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In memoria di Anatolij Karol

l'Espresso
04 09 2015

E poi c'è la non notizia. La non notizia è la storia edificante. La non notizia è la buona novella, quella che tutto sommato non sposta niente perché il mondo in cui vogliamo vivere - fingendo invece di rifuggirlo, di volerlo diverso, di odiarlo - è un mondo fatto di sfiducia, di farabutti da temere, di lucchetti da chiudere e non di porte da aprire e di braccia da tendere. Camminiamo a spalle strette temendo di essere depredati, derubati, persino scacciati dal nostro stesso Paese.

Morto Gheddafi e seppellito l’infame accordo siglato con Silvio Berlusconi ad agosto del 2008, un accordo dal nome rassicurante, “Trattato di amicizia e cooperazione”, è divenuta di nuovo pressante la necessità di preservare, addirittura “difendere” le nostre coste e i nostri mari (nostri? come se una terra o un mare possano avere padroni) da chi fugge l’inferno e per anni ne ha trovato un altro, nei lager che l’Italia aveva commissionato alla Libia, dietro compenso (circa 5 miliardi di dollari in 20 anni, spacciati per risarcimento all’ex colonia). Luoghi in cui si infrangevano sogni, luoghi di tortura. In cui i detenuti non erano trattati da esseri umani, prova che la memoria dell’uomo è fin troppo labile e che l’unica vera leva che tutto muove è l’opportunismo. Eppure la visione di Berlusconi è stata di fatto l’ultimo scampolo di decisionismo in materia di immigrazione. Da quel momento il vuoto.

Meglio il vuoto, dirà qualcuno. Meglio il vuoto invece delle prigioni. Meglio morire in mare che essere torturati da aguzzini pagati bene, come era col governo libico. Ma io mi permetto di non voler scegliere. Non mi sembrano due opzioni possibili, così come forse l’esistenza di quell’orribile patto dal nome rassicurante, vorrei la ricordasse il ministro britannico dell’Interno, Theresa May, secondo cui le morti in mare di questi ultimi anni «sono state esasperate dal sistema europeo della libera circolazione». Non è così. Le morti in mare sono aumentate perché i migranti ora hanno il permesso di morire in mare e non vengono più torturati in prigioni di cui non vogliamo sapere nulla.

A parlare sono i numeri. Ad agosto del 2008 viene firmato a Bengasi il trattato tra Italia e Libia e nel 2010 il numero di clandestini che raggiungono le coste italiane diminuisce sensibilmente. Secondo i dati forniti da Frontex, dal 2008 al 2009 gli sbarchi sono diminuiti del 74 per cento. Quindi c’entrano poco gli accordi di Schengen e la libera circolazione e c’entra invece molto la caduta di Gheddafi e la fine dell’amicizia e della cooperazione.

E come le storie edificanti non incontrano i favori dei grandi media, anche quelle che ci sbattono in faccia la nostra meschinità hanno scarsa attenzione: la capacità aberrante di dimenticare la storia e di reiterare sofferenze, finisce per diventare, in fondo, non notizia.

E invece io questa notizia voglio raccontarla e mi piacerebbe che venisse ripetuta ogni qual volta degli stranieri, di chi viene da Paesi che non appartengono alla comunità europea, si narrano gesta infami. È una notizia triste e in fondo non fa notizia perché racconta una verità fin troppo ovvia che conviene ignorare: non esistono persone buone o persone cattive, non esistono categorie di persone che agiscono nel bene e altre che non lo fanno. Men che meno possiamo attribuire una qualche inclinazione alla violenza o una particolare predisposizione al crimine a seconda della razza o della nazionalità. Anatolij Karol, era ucraino ed è morto a 38 anni mentre in un supermercato di Castello di Cisterna, in provincia di Napoli, ha voluto sventare una rapina. Non è stato un caso, l’ha proprio voluto perché era con sua figlia di un anno e mezzo e aveva già finito di fare la spesa. Stava andando via quando si accorge che due uomini arrivati a bordo di una motocicletta avevano fatto irruzione. Anatolij ha messo in salvo sua figlia ed è tornato indietro. Ha immobilizzato un rapinatore ma l’altro gli ha sparato. Su di lui poi hanno infierito con diversi colpi alla nuca forse procurati non con un coltello ma addirittura con una penna, brandita con rabbia cieca.

Questo ha fatto notizia nei media tradizionali solo dopo che i social network ne avevano diffuso il racconto ma nessun commento importante da parte del governo. Anatolij era ucraino. Fosse stato italiano e il suo assassino uno straniero, oggi su questo caso avremmo avuto attenzione, raccolte di firme, cortei. Fino a che i quotidiani sbatteranno in prima pagina il mostro straniero, magari sospettato e non ancora condannato, non ci sarà spazio per altro e saremo destinati a vivere nella paura del diverso, piuttosto che crederci arricchiti da quanti con noi creano ormai una comunità e più di noi muoiono per difenderla.

Roberto Saviano

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