mano e fissare le proprie esigenze su tutti i piani della vita sociale, economica, politica e culturale. In questo senso, l’associazione dell’Europa egualitaria è parte integrante della resistenza sociale, dell’economia alternativa e delle iniziative per la riappropriazione dei beni pubblici.

Il campo di azione più importante dell’associazione è la sua partecipazione all’azione diretta: lavoro rallentato, scioperi a singhiozzo, accorciamento autodeterminato della giornata di lavoro, picchetti e campagne coordinate, barricate, occupazioni di fabbriche, di municipi, piazze, case e terreni, così come il coordinamento di tutte queste forme di azione fino allo sciopero generale dell’intera Europa. Da queste forme di manifestazione e processi di comprensione della resistenza sociale possono emergere strutture concrete per l’autoliberazione, che aprirebbero la strada a un’Europa federale: la costruzione di centri associativi e culturali, l’acquisizione di compagnie di pubblica utilità e strutture di formazione, la ricostruzione democratica del servizio sanitario e dei sistemi sociali e la conseguente costruzione di strutture democratiche dal basso. Con la definizione di questi ambiti di azione diretta sarebbe escluso l’emergere di nuove rappresentanze burocratiche, sarebbe garantito il progressivo smantellamento del potere statale e si garantirebbe che la dinamica dell’associazione non possa disconnettersi dalla dinamica di emancipazione del multiverso.

La composizione sociale dell’associazione dell’Europa egualitaria, in un primo momento, sarà probabilmente caratterizzata da due gruppi interconnessi: gli attivisti e gli intellettuali impegnati. Gli attivisti saranno in prevalenza giovani, alla ricerca di un’alternativa alla prospettiva di non avere futuro. Verranno da ogni parte del multiverso. Disporranno probabilmente del background multiculturale della migrazione, parleranno più lingue e in questo modo potranno impiegare le loro considerevoli capacità creative. Questo presupposto non riguarderà unicamente i giovani attivisti che possono acquisire qualifiche più elevate, ma anche i giovani delle periferie, così come tutti coloro che sono alle prese con lavori occasionali o ritmi ripetitivi in fabbrica e nei centri servizi.

Ci auguriamo che l’associazione includa anche tutti coloro che hanno abbandonato le costrizioni del capitalismo ultraliberista percorrendo la strada dell’economia alternativa in piccole comunità. Altri ancora, dopo la conclusione della loro formazione e periodi di nuovo orientamento, potrebbero essere coinvolti: quelli che cercano di mantenere un’identità critica nei confronti del sistema, anche in un’età caratterizzata dalla formazione di una famiglia e da compromessi professionali. Tra i più anziani, un altro gruppo importante potrebbe essere reclutato tra coloro che, in questi anni, hanno preservato l’infrastruttura sociale delle sottoculture metropolitane lavorando come librai, gestori di osterie, piccoli editori, redattori di quotidiani, avvocati, operatori culturali, sanitari e nella cura dei più disagiati. Si tratta inoltre di un gruppo che può disporre di relazioni importanti con le correnti dell’opposizione all’interno dei sindacati, delle organizzazioni non governative e dei partiti di sinistra, che potrebbero avere un’importante funzione di collegamento per l’associazione dell’Europa egualitaria.

Una seconda significativa cerchia di sostenitori potrebbe essere quella degli intellettuali impegnati, gli intellettuali «dal basso»: dal basso! Con questa affermazione vorremmo rendere giustizia a un fenomeno che si è affermato negli ultimi decenni all’interno delle classi medie. L’epoca degli intellettuali «universali», che davano voce alla classe operaia e agli esclusi dalla vita pubblica borghese, è finita da tempo. I media uniformati al radicalismo di mercato non tollerano più alcun intellettuale universale: preferiscono intellettuali mediatici, che declamino le dottrine delle élite dominanti nel contesto dello show business, del fascino delle star e dei grandi eventi.

Nei decenni passati, il gruppo dell’intellighenzia è stato sottoposto a una veloce riconversione tecnico-scientifica della sfera di produzione e distribuzione. Ha perso la propria autonomia relativa e si è massicciamente tradotto nella figura del lavoratore del sapere. Nel frattempo, è diventato in larga parte dipendente dall’offerta di lavoro e sottoposto a comando come le altre fasce del multiverso. Questo rimescolamento, politico e socioeconomico degli strati sociali, può favorire una trasformazione delle abitudini che renderebbe più semplice per molti intellettuali collegare la loro competenza professionale e la loro esperienza negli ambiti più diversi del sapere con l’impegno sociale. Già oggi, decine di migliaia di medici, informatici, urbanisti, fisici, economisti ambientali, pubblicisti, artisti e insegnanti di scuola superiore sono impegnati nella resistenza sociale. Il loro schieramento potrebbe in futuro arricchirsi di tutti gli attivisti che dopo anni di ininterrotta militanza potranno prendersi una pausa per acquisire competenze scientifiche. Tutte queste persone costituiscono il nuovo prototipo dell’intellettuale impegnato «dal basso», del lavoratore della conoscenza in opposizione al sistema. Quando si riuscirà a convincerli della fondatezza dell’associazione per l’Europa egualitaria, allora incrementeranno le possibilità di successo attraverso l’investimento dei loro rispettivi saperi e in questo modo contribuiranno a far sì che la prospettiva del rovesciamento del sistema si trasformi in una contro-pianificazione accuratamente elaborata.

Tra gli attivisti e gli intellettuali impegnati esistono dunque numerosi punti in comune. In comune c’è anche la capacità di oltrepassare i confini europei e collocare la trasformazione del vecchio continente in una prospettiva globale. Gli attivisti già oggi abbandonano sempre di più i luoghi di azione locale e regionale, per andare a conoscere le condizioni di resistenza sociale nelle vicine regioni europee e nel sud del mondo. Non diversamente si comportano anche i lavoratori e le lavoratrici del sapere del presente: non solo agiscono sempre più nel contesto di reti globali, ma sono sempre in movimento per partecipare a conferenze, workshop e progetti di ricerca interdisciplinari. Un’associazione per l’Europa egualitaria dovrebbe appoggiarsi abitualmente a strutture professionali specifiche ed espandere la loro rete verso le regioni confinanti: quelle del Mediterraneo, del vicino e medio Oriente, del restante est europeo, incluse Russia e regioni transatlantiche, così come le altre zone del mondo. In questo modo verrebbe assicurato un continuo scambio di informazioni e di esperienze, che collocherebbe l’Europa al centro di un cambiamento globale.

Karl Heinz Roth e Zissis Papadimitrou

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