IL SOLE 24 ORE

Il Sole 24 Ore
03 12 2010


di Nicoletta Cottone

La crisi ha prodotto effetti perversi su una sola componente del mercato del lavoro: l'occupazione giovanile. Lo attesta il rapporto Censis 2010 sulla situzione sociale del Paese presentato oggi a Roma. E la gravità dell'allarme lanciato è racchiusa nei dati del rapporto. Nel 2009 tra gli occupati di età compresa fra i 15 e i 34 anni sono stati persi circa 485mila posti di lavoro (- 6,8%), mentre nei primi due trimestri del 2010 ne sono stati bruciati quasi 400mila (-5,9 per cento). Dunque in un anno e mezzo sono stati circa 885mila i posti persi dai giovani.

In generale, invece, a parte la fascia dei 35-45enni (- 1,1% nel 2009 e - 0,7% nel 2010), negli altri segmenti occupazionali l'occupazione non solo ha tenuto, ma è risultata in crescita. Per esempio è aumentata di 85mila unità nella fascia 45-54enni e di più di 100mila fra gli over 50 (+ 3,7 per cento). E i primi segnali del 2010 sembrano confermare il trend positivo.

La componente giovanile, secondo il Censis, è stata penalizzata sia dal maggiore coinvolgimento nel lavoro flessibile anche dalla forte contrazione del lavoro a progetto (- 14,9%) e del lavoro temporaneo (- 7,3 per cento). Da non trascurare, poi, la crescente inadeguatezza del sistema formativo a produrre competenze che servano veramente alle imprese e alla formazione dei giovani.

L'occupazione in "rosa" sembra resistere meglio di quella maschile, secondo il rapporto. Tra il 2008 e il 2009 gli uomini hanno perso 274mila occupati (-2%) mentre fra le donne i posti di lavoro bruciati sono stati 105mila (-1,1 per cento). Tendenza confermata anche nei primi due trimestri del 2010, che hanno registrato una contrazione dell'1,1% dell'occupazione maschile e dello 0,5% di quella femminile. Certo bisogna però anche ricordare il minor peso delle donne nel mondo occupazionale.

Il rapporto segnala anche, tra le tipologie di lavoro autonomo, una crisi di quello imprenditoriale. Tra il 2004 e il 2009 il numero di imprenditori è passato da 400mila a 260mila (- 35,1%), con una perdita secca di circa 140mila unità. Solo il lavoro libero professionale ha registrato una piccola crescita (+ 2,2 per cento). File indebolite anche per gli artigiani che hanno registrato una perdita secca di 90mila unità.

L'80% degli italiani, poi, ha dichiarato al Censis che la retribuzione dei lavoratori dovrebbe essere collegata per una significativa quota alla produttività individuale. I lavoratori sembrano pronti a recepire le innovazioni di gestione e di organizzazione del sistema del lavoro. Una delle strade da percorrere, spiega il rapporto, è il rilancio della contrattazione decentrata.

Il rapporto segnala che nell'ultimo decennio il terziario, insieme al mondo delle costruzioni, è stato il settore che più ha contribuito all'incremento dell'occupazione nel Paese: tra il 1999 e il 2009 è stata registrata la creazione di 2,2 milioni di nuovi posti di lavoro, che hanno colmato le significative perd8ite in agricoltura (- 150mila unità) e nell'industria (- 280mila lavoratori). Una capacità di crescita, però, che si è andata progressivamente esaurendo. Il contributo alla creazione di nuova occupazione è passato da 1,3 milioni nel quinquennio 1999-2004 a 890mila del lustro 2004-2009. In negativo l'andamento dell'ultimo anno (-0,8% fra il 2008 e il 2009), che non riesce a controbilanciare la piccola ripresa dell'anno in corso).
Il Sole 24 Ore
26 11 2010


Marina Castellaneta

Un grimaldello per ottenere il pensionamento per ragioni anagrafiche prima dell'età fissata dalla legislazione interna. La sentenza della Corte Ue sul caso Kleist (si veda Il Sole 24 Ore di ieri) potrebbe incidere sulle norme nazionali che fissano l'età pensionabile questa volta non a vantaggio o svantaggio delle donne, ma degli uomini. Non una novità per Bruxelles come dimostra l'approvazione da parte del parlamento Ue delle regole per il congedo di paternità. Per quanto riguarda le lavoratrici, già il decreto legislativo n. 5 del 25 gennaio 2010, che ha recepito la direttiva 2006/54, ha riconosciuto il diritto delle donne a rimanere in servizio fino all'età prevista per gli uomini, anche senza una comunicazione al datore di lavoro. È stato rafforzato, poi, il diritto all'azione giurisdizionale, con sanzioni più efficaci nel caso di disparità di trattamento. L'Italia, inoltre, dopo la sentenza del 2008 ha adottato la legge n. 122/2010 che stabilisce che le donne nel pubblico impiego devono andare in pensione a 65 anni. E se una lavoratrice del settore privato chiedesse di rimanere in servizio fino a 65 anni, in base alla sentenza Kleist, non incontrerebbe alcun ostacolo al riconoscimento della richiesta. Tutte da esplorare, invece, le possibili conseguenze della decisione sugli uomini. In effetti, riconosciuto che la determinazione dell'età pensionabile variabile a seconda del sesso costituisce una violazione di un principio fondamentale della Ue, sono anche i lavoratori a poter invocare la lesione del principio. In pratica, potrebbe accadere che un uomo chieda di andare in pensione alla stessa età prevista per le donne, quindi prima dei 65 anni. Prima di tutto, però, si tratta di verificare se uomini e donne si trovano in situazioni analoghe. Da sciogliere, quindi, in via preliminare, un nodo: il diritto a permanere in servizio invocato dalla donna, oggetto della sentenza Kleist, è analogo al diritto ad andare in pensione prima eventualmente invocato dall'uomo? Se la risposta fosse positiva gli uomini potrebbero avvalersi del diritto comunitario per rivendicare il diritto alla pensione anticipata per motivi anagrafici. Se gli enti previdenziali rigettassero l'istanza, per mancanza dei requisiti anagrafici o per l'assenza della cessazione del rapporto di lavoro, il provvedimento dovrebbe essere impugnato, entro 90 giorni, dinanzi al Comitato provinciale dell'Inps e dopo la decisione del Comitato, che è una condizione di ammissibilità, si aprirebbe la strada al ricorso (entro 90 giorni) dinanzi al giudice del lavoro competente per le questioni previdenziali. In questo caso, il giudice nazionale potrebbe, in forza della prevalenza del diritto Ue, disapplicare il diritto interno o sottoporre alla Corte di giustizia un quesito pregiudiziale d'interpretazione.

Solo scenari, per il momento, ma la sentenza sta già scatenando il dibattito. Per il vicepresidente della commissione Lavoro della Camera, Giuliano Cazzola (Pdl), il richiamo della Corte è «da prendere in considerazione». «Dobbiamo porci un problema serio – sottolinea Cazzola –: perché continuiamo a ritenere che un'età di pensionamento più ridotta per le donne sia un diritto da difendere mentre in Europa pensano che questo sia invece una discriminazione da cancellare?».
Critica, invece, l'automatismo dell'equiparazione l'ex ministro del Lavoro, Cesare Damiano, secondo cui «esistono soluzioni più flessibili. In una logica di innalzamento progressivo dell'età pensionabile, su cui non si discute, non è corretta la strada della rigidità». Per Damiano una soluzione potrebbe essere quella di permettere a uomini e donne di scegliere il momento dell'uscita del mondo del lavoro in un periodo che va dai 62 ai 70 anni di età, «introducendo incentivi al pensionamento dai 65 anni». «Le logiche rigide – sottolinea l'ex ministro – mal si combinano con il sistema contributivo verso cui ci stiamo avviando».
In tema di prosecuzione del rapporto di lavoro oltre i limiti di età anagrafica dalla prossima settimana inizierà in commissione Lavoro alla Camera l'iter sulla proposta di legge presentata proprio da Cazzola.
Il Sole 24 Ore
26 11 2010


di Alessandra Casarico e Paola Profeta

Una recente sentenza della Corte europea riapre il dibattito sulla parità dell'età di pensionamento di uomini e donne. La Corte dà ragione a una lavoratrice austriaca che si ritiene discriminata, perché mandata in pensione a 60 anni, cinque anni prima dei suoi colleghi uomini.

La sentenza offre spunti interessanti anche per il nostro paese. La lavoratrice austriaca ha fatto ricorso esattamente contro quel tipo di discriminazione per la quale la Corte di giustizia europea ha condannato l'Italia, imponendo di equiparare l'età di pensionamento di donne e uomini nel pubblico impiego. Infatti la Corte europea ritiene che l'uscita anticipata dal mondo del lavoro delle donne rispetto agli uomini discrimini le donne, perché limita le loro possibilità di accumulare reddito per la vecchiaia e aumenta il rischio di povertà. Questo risultato è aggravato dai divari di genere esistenti nel mondo del lavoro: poiché le donne guadagnano meno degli uomini, hanno percorsi di carriera più discontinui e associati a maggiori periodi di inattività non coperti da contributi previdenziali, la loro posizione pensionistica è in media più sfavorevole di quella degli uomini, specialmente in termini di generosità della pensione alla quale avranno diritto. Un minore periodo contributivo, sostiene l'Europa, riduce ulteriormente la possibilità di raggiungere i requisiti per una pensione pari a quella di cui mediamente godono gli uomini.

Questa posizione dell'Europa ha scatenato in Italia forti opposizioni. In particolare, in tanti hanno sottolineato come proprio l'uscita anticipata dal mercato del lavoro delle donne rispetto agli uomini sia da interpretare come una compensazione ex post per gli svantaggi subiti dalle donne nel percorso lavorativo, una soluzione alla discriminazione esistente nel mondo del lavoro anziché, come sostiene l'Europa, una sua aggravante.

Ancora una volta dobbiamo ripartire dalla questione centrale del dibattito: cosa significa parità tra uomini e donne? Significa uguaglianza di opportunità durante la vita lavorativa così come nella pensione. Significa superare i divari di genere nei tassi d'occupazione, nelle retribuzioni, nelle posizioni di vertice, per recuperare tutti i talenti, maschili e femminili, e valorizzarli allo stesso modo. Questo consentirebbe di migliorare la qualità di vita di tutti e di ridurre il rischio di povertà, di aumentare il benessere del nostro paese e prepararsi ad affrontare le sfide di una società sempre più complessa nelle relazioni interpersonali, familiari, lavorative. Perpetuare le differenze, nel lavoro o nelle pensioni, non ci porta molto lontano. Focalizzarsi sugli obiettivi di parità è invece un compito molto più impegnativo, ma più promettente.

È interessante sottolineare tuttavia che il perseguimento di obiettivi di parità è compatibile con varie soluzioni. Per esempio, parità nella pensione non deve necessariamente implicare l'aumento dell'età pensionabile delle donne. La parità può essere garantita anche consentendo a uomini e donne di accedere al pensionamento in modo flessibile all'interno di una finestra temporale specificata. Il caso della signora austriaca suggerisce che le preferenze individuali sul momento del pensionamento, così come le condizioni di salute e le situazioni familiari possono essere diverse e quindi è efficiente, oltre che equo, non imporre una specifica età di pensionamento, ma garantire flessibilità, a uomini e donne, sulla scelta del momento di ritiro dal mercato del lavoro. Il problema di garantire parità nei requisiti d'accesso sarebbe comunque risolto e il metodo contributivo di calcolo della pensione dovrebbe già contenere elementi di disincentivo al pensionamento anticipato che fa temere per l'equilibrio dei conti pensionistici. Per far fronte all'invecchiamento della popolazione ed evitare fenomeni di pensionamento anticipato, la finestra potrebbe comunque essere spostata decisamente in avanti, e accompagnata dallo sviluppo di politiche d'invecchiamento attivo per uomini e donne. Di questo dovremmo ricordarci quando cominceremo a parlare di nuovo d'equiparazione dell'età di pensionamento tra uomini e donne nel settore privato.
Il Sole 24 Ore
25 11 2010


di Maria Carla De Cesari

La Corte di giustizia Ue ha obbligato l'Italia ad aumentare l'età della pensione di vecchiaia nel pubblico impiego, per parificarla, dal 2012, a quella degli uomini. Dalla stessa Corte arriva ora la leva per omologare, per uomini e donne che lavorano nel privato, i requisiti per il trattamento di vecchiaia (si veda «Il Sole 24 Ore» di ieri).

Per la Corte, infatti, non è ammessa la discriminazione in base al sesso per quanto riguarda i requisiti anagrafici della pensione di vecchiaia. La prospettiva dei giudici europei (causa C-356/09, relativa all'Austria) è quella di escludere differenti trattamenti nell'ambito della procedura di licenziamento. Non si può consentire, per ridurre il personale, di chiudere il rapporto di lavoro con quanti compiono l'età della vecchiaia a 60 anni: in questo caso le donne hanno un anticipo di cinque anni rispetto agli uomini. Contro questa penalizzazione, la signora Kleist, un medico austriaco, ha avuto ragione alla Corte di giustizia.

La sentenza, a differenza di quella del 2008 – proprio ieri Bruxelles ha chiuso ufficialmente la procedura di infrazione, dopo la legge 122/2010 (si veda anche il grafico) – non produrrà effetti automatici nel nostro Paese. Tuttavia, si tratta di un'opzione offerta al legislatore per intervenire, di nuovo, nel cantiere delle pensioni. Oppure, potrebbe essere uno strumento legale offerto a chi si sentisse discriminato della differenza di età per la pensione di vecchiaia. Va detto che, nel nostro paese, in situazioni di normalità economica le donne, raggiunti i 60 anni, possono continuare a lavorare fino a 65, ma nelle ristrutturazioni aziendali è naturale che si selezionino i dipendenti più vicini al pensionamento.

Nessun commento sulla sentenza è arrivato ieri dal ministero del Lavoro e anche l'Inps non ha ritenuto di intervenire. «La previdenza – spiega Alberto Brambilla, presidente del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale del ministero del Lavoro – non è tra le materia di competenza di Bruxelles. Eppure, le pronunce della Corte di giustizia danno, all'Europa, un potere, vincolante o di indirizzo. Dopo la sentenza del 2008 abbiamo dovuto accelerare l'allineamento dell'età della pensione tra uomini e donne dipendenti del pubblico impiego, perché in quel caso c'era una procedura di infrazione. Per il privato la questione si porrà nel prossimo futuro».

Riprendere in mano la situazione risponde, per Brambilla, all'esigenza di mettere ordine in un sistema che produce effetti paradossali: per esempio, le lavoratrici autonome che hanno 35 anni di contributi possono andare in pensione di anzianità solo con 61 anni di età. L'anno prossimo, il requisito anagrafico di 61, sempre per la pensione che dovrebbe essere anticipata rispetto alla vecchiaia, diventa vincolante, con 36 anni di contributi. Questa condizione varrà dal 2013 anche per le lavoratrici dipendenti.

C'è poi, secondo Brambilla, un motivo di tenuta complessiva del sistema. «Occorre – afferma – rivedere la spesa sociale: quest'anno le pensioni rappresenteranno il 15-15,2% del Pil, contro una previsione del 14,9. A questo va aggiunto l'1,5% sul Pil per la spesa assistenziale – dai trattamenti sociali all'accompagnamento – e uno 0,5 relativo agli ammortizzatori sociali. Nonostante le riforme di questi anni – dalla legge Amato del 1992 alla Dini del 1995, dalla Maroni del 2004 alla Damiano del 2007, fino all'ultima manovra – il rapporto tra la spesa e il Pil è rimasto elevato soprattutto per il limitato tasso di crescita, che da dieci anni caratterizza il nostro paese, e per la bassa produttività. I nostri competitori sono cresciuti di circa il 10% nel decennio, tra il 2007 e il 2009 la nostra produttività è calata del 2,7 per cento. Aumenta invece il deficit e il debito pubblico ha raggiunto 1.850 miliardi. Se va avanti così, la preoccupazione non è il futuro pensionistico ma il futuro dei giovani e del paese».

GLI ITALIANI E I ROM: QUALE STRADA PER LA CONVIVENZA?

Il sole 24 Ore
20 11 2010


Questa è la testimonianza di oggi e sentiremo che reazioni solleciterà nei prossimi giorni. Di certo solleva un problema: come vivere nelle nostre città, insieme e senza violenza per nessuno.

Gentile direttore, sono una mamma milanese, abito al quartiere Feltre, ho tre figli, una libera professione che m'impegna molto, un marito, una casa. Oggi, insieme ad altre mamme e maestre del mio quartiere, festeggerò in maniera speciale questa data, da tutti conosciuta come la Giornata dei diritti dei bambini, perché è l'inizio della storia che qui racconto. Tutto nasce due anni fa nel campo rom di via Rubattino, una vera e propria favela cresciuta e autorganizzatasi in un ex centrale Enel abbandonata, nella nostra zona. Le famiglie di rom romeni sono molte, moltissimi i bambini in età scolare che a scuola non vanno. Vista la stabilità del campo, la Comunità di Sant'Egidio prende l'iniziativa e iscrive una decina di bambini nelle tre scuole della zona: le scuole primarie Toti, Morante e Munari.
Per i bambini è la prima volta nelle scuole dei "gagè", sconosciuti e temuti. Per le famiglie italiane del quartiere è il primo incontro con i bimbi rom e con le loro famiglie, altrettanto sconosciute e temute. Questa semplice esperienza sovverte subito i pregiudizi. I bambini rom hanno nomi, storie, sorrisi e dopo qualche mese si sentono parte dell'esperienza scolastica legandosi alle classi e alle maestre. In seconda con mia figlia arrivano due gemelline, Cristina e Florina. Alla recita di Natale di quel primo anno scolastico le vedo felici ed emozionate sul palco che richiamano l'attenzione dei loro genitori mentre cantano. L'anno scolastico si conclude, i bambini sono ben inseriti. I genitori rom arrivano a prendere le pagelle a scuola eleganti e rispettosi. L'anno scolastico successivo inizia con molti altri bambini rom che vengono a scuola: nelle tre scuole ce ne sono una trentina. Sono arrivati fratellini e cugini. La scuola è un bel posto. Ma nel novembre scorso arriva lo sgombero della favela dove ormai vivono quasi 300 persone.

Quel mattino sono in studio, so dello sgombero. Apro le pagine online dei quotidiani milanesi e iniziano a scorrere sotto i miei occhi le foto. Vedo Cristina e Florina, gli occhi coperti dalla striscetta nera, piangenti accanto alla loro mamma, con gli zainetti di scuola in spalla. Per un mese 70 bambini, alcuni piccolissimi, e le loro famiglie vivono dormendo per strada, ovunque, qui in zona, senza neanche più il tetto di una baracchina sulla testa. Molti spariscono per mesi. A scuola non viene più nessuno di loro per settimane. Molte famiglie vengono ospitate nei giorni più freddi dai compagni di classe italiani e dalle maestre. Nei mesi successivi abbiamo lavorato per ricucire il più possibile di questa esperienza frantumata e per sostenere le famiglie dei bambini che a fatica e con tenacia sono tornati a frequentare le nostre scuole. Con l'appoggio del Gas Feltre, un gruppo di acquisto di zona, e di Intergas, genitori e maestre hanno ideato un'iniziativa di raccolta fondi per sostenere con borse di studio e lavoro le famiglie di questi bambini: la vendita del vino R.O.M. (Rosso di Origine Migrante) messo a disposizione da un viticoltore toscano. Il vino R.O.M. ha incontrato tantissima solidarietà e le sottoscrizioni hanno consentito di approntare le prime borse lavoro e borse di studio.
Durante quest'anno, con le nostre poche forze di semplici cittadini, il nostro poco tempo e i pochi soldi raccolti abbiamo coinvolto circa dieci famiglie rom di bimbi che vengono nelle nostre scuole in percorsi di reinserimento lavorativo (tre papà e una mamma), ripresa di percorsi scolastici (tre fratelli adolescenti frequentano "scuole bottega" dove imparano un lavoro), uscita dal campo di quattro famiglie che sono riuscite ad andare a vivere in casa. Sono una mamma milanese come tante altre, che un anno fa, insieme a un manipolo di genitori e maestre di buona volontà si è detta intimamente «io no» davanti all'espulsione di bambini poveri da scuola, l'unica possibilità per loro di un futuro diverso. Mi guardo indietro e quasi incredula vedo quanta strada abbiamo fatto tutti insieme quest'anno.
Bianca Zirulia

DONNE D'ASIA IN CIMA AL BUSINESS

il sole 24 ore
18 11 2010


Monica D'Ascenzo
«Alla fine del mese mi restavano in tasca due dollari e quando capitava che fossero cinque mi sentivo in paradiso». La frase le scivola via con un sorriso affettuoso. Trent'anni fa, quand'è arrivata negli States, aveva solo 23 anni: entrava in ufficio a mezzanotte e faceva la receptionist fino alle 5 di mattina per essere poi in aula all'università alle 8. Indra Krishnamurthy Nooyi, Muku per gli amici, è da anni in cima alle classifiche delle donne più potenti e più pagate al mondo e svetta anche nella «Top 50 women in the world business» del Financial Times.
Eppure è fra quelle che hanno dovuto affrontare tre sfide «l'essere immigrata, donna e di colore», quando alla fine degli anni Settanta è arrivata a Yale per il master in management. Senza contare il fatto che non poteva deludere la famiglia dell'India del sud: «Quando ero una bambina, se non rientravo fra le prime tre della classe nella classifica che facevano ogni mese, piuttosto che affrontare mio nonno mi sarei buttata sotto un pullman», racconta Indra, ricordando che i genitori le raccomandavano «se fai un lavoro, fallo meglio di chiunque altro». E lei li ha presi alla lettera arrivando al top del management a livello globale (oggi alla PepsiCo, prima alla Boston Consulting), non rinunciando a essere madre, a suonare la chitarra elettrica, a vestire il saari nelle occasioni ufficiali e a divertirsi con il karaoke nelle feste aziendali.
Un modello, che non è rimasto un unicum in Asia, area geografica da dove arrivano 18 delle top50, a contendere il primato al Nord America con le sue 19 potenti manager. D'altra parte proprio in paesi a forte crescita, come Cina e India, la presenza delle donne nel management e nei cda è molto più alta della media dei paesi occidentali. Dalla Cina viene la lady di ferro del business, un mix tra Margaret Thatcher e Donald Trump, secondo la stampa cinese: Dong Mingzhu o sister Dong come è conosciuta in azienda (quinta nella classifica Ft). Famosa per non aver preso neppure un giorno di ferie in vent'anni alla Gree Electric Appliances, Dong suole ripetere: «Non sbaglio mai, non ammetto i miei errori e sono sempre nel giusto», tanto che i nemici dicono che dove passa «non cresce più l'erba». È arrivata in azienda a trent'anni: dopo la morte del marito, lasciò il figlio alla madre e andò a cercare fortuna, ora è il presidente. Della sua vita è stata fatta una fiction televisiva di successo e lei stessa ha scritto il best seller Regretless pursuit, per insegnare con il suo esempio alle giovani cinesi a puntare in alto.
Madre di Shanghai e padre di Hong Kong, la prima ingegnere chimico e il secondo architetto, per Andrea Jung (seconda per l'Ft) nata in Canada ma cresciuta negli States. Studente per nulla brillante, otteneva buoni risultati a scuola solo dietro ricompensa da parte dei genitori, come quando in quarta elementare chiese una scatola di matite colorate che le fu data solo a fine anno come premio dei voti conquistati. Un'educazione al lavoro per conseguire un obiettivo che le è servita anche all'università e poi nella carriera. Ai tempi del college cominciò da capoclasse per finire come presidente degli studenti, per poi laurearsi magna cum laude in letteratura inglese a Princeton nel 1979. Da manager in Bloomingdale's è diventata la prima ceo di Avon grazie alla filosofia secondo cui «il mercato emergente non è un paese ma sono le donne». L'ultima conquista della Jung è stato Steve Jobs, che lo scorso anno l'ha chiamata a sedere, unica donna, nel board di Apple.
Dall'altra parte del globo, l'americana Cynthia Carroll (12esima) vanta il primato da ceo donna alla guida di Anglo American, la quarta società al mondo attiva nel settore dell'estrazione di materie prime. Fino a qualche anno fa, in Sudafrica era vietato alle donne lavorare in miniera e Cynthia Carroll, fresca di nomina, chiese di scendere a due chilometri di profondità dove si estraeva platino. Da allora i suoi collaboratori hanno imparato che non possono dirle «è un lavoro da uomini». E hanno imparato anche che il profitto non è a ogni costo dopo che la ceo bloccò i lavori in una miniera fermando 28mila dipendenti per i troppi incidenti.
Dall'Europa all'Australia il settore che conta il maggior numero di donne al potere, secondo l'Ft, è quello finanziario anche a seguito del turnover seguito alla crisi del 2008. In India Chanda Kochhar (11ª) guida la Icici bank, seconda banca del paese, e Shikha Sharma (48ª) la Axis Bank, mentre in Australia Gail Kelly (17ª), mezza sudafricana e madre di quattro figli, è l'amministratore delegato della Westpac Bank. L'Europa si difende soprattutto nei paesi nordici: in Svezia Annika Falkengren (18ª) è il numero uno della Skandinaviska Enskilda Banken (Seb) e Mia Brunell Livfors (50ª) la Ab Kinnevik; nelle assicurazioni la britannica Alliance Trust è nelle mani di Katherine Garrett-Cox (49ª) e la danese Tryg è guidata da Stine Bosse (22ª). Nell'analisi per settori, poi, il retail e l'alimentare seguono a ruota, così come i media e i servizi. Resta un mistero la presenza di una sola manager potente nella moda: Angela Ahrendts (13ª) è, da americana, ai vertici della britannica Burberry.
L'Italia è rappresentata nella classifica dal presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia (29ª, era 38ª lo scorso anno). Dalla carriera all'interno del gruppo di famiglia, è arrivata nel marzo del 2008 a guidare, prima donna, gli imprenditori italiani. Tra le emergenti segnalate dal Financial Times, anche altre manager di casa nostra: Patrizia Grieco (ceo di Olivetti), Monica Mondardini (ceo del gruppo l'Espresso) e Daniela Riccardi (ceo di Diesel).

VACCINO ANTI-AIDS, L'ITALIA FA CENTRO

il sole 24 ore
13 11 2010

di Manuela Perrone
 Rigenera il sistema immunitario dei sieropositivi e lo riporta verso la normalità, rafforzando l'effetto delle terapie antiretrovirali. Sono promettenti i risultati del vaccino terapeutico anti-Aids messo a punto dal team di Barbara Ensoli all'Istituto superiore di sanità. Uno studio appena pubblicato sulla rivista Plos One illustra i primi esiti della sperimentazione di fase 2 ottenuti su 87 pazienti a 48 settimane dalla somministrazione del vaccino. Il test si concluderà quando tutti i 160 soggetti previsti saranno arruolati. «Ma i risultati sono stati talmente rapidi ed entusiasmanti – spiega Ensoli – da spingerci a pubblicare i dati».
Il vaccino – "nato" da quasi 15 anni e in corso di sperimentazione in 11 centri clinici di sei regioni, tra cui il San Raffaele di Milano e il San Gallicano di Roma – agisce contro la proteina Tat, centrale nella replicazione del virus Hiv, ed è stato inoculato mensilmente per via intradermica a due dosaggi (7,5 o 30 microgrammi) per tre o cinque volte in pazienti curati efficacemente con terapia antiretrovirale. «I farmaci non bloccano l'immunoattivazione, lo stato di allarme continuo del sistema immunitario, perché Tat continua a essere prodotto e quindi non riescono a ristabilire l'omeostasi del sistema immunitario», dice Ensoli.
«Per questo i pazienti finiscono per manifestare problemi cardiovascolari, renali e cerebrali in un quadro di invecchiamento precoce». Il segreto del vaccino sta qui: bloccando l'azione di Tat, «arriva dove i farmaci non arrivano». Lo dimostra il confronto tra gli 87 pazienti vaccinati e 88 persone curate con la sola terapia antiretrovirale. I primi stanno meglio: hanno presentato un significativo aumento delle cellule T CD4+ e dei linfociti B, componenti essenziali del sistema immunitario.
È comunque presto per il trionfalismo. La sperimentazione ha provato che il vaccino è sicuro e che aiuta i farmaci a funzionare meglio. Ma non sappiamo se in futuro potrà diventare sostitutivo della terapia né se può avere un effetto preventivo nei sani. «Per ora è urgente completare la fase 2, passando dagli attuali 128 pazienti arruolati a 160», osserva Ensoli. «E bisogna trovare i fondi: abbiamo ricevuto dal ministero della Salute 13 milioni sui 21 necessari». Mani tese dal ministro Ferruccio Fazio, fiero del «risultato tutto italiano»: «In un modo o nell'altro i finanziamenti si troveranno, nell'interesse dei malati». Voce fuori dal coro l'immunologo Fernando Aiuti, che raccomanda invece «estrema cautela», anche nell'investimento.
Il vaccino Tat ha però un valore aggiunto. «È un modello perfetto di ricerca traslazionale pubblica, cominciata dal laboratorio per arrivare al letto del paziente», afferma Enrico Garaci, presidente Iss. «L'Istituto ha protetto la proprietà intellettuale registrando dieci brevetti». Ciò non esclude la futura partecipazione dell'industria, anzi. «Siamo aperti a ogni collaborazione», precisa Ensoli: «L'ideale sarebbe lavorare tutti insieme».

FAMIGLIA, FATTORE BATTE QUOZIENTE

il sole 24 ore
10 11 2010

 

Laura La Posta
MILANO?Il quoziente è morto, viva il quoziente. Al suo posto va il fattore. Non quello della vecchia Italia contadina, però. Ma il fattore famiglia, vale a dire la nuova proposta di fisco equo spinta dal mondo cattolico attraverso il Forum delle associazioni familiari.?Nessuno piangerà per la scomparsa del quoziente familiare promesso nel programma elettorale del governo. L'imposta unica alla francese sull'insieme dei redditi del nucleo familiare avrebbe disincentivato il lavoro del coniuge più debole (la donna, tipicamente) e sarebbe stato più generoso con i redditi medio-alti: così tuonavano gli economisti della Voce.info e le associazioni femminili.?Il sorpasso del fattore sul quoziente è stato confermato ieri, nella seconda giornata della conferenza nazionale della famiglia a Milano, dallo sherpa della prima bozza di piano nazionale Pierpaolo Donati, direttore tecnico-scientifico dell'Osservatorio ad hoc. «Il fattore famiglia di ispirazione tedesca, che introduce una no-tax area al di sotto del livello minimo di vita decente tassando solo il reddito superiore, sta guadagnando larghissimo consenso alla conferenza», ha detto Donati, aggiungendo la vera notizia della giornata: «Questa misura costerebbe 16 miliardi, leggermente in più del quoziente, ma avrebbe il vantaggio di poter essere introdotta gradualmente».?Intanto uno studio di Luigi Campiglio (università Cattolica di Milano) svolto sulle serie Inps ha evidenziato come gli aiuti destinati alle famiglie sul versante previdenza tra il '96 e il 2008 siano diminuiti di 11,4 miliardi di euro: risulato di scelte che hanno privilegiato i pensionati rispetto a giovani e famiglie. In particolare è stato stimato che si sono avuti 4,6 miliardi di euro di assegni familiari in meno.?Ci sarà la volontà politica di trasformare in misure concrete le indicazioni tecniche della conferenza e le istanze cattoliche? Ne parleranno oggi, nella giornata conclusiva della conferenza, sei sindaci, le parti sociali, ed esponenti del governo: i sottosegretari Carlo Giovanardi ed Eugenia Roccella, i tre ministri Gianfranco Rotondi, Angelino Alfano e Giorgia Meloni.?Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

AIUTI ALLE FAMIGLIE, LITE SU SACCONI

il sole 24 ore
9 11 2010

 

Laura La Posta
MILANO?Due frasi contestate di esponenti del governo, mille polemiche, centinaia di pagine di relazioni dotte e propositive, un messaggio del presidente della Repubblica, nessun annuncio di misure concrete, come lasciava intendere l'assenza del premier Silvio Berlusconi (spaventato da possibili contestazioni): è scarno di risultati, ricco di idee ma avvelenato da contrasti ideologici il bilancio della prima giornata della conferenza nazionale della famiglia, in corso a Milano. Così, è passata in secondo piano la richiesta forte del mondo cattolico (portata avanti dalle associazioni familiari, dai vescovi e persino da papa Benedetto XVI) di aiuti alla famiglia nella dura congiuntura economica attuale.?Eppure, si era partiti con il piede giusto. La bozza di piano da consegnare al governo per la trasformazione in proposta di legge (elaborata dall'Osservatorio diretto per la parte tecnico-scientifica da Pierpaolo Donati) contiene il primo tentativo di dare un quadro organico alle politiche sulla famiglia in Italia. Ed è imperniato sulla richiesta, che giunge forte dal Forum delle associazioni familiari, di un fisco più equo, commisurato al numero di componenti del nucleo. Un'istanza in discussione anche al tavolo della riforma fiscale e fatta propria dal governo, con l'iper-promesso quoziente familiare ora emendato nella versione denominata Fattore famiglia. Tant'è che il sottosegretario alle politiche familiari, Carlo Giovanardi, padrone di casa della conferenza, ha così sbottato fra gli applausi: «Il fisco amico della famiglia lo vogliono tutti, il governo, Fini, Casini, le opposizioni e le parti sociali; e allora trasformiamolo in realtà questo quoziente o fattore famiglia in discussione. Basta proclami».?Poi gli esponenti del governo, tranne Mara Carfagna (pari opportunità), si sono invischiati nella definizione di famiglia e nella restrizione delle politiche di aiuto e lì è montata, fuori dalla conferenza, l'ondata di polemiche. Due le frasi contestate. Giovanardi: «Le biotecnologie possono togliere ai figli il diritto di nascere all'interno di una comunità d'amore con una identità certa materna e paterna». Maurizio Sacconi, ministro del lavoro e delle politiche sociali (dopo analoga presa di posizione di Giovanardi): «Le politiche pubbliche si impegnano a garantire i diritti delle famiglie fondate sul matrimonio e votate alla procreazione». Innumerevoli le reazioni sdegnate di tutta l'opposizione e di buona parte della società civile laica: fra tutti, il senatore del Pd Ignazio Marino ha difeso le famiglie con figli nati dalla provetta ed Emma Bonino, in un sit-in in strada contro la conferenza, ha tuonato contro il limbo oscurantista in cui vive l'Italia, mentre Rosy Bindi in sala si dichiarava molto delusa e Franco Grillini ha parlato di trionfo dell'ipocrisia. In serata, Sacconi ha poi corretto il tiro, precisando che faceva riferimento a tre articoli della Costituzione e che anche «i figli delle coppie di fatto vanno sostenuti» e persino aggiungendo: «non sono un nazista». Giovanardi, invece, ha tenuto il punto: «le coppie di fatto rinunciano al riconoscimento pubblico di loro volontà, è chiaro che di fronte allo stato la loro è una situazione diversificata».?Ma al di là delle polemiche, resta il fatto che nove milioni di coppie con figli, nel nostro paese, stanno soffrendo più degli altri nuclei sociali e non a caso sono in forte calo: -9% negli ultimi 10 anni, secondo l'Istat. Lo ha evidenziato anche il presidente della repubblica, Giorgio Napolitano, in un messaggio alla conferenza, in cui ha chiesto «deliberazioni impegnative per sostenere e sorreggere le famiglia, in particolare quelle che, anche a causa delle ulteriori difficoltà provocate dalla crisi economica, che si aggiungono ad antichi squilibri, sono più esposti al disagio e all'esclusione sociale».?Ha chiesto al governo «risposte concrete e non solo enunciazioni sui valori» anche l'arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi. Sacconi ha risposto che lo stato già fa la sua parte, «con l'abolizione dell'Ici sulla prima casa, i 16 miliardi erogati dall'Inps ai non autosufficienti, i 30 attribuiti loro dal servizio sanitario, le detrazioni fiscali per 18 miliardi e gli ammortizzatori sociali».?Rischia di restare solo sulla carta, quindi, il piano sulle politiche familiari in elaborazione, che secondo stime Sole 24 Ore contenute nel Rapporto Sviluppo sostenibile di ieri costerebbe 20 miliardi. Ma poi, a quale governo andrebbe consegnato, fra sei mesi, questo piano? «A questo o a successivi esecutivi - risponde pragmatico il sottosegretario Giovanardi -. L'importante è che la famiglia torni al centro dell'agenda politica del paese».?Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

LO SPORT DONNA ABBATTE LE BARRIERE

il sole 24 ore
9 11 2010


Non è più una sorpresa vedere le donne italiane primeggiare nello sport. Nel fine settimana è toccato alle tenniste vincere per la terza volta la Fed Cup, la Coppa Davis femminile, la più importante manifestazione a squadre, battendo gli Stati Uniti in casa loro. E le fiorettiste, ai campionati del mondo di Torino, hanno occupato i primi tre posti del podio con l'oro alla giovane jesina Di Francisca e il bronzo alla sua concittadina Valentina Vezzali, leggenda della specialità (argento alla monzese Arianna Errigo).
Le donne della pallavolo hanno schiantato gli Stati Uniti (ancora loro) e sono in corsa per l'oro mondiale della pallavolo. È un'onda lunga che abbiamo visto gonfiarsi alle Olimpiadi, ai mondiali di diverse specialità (dal nuoto al ciclismo) che ha fatto brillare gemme come Federica Pellegrini, simboli dell'intero sport italiano. Tra i motivi degli exploit l'aumento della pratica sportiva femminile e, soprattutto, l'oggettività dei risultati. Nello sport le donne si prendono quello che loro spetta. Certo sono gare di genere, ma deve far riflettere che, a parità di condizioni, nelle competizioni mondiali le donne emergono, gli uomini arrancano. Il merito vince sul pregiudizio.

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