Quando le parole contano, i giornali danno l'addio a "clandestino"

Giorgia Serughetti, Pagina99
7 luglio 2014

Chi attraversa il mare con la barca per scappare da una guerra non è un irregolare o un clandestino ma un richiedente asilo. E (quasi) tutti i mass media l'hanno imparato. Nella trasformazione della stampa decisiva la visita di Francesco a Lampedusa un anno fa.

“Non un solo euro dalla Regione Lombardia per questi clandestini”, dice Massimiliano Romeo, capogruppo della Lega Nord al Pirellone. “Bisogna che le navi li riportino a casa loro. Dopo che li riporti una volta, due volte, tre volte, vedrai che questi qua non si muovono più”, gli fa eco l'europarlamentare Gianluca Buonanno a La Zanzara. Niente di nuovo sotto il sole lumbard: i richiedenti asilo che approdano sulle coste della Sicilia? Nient'altro che clandestini. La soluzione? Riportarli tutti a casa.

La buona notizia è che il vento è cambiato, e che sono rimasti in pochi, oltre ai leghisti e ad alcuni residui del vecchio Pdl, a celebrare i fasti delle politiche di Maroni, continuando a sfidare, oltre alle Convenzioni internazionali, anche il vocabolario più elementare dei diritti.

Un indicatore del cambiamento è la diminuzione visibile proprio del famigerato “clandestino” nell'informazione che racconta le operazioni di Mare Nostrum. Un risultato per cui si batte da molti anni l'Associazione Carta di Roma, che propone un'autoregolamentazione del linguaggio giornalistico in tema di immigrazione. E' solo “ipocrisia”, come scrivono Magdi Allam e altre voci critiche, è “buonismo” di stampo governativo o vaticano? Non si tratta solo di questo. Anche se bisogna riconoscere che un punto di svolta nel rapporto tra media e immigrazione è stata probabilmente proprio la visita di Francesco a Lampedusa, l'8 luglio del 2013. In quell'occasione i quotidiani e i tg non videro nessun clandestino sulla strada del papa, solo “migranti”, “profughi”, “vittime di terribili tragedie”.

Oggi i media (con vistose eccezioni, sia chiaro) hanno in gran parte sostituito il frame della discriminazione con quello della pietà, e nelle cronache degli sbarchi i termini che leggiamo sono più spesso privi dalla carica denigratoria contenuta in quell'aggettivo che – ricorda Raffaella Cosentino nella guida di Redattore Sociale Parlare Civile - deriva dal latino clam (di nascosto) e dies (giorno), letteralmente: “che sta nascosto al giorno, che odia la luce del sole, occulto”. Clandestino è ciò che avviene di nascosto dall’autorità, in segreto, di soppiatto, contro la legge o le norme sociali, come il matrimonio clandestino o la relazione clandestina, il giornale clandestino, la bisca clandestina.

I richiedenti asilo, che sono la stragrande maggioranza di coloro che oggi raggiungono le nostre coste, non si nascondono se non da coloro da cui fuggono: da chi li perseguita per opinioni politiche, o per religione, razza, nazionalità, appartenenza sociale, e da chi mette a ferro e fuoco i loro paesi. Vogliono, al contrario, essere riconosciuti: fanno domanda d'asilo alla Questura, attendono a lungo (troppo a lungo) che questa venga esaminata, si presentano davanti alle Commissioni territoriali per raccontare la loro storia, sperando di essere creduti e di ottenere un permesso di soggiorno per asilo politico o protezione internazionale.

Nonostante tutto, la confusione in questo campo resta grande. Non solo a Radio Padania e nei discorsi da bar, ma anche su alcuni giornali si discute del “perché non se ne stanno semplicemente a casa loro”, “perché non aiutarli nel loro paese”. Quando scritto fin qui è forse sufficiente a rispondere. Un'altra questione sollevata negli ultimi tempi sulla stampa è “perché dobbiamo soccorrerli a nostre spese, spendere i nostri soldi per accoglierli e poi spenderne altrettanti per rimpatriarli?.

In realtà sono due discorsi diversi: mettere nello stesso calderone le risorse impiegate per accogliere i richiedenti asilo e quelle destinate ai centri di espulsione e ai rimpatri significa sovrapporre due ambiti che (sfortunatamente) sono spesso contigui, ma che dovrebbero essere affrontati separatamente.

L'asilo – si dimentica troppo spesso – rientra nell'ambito dell'immigrazione legale, non riguarda la gestione dell'immigrazione irregolare. Però chi scappa da violenze e conflitti, per fare richiesta di protezione internazionale, deve prima arrivare fisicamente nel territorio italiano e normalmente non ha un modo legale per farlo. I doveri di non respingimento alla frontiera e di accoglienza sul territorio derivano dalle convezioni internazionali ed europee firmate dall'Italia, mentre il sistema dei CIE e delle espulsioni sono il frutto delle politiche securitarie del nostro paese degli ultimi 10 anni, che hanno generato molto più che ridotto l'irregolarità.

La Carta di Roma raccomanda come dovere deontologico dei giornalisti “l’adozione di termini giuridicamente appropriati sempre al fine di restituire al lettore ed al pubblico in generale la massima aderenza alla realtà dei fatti, evitando l’uso di termini impropri”. Importante quindi non fare confusione e non generalizzare: "immigrato irregolare" e "richiedente asilo" non sono sinonimi, così come non lo sono "richiedente asilo", "rifugiato" (status riconosciuto in base alla Convenzione di Ginevra per motivi di persecuzione individuale) e "beneficiario di protezione sussidiaria" (permesso temporaneo riconosciuto per ragioni diverse dalla persecuzione individuale). Del resto, a proposito di stranieri, quale giornalista si sognerebbe di descrivere Marcelo come un centravanti brasiliano, o Lionel Messi come un terzino?

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