Dinamo Press
21 09 2015
Azione sul fiume Tevere in solidarietà con il movimento che si batte contro la diga di Ilisu, in Turchia. Un progetto che minaccia il patrimonio storico, culturale e ambientale dell'intera Mesopotamia.
Ieri pomeriggio un gruppo di attivisti e attiviste ha manifestato la propria solidarietà a chi in Turchia si batte contro la costruzione della diga di Hasankeyef. Hasankeyf è un sito archeologico millenario sul fiume Tigri, minacciato dal progetto di costruzione della diga di Ilisu e di una centrale elettrica, fortemente voluti dal governo turco. Sul fiume Tevere, a pchi passi dall'isola Tiberina, nel girno della mobilitazione transnazionale contro il progetto criminale, è stato srotolato uno striscione con la scritta "Stop Ilisu Dam. Defend Culture, Land & People. Hasankeyf is not alone, Erdogan Terrorist".
La costruzione della diga costringerebbe circa 80000 persone ad abbandonare l'area, oltre a distruggere una parte fondamentale del patrimonio culturale, storico e archeologico della popolazione curda. In più garantirebbe alla Turchia il sostanziale controllo sul flusso del fiume Tigri, aggiungendo un ulteriore elemento di instabilità ad all'area compresa tra Turchia, Iraq e Siria.
La resistenza contro la diga di Ilisu sarà al centro dell'iniziativa "Save the last drop" Frontiere di resistenza tra Kurdistan e Iraq: diritto all'acqua, al lavoro, alla pace che si svolgerà il 22 settembre presso la Facoltà di Scienze Politiche de La Sapienza
Di seguito l'appello alla mobilitazione transnazionale, distribuito durante l'azione.
Appello per una mobilitazione globale in difesa di Hasankeyf
Invitiamo gli attivisti, I movimenti sociali e le ONG, a partecipare, il 20 settembre, ad una giornata di mobilitazione globale, in difesa di Hasankeyf e del fiume Tigri!
Fermiamo il progetto della diga di Ilisu!
Domenica 20 settembre organizzeremo una grande manifestazione nell’antica città di Hasankeyef. Questa città, con oltre diecimila anni di storia, è minacciata dalla costruzione della diga e della centrale idroelettrica di Ilisu. Se il progetto verrà completato, il Kurdistan turco e tutto il nord della Mesopotamia, subiranno una devastazione sociale, culturale ed ambientale senza precedenti.
80,000 persone saranno costrette a vivere in miseria e l’ecosistema del fiume Tigri verrà completamente distrutto. Nel quadro attuale del Medio Oriente, il progetto della diga di Ilisu rischia inoltre di intensificare il conflitto all’interno e all’esterno del confine turco, secialmente per quanto riguarda lo scenario iracheno e siriano.
Il 20 settembre sarà l’ultimo di tre giorni di Campeggio resistente. Centinaia di persone e attivisti si raduneranno con l’obiettivo di fermare il progetto Ilisu. Migliaia di persone scenderanno di nuovo nelle strade per fermare la devastazione ambientale.
Invitiamo tutti e tutte ad organizzare azioni nelle vostre città e nei vostri paesi per denunciare il pericolo rappresentato dal progetto Ilisu, nelle forme che riterrete più appropriate, per denunciare le attività del governo Turco, della compagnia austriaca Andritz – la più importante del consorzio che si occupa del progetto – e del governo iracheno, che continua ad ignorare l’incombente desertificazione del suo territorio.!
Xwedî Derkeve - Difendiamo la nostra cultura, la nostra terra e la nostra gente
Dinamo Press
21 09 2015
All’improvviso il nostro mondo si è nuovamente capovolto. E, ancora una volta, sono le persone delle cui vite nulla importa alle élite europee a sollevarsi: quelli i cui destini sono di solito statistiche, che sono oggetto di una paternalistica amministrazione della miseria. Il colpo di mano di Schäuble contro l’OXI greco non è stata l’ultima parola nella lotta per una nuova Europa. No. Coloro che innalzano barriere, memorandum ed eserciti al di sopra delle persone non possono impedire a quelle vite di riprendersi il diritto di infrangere l’ordine costituito.
Da qualche mese stiamo discutendo i pro e i contro della sovranità nazionale europea. I nostri amici siriani e molti altri provenienti da Iraq, Afghanistan, Eritrea o dai Balcani hanno demolito i confini incontrati lungo il loro cammino per giungere fino a noi. Continuano ad arrivare e non si faranno certo fermare. Ci trasmettono ancora una volta un messaggio chiaro - sugli orrori quotidiani che avvengono in Siria senza prospettiva di una fine imminente, e sulla forza del comune che si è realizzata attraverso gli attraversamenti collettivi delle frontiere. Che segnale di speranza, di coraggio e di disperazione quando dei siriani abbattono il filo spinato europeo scandendo le parole d’ordine della loro rivoluzione: democrazia, libertà, dignità! Ora è ovunque. E l’Europa delle lotte è più viva che mai.
Il trionfo sull’OXI greco non ha risolto la crisi, che è invece arrivata in ogni angolo d’Europa. La speranza “greca” è stata smorzata, e le lotte intorno a quella speranza o che la avversano sono a un punto di stallo. Ma a questo si è aggiungiunto un nuovo apporto “dal di fuori”.
L’enorme numero di persone determinate a sopravvivere e ad ottenere protezione e aiuto sta per il momento sconvolgendo la stasi dei sistemi di controllo e sicurezza. Lo stato di emergenza nella periferia non minaccia più il cuore delle nostre società centro-europee solo in sporadici episodi ricorrenti. Ora è presente in maniera radicale, perché le vite degli altri non vengono più trattate ai margini ma, con il loro ingresso, si auto-negoziano con una forza che nessuno aveva previsto.
Come comportarsi con l’Unione Europea
I movimenti migratori sono sempre esistiti, eppure gli avvenimenti più recenti presentano tratti inediti. Queste fughe di massa stanno irrevocabilmente riportando la Germania e l’Europa occidentale nel mondo reale. Ancora una volta ad essere sollevata è la questione della democrazia europea e, con essa, quella del nostro futuro. Di nuovo si tratta di una questione di lotta dal basso, come in Grecia, ma questa volta con la partecipazione di altri, che portano con sé richieste di uguaglianza e libertà – in molti luoghi e in molti movimenti impossibili da contenere –, e che stanno tutti premendo e assediando la stessa fortezza. Le persone si sollevano, abbattono barriere, vanno dove vogliono andare. È così che bisogna comportarsi con l’Unione Europea.
Forse le persone di sinistra, non plasmate dall’ideologia o dalle granitiche certezze di sé, troveranno qui una risposta al loro quesito sulla Grexit o addirittura la loro “terza via”: contro l’ordine normativo, il controllo, i confini dei poteri dominanti. A prescindere dalle nostre visioni e dalle nostre tradizionali pratiche “di sinistra.”
Quando il demos fa la scelta giusta
Un po’ come succede con la società civile europea, che per anni è stata l’obiettivo irraggiungibile dei programmi educativi e dei sussidi statali. Da un lato essa esiste come appello ritualizzato e come movimento istituzionalizzato, dall’altro può agire come un demos europeo, come un gesto radicale dei molti - ed è proprio quel che sta succedendo. Ricco di eventi e di entusiasmi, reale per un momento ma con conseguenze totalmente aperte, ora il demos è emerso, si è palesato nelle stazioni ferroviarie e sulle rotte della grande rivolta migratoria. Lo si trova un Ungheria (sì, anche in Ungheria), Italia, Grecia, Polonia, Danimarca… in quantità e forme diverse. Questo demos c’era già all’epoca delle proteste contro l’austerità, e ora è tornato – è difesa contro l’omogeneità sciovinista della democrazia maggioritaria, contro la morsa delle politiche statali.
Questo demos può fare la cosa giusta, soprattutto quando lo stato di emergenza si presenta senza sovranità, senza uno stato, senza controllo istituzionale. Ma naturalmente esistono anche le altre scelte: le case che bruciano tra gli applausi dei residenti, gli attacchi razzisti. Non dobbiamo abbassare la guardia contro il fascismo, né dimenticare che la nuova solidarietà, per essere efficace, avrà bisogno delle battaglie e della diffusione sociale di molte altre battaglie grandi e piccole – dall’appropriazione laica del “diritto all’asilo nei luoghi di culto” come spazi di dimora e di accoglienza, alle lotte per iniziative di protezione e libertà di movimento dei profughi, alle reti di solidarietà transnazionali che vanno dalle isole greche al porto di Calais. L’autonomia delle migrazioni è sempre esistita, come coloro che vi prendono parte, ma ora può divenire sociale come non mai. Ci pone davanti al problema della democrazia e, attraverso la radicalità della sua effettiva realtà, si offre ai nostri occhi come una questione sociale che affronta in maniera diretta i suoi interlocutori: la gente, non lo Stato o i suoi rappresentanti. Questa è la sfida per noi tutti, la nostra occasione!
Pratici, solidali – e disobbedienti
Il recente #refugeeswelcome è un piano alternativo all’egoismo nazionale e al protezionismo ricco e sciovinista. Il suo spirito non s’interroga sul piano del lavoro e dell’utilità economica, m su quello della solidarietà e dell’umanità. Il dissenso nei confronti del vigente “patto” con il potere statale comincia da qui. Si tratta di una posizione pratica e solidale, di un chiaro rifiuto delle normali e cupe condizioni dettate dalla crisi, alla faccia di tutte le affermazioni sulla “barca piena”, “la marea di rifugiati”, “gli ostacoli concreti” e “la disciplina del bilancio”. L’azione politica e la potenziale rottura con il potere costituito cominciano così. Che fare? La domanda è in questo momento rivolta a tutta la sinistra. Lo sa bene addirittura quel potere sovrano che, per qualche momento, ha vacillato. Comincia a ricalibrare il suo controllo e il comando esercitato sulla società. Devono risospingere lo stato di emergenza verso la periferia.
A che punto saremo quando arriva l’inverno?
Se restiamo identici a come eravamo, apparterremo alla vecchia società – e questo a prescindere da quanto a sinistra ci sentiamo. Cambiando, diventeremo occasione di un potenziale risveglio sociale. Dalla nostra parte dilagano incertezza e confusione: chi è consapevole della necessità di cambiare, ancora non sa come farlo. Gli altri, invece, si sono uniti a noi e ci lanciano una sfida. Se loro – come hanno dimostrato – sono stati capaci di fare l’impensabile, quando cominceremo noi almeno a pensare l’impensabile
Chi si batte per un’Europa diversa, per la libertà e l’uguaglianza, contro la guerra e l’austerità, oggi è meno solo. #refugeeswelcome, che ormai dilaga, lo sta rendendo chiaro: la vera democrazia è una questione di equilibri di potere.
Pubblicato il 10.09.2015 sul blog Blockupy goes Athens
Traduzione a cura di euronomade
Dinamo Press
21 09 2015
Un'inchiesta approfondita sui Lupi Grigi, tra Turchia e Germania: ideologia, biografia, rapporti politici, relazioni con Erdogan.
“Questo Rap colpisce tutti i Curdi, figli di puttana, la gente di merda del PKK. Questo è un rap di Bozkurt, hai dato un’occhiata? Curdo crepa, pezzo di merda … questo è il Gangsta Rap Turco” Mardinli Mc Bozkurt
“Dieser Rap geht an die ganzen Kurden, Hurensöhne, die Scheiß-PKK-Leute. Das ist ein Bozkurt-Rap, hast Du das denn nicht gecheckt? […] Kurde verreck, Du Stück Dreck, dies ist ein Türkisch-Gangsta-Rap.”
Mardinli Mc Bozkurt
Qualche giorno fa Repubblica, in un memorabile reportage da una Turchia in fiamme, diffondeva l'immagine di alcuni manifestanti turchi “che protestavano contro le violenze dei ribelli curdi”.
Al di là della scarsa qualità giornalistica del servizio, altri dettagli potevano attirare l'attenzione del lettore un po' più esperto delle operazioni di disinformazione di cui la testata spesso si è resa responsabile. In una foto infatti si distinguevano alcuni uomini con delle bandiere simili a quella turca ma non proprio identiche (tre mezzelune su sfondo rosso invece della nota grande mezza luna) e facevano tutti uno strano gesto, unendo il pollice di una mano con il dito medio e anulare e mantenendo il mignolo e l'indice tesi quasi in una versione “orientale” del celebre gesto scaramantico italiano delle corna. I galantuomini rappresentati nella foto, si chiamano Lupi Grigi e sono un'organizzazione estremista e nazionalista più volte accusata di terrorismo. Quello strano gesto è il loro saluto ed è assimilabile al saluto nazista o fascista in Europa. Repubblica purtroppo, in un eccesso di ecumenismo pacifista, ha dimenticato di scrivere lo slogan con cui erano scesi in piazza in quella giornata, solo ovviamente dopo aver dato fuoco a diverse sedi del partito di sinistra HDP in giro per la Turchia: “basta interventi militari, vogliamo il genocidio dei curdi”.
Negli ultimi giorni (ma la cosa dura a memoria personale di chi scrive almeno dall'attentato a Suruc) nel paese con la più grande comunità curda e turca nel mondo, la Germania, i Lupi Grigi hanno risposto quasi in modo automatico alla chiamata al massacro dei curdi fatta da Erdogan. In un secondo momento proveremo ad abbozzare un'analisi politica rispetto a questo.
Questo articolo, scritto a poche ore dalla loro manifestazione a Berlino e a pochi chilometri da Kotbusser Tor, scenario di diversi episodi di violenza negli ultimi mesi, non si dilungherà sui recenti fatti di cronaca (già peraltro raccontati qui) ma proverà a spiegare chi siano i Lupi Grigi innanzitutto ai redattori di Repubblica (qualcun altro dovrà magari un giorno spiegare come i militanti neonazisti in Ungheria di Jobbik che colpivano i migranti non erano “volontari stressati dalle dure condizioni di lavoro” o Alba Dorata in Grecia non si occupa di meteorologia).
Un articolo necessario perché nelle nostre sicure e calde metropoli, sempre più spesso le guerre che lambiscono i confini della Fortezza Europa, e di cui siamo in gran parte responsabili, arrivano a turbare i nostri sogni e magari la conoscenza di ciò che accade e ciò che si muove intorno a noi potrà aiutarci a prendere una posizione all'altezza della complessità di ciò che viviamo.
Panturchismo e ideologia turanista
I Lupi Grigi hanno la loro ragion d'essere ideologica nel “panturchismo” cioè l'unione in un unico stato nazione di tutte le popolazioni di etnia turca. Un'ideologia fondamentalmente razzista che voleva rispondere al disfacimento dell'impero ottomano dopo la prima guerra mondiale. Simbolo del movimento è il lupo grigio, ispirato da un mito: secondo la leggenda, un lupo in epoca pre islamica salvò le tribù turche in pericolo dalle montagne dell' Asia centrale. Il lupo grigio è visto come un cacciatore potente che si aggira liberamente e in modo indipendente in tutto il paese. L'immagine del cacciatore legittima la persecuzione di tutte le popolazioni non-turche, in particolare le minoranze che insistono nello stesso “habitat” del lupo. Il fondatore e leader del movimento a cui si rivolgeva come a un vero e proprio branco, Alparslan Turkes, era noto anche con il nome di battagli di "Upper Wolf".
Il panturchismo è anche chiamato ideologia turanista e accomuna i neonazisti ungheresi di Jobbik per esempio ai Lupi Grigi (Turan è infatti l'antico nome persiano per l'Asia Centrale); questa ideologia situa l'origine dei magiari e dei turchi a est, contrapponendoli cioè agli slavi. Nonostante all'epoca in cui il turanesimo andasse di moda fra la classe dirigente ottomana fosse per esempio sconosciuta la radice linguistica ungro-finnica, che avrebbe smontato facilmente questa teoria pseudoscientifica, l'ideologia è stata mantenuta viva dai Lupi Grigi anche nel dopo guerra e oggi è stata fatta propria anche dalla Guardia Nazionale Ungherese (un corpo paramilitare che fa capo a Jobbik).
Jobbik e i Lupi Grigi oltre a rivendicare la superiorità di una razza e la legittimità dello sterminio di tutti i popoli che insistono sulla loro presunta patria hanno nell'omicidio e nella violenza la principale pratica comune. Ma oltre a questo ponte ideologico con una formazione neonazista “legale” in Unione Europea, i Lupi Grigi hanno una storia oscura e tentacolare che è bene sia conosciuta per avere chiara una mappatura del network della destra europea e non solo su cui spesso si poggiano.
I Lupi Grigi e l'MHP, una biografia
Per comprendere a meglio la realtà dei Lupi Grigi è bene iniziare dalla lettura della biografia del loro fondatore: il “lupo supremo” Alparslan Turkes. Nato nel 1917 a Cipro, a 16 anni, nel 1933 si trasferisce in Turchia. Qui intraprese la carriera militare in modo brillante, diventando presto un ufficiale. Il giovane ufficiale si manifestò più volte entusiasta nei confronti del nazionalsocialismo tedesco. Durante la seconda guerra mondiale, le sue simpatie per l'ideologia nazista gli causarono il carcere militare in diverse occasioni, anche se dalla prestigiosa posizione di colonnello di Stato Maggiore.
Nel dopoguerra, nel 1964, Alparslan Turkes coronò anche la propria carriera politica, diventando segretario del marginale "Partito Nazionale Repubblicano dei Contadini" (CKMP). Il 2 agosto 1969, assunse anche la presidenza dello stesso partito a cui dette un nuovo statuto e un nuovo nome. Nacque così il "Partito Movimento Nazionale", l'MHP. La bandiera della nuova formazione politica divenne la bandiera di guerra ottomana con le tre mezzelune. I militanti del partito si definiscono Ülkücüs, letteralmente “idealisti”, ma ufficiosamente iniziarono a chiamarsi Lupi Grigi.
Da subito il partito investì gran parte dei propri fondi in strutture giovanili e nella formazione di gruppi paramilitari. Già nel 1969, in Turchia avevano 34 campi di comando in cui venivano addestrati 100.000 giovani Lupi Grigi. Dalla fine degli anni '60 questi paramilitari, costruiti volutamente sul modello delle SA e delle SS, combatterono in Turchia battaglie selvagge contro gli avversari politici.
Nella fase tra il 1975 e il colpo di stato militare del 1980, si registrarono circa 5000 morti in conflitti armati. La maggior parte di queste morti erano socialdemocratici, socialisti, sindacalisti o membri di minoranze etnico religiose come i curdi e gli aleviti. In seguito al colpo di stato militare del 1980, le organizzazioni giovanili paramilitari furono dissolte e nel 1981, 587 funzionari dell' MHP processati dai tribunali militari con l'accusa di eversione e “minaccia alla democrazia”. Nell'atto d'accusa si leggeva letteralmente: “istigazione alla guerra civile” (e su questo bisogna tenere ben presente quello che oggi sta succedendo in Turchia per intuire come Erdogan stia usando i Lupi Grigi nel paese).
In seguito a questa ondata repressiva in patria gli Ülkücüs ripararono in Germania Ovest, meta di un'emigrazione di massa dalla Turchia già dai primi anni '50. Nel 1978, venne fondata (come “associazione senza fini di lucro e di promozione sociale”) l'ADÜTDF, un vero e proprio dipartimento estero dell' MHP, con sede a Francoforte sul Meno, con il supporto strategico della politica tedesca; un ruolo centrale nel supporto alla nascita della cellula “tedesca” dei Lupi Grigi fu infatti rivestito allora dal primo ministro bavarese Franz Josef Strauss (CSU) e da quadri locali della CDU.
Nel giro di due anni la rete dell'MHP si era completamente ricostruita nella Repubblica Federale Tedesca. E da subito iniziarono a verificarsi episodi di violenza.
A Berlino-Kreuzberg, storico quartiere a forte presenza turca, nel 1980 gli ultranazionalisti assaltarono, armati di coltelli, un gruppo di comunisti mentre distribuiva volantini. Rimase sull'asfalto il 36enne, insegnante e sindacalista, Celalettin Kesim, dissanguato. Ancora oggi a Kottbusser Tor a Kreuzberg una lapide ricorda il 5 gennaio 1980, l'inizio della violenza dei Lupi Grigi a Berlino. Dopo una sequenza di episodi di violenza politica, il presidente dell' ADÜTDF Musa Serdar Celebi venne arrestato. Aveva fornito all'assassino di Papa Giovanni Paolo II, Ali Agca, denaro e supporto logistico per il suo viaggio a Roma.
In Turchia, l'MHP rimase in clandestinità dal 1981 al 1987. Ma se in patria l'organizzazione si era indebolita, in Germania furono fondate altre due organizzazioni a lei legate: la ATIB a Colonia e la ATB a Francoforte sul Meno. Le tre organizzazioni ombrello dell'MHP contano oggi a livello nazionale in Germania circa 303 club con almeno 18.500 membri, diversi istituti scolastici, moschee, associazioni di volontariato, sportelli legali e gestiscono fondi di investimento e immobiliari.
In Germania negli anni 80 il movimento aggregava giovani immigrati di seconda generazione per lo più marginalizzati nei quartieri turchi dei “Gaestarbeiter”. Nelle moschee e nei luoghi di ritrovo giovanili, l'MHP ridava a una generazione marginalizzata dal capitalismo tedesco una nuova identità, una forma di orgoglio e una missione esistenziale. Nel misto ideologico di panturchismo, radicalità islamista e razzismo, i giovani figli dei “Gaestarbeiter” di prima generazione trovavano la forza di ricostruire una comunità, di difendersi in un territorio percepito come alieno e ostile.
Questo mix terribile ed ambiguo di idee era raccolto in un testo dal titolo "Dottrina delle nuove luci". Un vero e proprio best seller negli anni '80 in Germania. L'addestramento fatto dagli esuli turchi dell'MHP ai giovani si muoveva su un doppio piano: da un lato di tipo ideologico e organizzativo, dall'altro religioso. L'Islam era poco diffuso tra i migranti turchi di prima generazione, ma svolse un ruolo di collante fondamentale e di legame con la “patria” per la seconda generazione turca, che patria non conosceva. Ovviamente l'MHP in Germania iniziò a selezionare i suoi nuovi quadri in questa generazione. L'organizzazione riguardava anche giovani di età inferiore ai 18 anni per cui l'MHP aveva una struttura ad hoc in tutto e per tutto simile alle strutture paramilitari dei Balilla italiani e della Hitleriana Jugend tedesca. Già da giovanissimi si veniva inquadrati in una struttura paramilitare e si svolgeva un ruolo nel controllo dei territori.
Le organizzazioni drenavano fondi da traffici illegali come lo sfruttamento della prostituzione, il racket per la “protezione territoriale” dei commercianti turchi dagli odiati militanti curdi (insediatisi anche loro parallelamente in Germania sempre in fuga dalle repressioni dello Stato turco) e dalla vendita di armi. Le associazioni ombrello dell' MHP, invece, si occupavano formalmente di questioni legali e fornivano supporto per dipanare questioni burocratiche con lo Stato tedesco ai migranti.
I Lupi Grigi venivano addestrati al combattimento: taekwondo, boxe e kickboxing. Era un addestramento funzionale ai conflitti di strada anche e soprattutto con i militanti del PKK. Negli anni '80 gli scontri nelle strade tedesche tra curdi e turchi divennero quasi quotidiani, ma la governance della Germania Federale non se ne preoccupava fino a quando avvenivano in quartieri marginali a fortissima presenza migrante. Quando la politica tedesca non poteva ignorare la violenza nelle strade, l'MHP schierava le sue associazioni ombrello “caritatevoli” ad affermare la non esistenza di un'associazione registrata chiamata Lupi Grigi. Questo riduceva gli episodi a violenza privata o di strada senza moventi politici o connessione evidenti.
Ancora oggi l'ufficio per la Protezione della Costituzione nella Repubblica Federale ha posto sotto osservazione l'MHP, ma non svolge indagini su un'organizzazione paramilitare come i Lupi Grigi. Questo anche grazie a una complicità sempre più manifesta da parte dei conservatori tedeschi. L'ultimo passaggio politico in Germania del leader Alparslan Turkes, un anno prima della sua morte nel 1996, fu l'invito ai sostenitori dell'MHP, in un congresso tenutosi a Essen, a legarsi in modo organico alla CDU: “la partitocrazia tedesca deve essere infiltrata”.
Molti quadri dell'MHP seguirono l'indicazione del fondatore sebbene l'ingresso organico nella scena politica tedesca implicava l'abbandono delle pratiche violente che avevano strutturalmente caratterizzato il gruppo. Questo ha prodotto moltissime fratture all'interno del movimento. Non solo i conservatori tedeschi furono infiltrati dagli ultranazionalisti turchi. Abbastanza clamoroso fu il caso di un politico dei Verdi di Amburgo, Nebahat Güclü, apertamente sostenuto dall'ADÜTDF. Lo scandalo portò alle dimissioni del politico, che dovette giustificarsi in un modo persino inquietante “come rappresentante della comunità turca di Amburgo non potevo non incontrare la più rappresentativa organizzazione turca”.
Il capolavoro in termini di legittimazione politica del gruppo dei Lupi Grigi avvenne paradossalmente a ridosso della condanna unanime in Europa dell'islamismo radicale seguito agli attentati alla redazione di Charlie Hebdo a Parigi nel gennaio 2015. Il Cancelliere Federale Angela Merkel per rispondere alla montante islamofobia della formazione di estrema destra dei Pegida decise di manifestare con la comunità musulmana di Berlino, indicando un “modello possibile di integrazione”. La manifestazione fu organizzata proprio dagli ultranazionalisti di una delle associazioni dell'MHP: l'ATIB.
Il corto circuito è stato segnalato anche recentemente dalla stampa tedesca, quando si è scoperto che mentre organizzavano manifestazioni contro l'islamismo radicale e il contemporaneo montante sentimento di islamofobia, 20 membri almeno dell'ATIB partivano per la jihad in Siria tra le file dell'Isis (ovviamente passando per la compiacente Turchia di Erdogan).
I Lupi Grigi in Turchia oggi, dalla clandestinità all'elevazione a potere dello Stato autoritario di Erdogan.
Nell'analisi dei rapporti tra i Lupi Grigi, e quindi l'MHP, e lo Stato turco il primo elemento da tenere presente è che nella storia recente della Turchia l'MHP è stata una costante, una sensibilità politica sempre presente. Una formazione sopravvissuta anche alla clandestinità e alla repressione degli anni '80. Sarebbe difficile leggere la storia dell'MHP in patria e dei Lupi Grigi oggi, senza gli eventi che hanno segnato la politica turca e l'ascesa del partito islamista di Erdogan nell'ultimo decennio. In questa storia i Lupi Grigi hanno assolto a compiti specifici nell'apparato statale, sostituendo il sospettoso esercito turco (laico per costituzione) al servizio dell'islamismo moderato dell'AKP al governo.
Per esempio i Lupi Grigi hanno il controllo di una porzione ampia del sistema di istruzione del paese. Questo oggi viene messo completamente al servizio dell'ideologia turanista, dalla scuola primaria fino all'università. Ovviamente la costante dell'insegnamento è l'epopea presunta del popolo turco ed in particolare la grandezza dell'impero Ottomano. Solo recentissimamente è stato per esempio accennato, nei libri di testo adottati nel sistema educativo turanista, il genocidio degli armeni; prima totalmente negato come “retorica revisionista e occidentale”.
Un altro elemento interessante che può spiegare lo stretto legame tra l'odierno Stato turco e l MHP è l'uso fatto negli ultimi anni, da Erdogan stesso, di molti slogan e molte parole d'ordine dei Lupi Grigi. Nell'ultima campagna elettorale il partito del presidente ha infatti usato un motto di battaglia storico dei Lupi Grigi: “un unico mondo turco dall' Adriatico alla muraglia cinese” o ancora “restare uniti per diventare un unico popolo” o “i curdi discendono dagli armeni” (funzionale a giustificarne il massacro).
Un terzo elemento, ben più inquietante, ma molto presente è la predisposizione di un vero e proprio esercito paramilitare e d'élite, ricostruito dopo la messa fuori legge degli anni '80 grazie all'indebolimento praticato da Erdogan dell'esercito turco regolare. I membri di questo esercito, ma anche gli iscritti e i quadri dell'MHP, negli ultimi vent'anni sono stati sistematicamente dislocati nelle aree curde del paese con ruoli anche molto importanti nell'amministrazione pubblica. Non a caso diversi governatori delle province a maggioranza curda vengono proprio dalle fila dell'MHP e dei Lupi Grigi i quali nel loro stesso statuto costitutivo rivendicano la missione “di espellere dal suolo turco gli elementi di impurità: armeni, aleviti e curdi” appunto. L' “esercito d'élite” dell'MHP è soggetto ormai (dopo aver attaccato come vere e proprie squadracce fasciste il movimento di Gezi Park) allo staff generale delle forze armate turche. Questo “esercito speciale” riceve un addestramento particolare da parte dei membri dell'esercito turco funzionale a compiti di contro guerriglia.
Questo gruppo militare, infatti, è usato come prima linea in una guerra sporca contro le lotte di liberazione nazionale dei curdi e di altre organizzazioni rivoluzionarie. Nelle aree abitate dai curdi, le squadre di tale esercito d'élite appiccano il fuoco nei villaggi, opprimono la popolazione in ogni modo e uccidono gli abitanti. Ancora una volta come dopo la strage di Suruc l'ingresso nelle forze armate di questa formazione paramilitare, connessa ai Lupi Grigi, è stata giustificata dal governo con una non meglio precisata “lotta al terrorismo”.
La creazione di questo esercito e la sua assunzione nei ranghi delle forze armate è stata a lungo richiesta dal capo dell'MHP. Si potrebbe quindi supporre come la creazione e la legittimazione di tale gruppo sia stata inserita all'interno dell'agenda politica dell'MHP come moneta di scambio con il partito del presidente Erdogan, raramente attaccato “da destra” e anzi supportato nel suo progetto di riforma in senso autoritario dello Stato che consegnerebbe al Presidente gli stessi poteri che furono dei sultani ottomani.
L'MHP e i Lupi Grigi in Turchia offrono oggi l'opportunità, all'interno dei confini legali e guidati dallo Stato, di attaccare i curdi e il loro movimento democratico e qualunque minoranza etnica o gruppo politico rivoluzionario senza che questo sia direttamente connesso agli occhi degli alleati occidentali con il governo di Ankara. Possiamo affermare, quindi, che dagli anni '80 a oggi il Partito Movimento Nazionale e i Lupi Grigi sono riusciti non solo a rientrare a pieno titolo nella sfera politica e costituzionale turca, ma anche ad accreditarsi come vero e proprio organo dello Stato.
Nella guerra civile lanciata da Erdogan per punire il partito curdo e di sinistra dell'HDP di non aver permesso la maggioranza assoluta dei seggi necessari per cambiare la costituzione, l'MHP fa il lavoro sporco: assalta le sedi dei partiti, assalta le sedi dei giornali, distrugge i villaggi curdi, minaccia violenze contro chiunque si opponga al progetto autoritario dell'AKP.
Questo non solo per risparmiare ad Ankara un'evidente connessione con le violenze del paese ma anche perché sul piano squisitamente militare l'esercito regolare turco non è in grado di sconfiggere il movimento militare di liberazione curdo. L'esercito non nasce infatti predisposto per affrontare guerriglie e a una larga parte dei militari viene imposta questa guerra contro i curdi dai due partiti islamisti (in Turchia, è importante ricordarlo, l'esercito è l'erede della rivoluzione “laica” di Ataturk e come tale è il custode della laicità dello Stato). Alle ultime elezioni l'AKP di Erdogan e l'MHP sono riusciti a raggiungere insieme quasi il 60 % dei voti, questo ben dimostra come la sensibilità Kemalista e laica dell'esercito è oggi minoranza nel paese rispetto alle posizioni islamiste e razziste. L'esercito d'élite dei Lupi Grigi ha la motivazione perfetta, la carica ideologica e l'esperienza in termini di violenza e terrore adatti per attuare il piano di destabilizzazione interno di Erdogan.
Conclusioni
Nell'articolo sono stati volutamente omessi dei dettagli importanti nella vicenda storica dei Lupi Grigi; in particolare rispetto alla rete di relazioni che hanno sviluppato durante la Guerra Fredda e che ha permesso loro di accrescere potere e avere agibilità politica in Occidente e nei paesi della NATO (in particolare non si è fatto riferimento all'internità dell'MHP al progetto GLADIO o ai legami con i Fratelli Musulmani). Non ci si è soffermati sull'elenco lunghissimo di singoli episodi di violenza e massacri (per dare l'idea dell'efferatezza dell'organizzazione basta citare il pogrom di Maras nel 1978 in cui furono uccisi mille curdi tra anziani, donne e bambini in soli due giorni, in un'operazione di pulizia etnica coperta dall'esercito turco). Non ci si è dilungati sul ruolo, rilevante, svolto nelle tensioni con la Grecia per la vicenda cipriota.
Non lo si è fatto perché, rispetto al presente, l'MHP e i Lupi Grigi ci sembrano un fenomeno rilevante (e sottovalutato) soprattutto se letti in una prospettiva che va dai palazzi del governo di Ankara alle montagne del Kurdistan turco alle strade di Berlino, Amburgo, Manheim. L’intento è di evidenziare come possano giocare un doppio ruolo: da una parte, destabilizzazione nel cuore dell'Unione Europea, ma anche stabilizzazione politica in chiave autoritaria in Turchia.
Un'organizzazione, quindi, che per un verso ha accresciuto la sua forza in Europa facendo leva sulle macerie sociali nelle periferie di un'integrazione mai realmente avvenuta, nemmeno nella civilissima Germania. E per un altro, parte di un'organizzazione talmente tanto organica al progetto autoritario dello storico partner dell'Occidente, Tayiip Erdogan, da essere inglobata di fatto come potere dello Stato turco.
Si tratta quindi di un'arma nelle mani del delirio di onnipotenza dell'islamismo nazionalista dell'AKP, che può essere esportare nel cuore dell'Europa, “a comando” , la guerra civile turca e allo stesso tempo fare il lavoro sporco per soffocare la democrazia in patria.
Un ulteriore elemento che ci sembra interessante sottolineare è come la Turchia oggi sia un hub fondamentale di contenimento dei flussi migratori provenienti dalla Siria e diretti proprio in Germania. L'unico attore politico che è contemporaneamente nei due punti, di partenza e d'arrivo dei migranti, è proprio una forza razzista e fascista come l'MHP. Ciò fornisce a quest'organizzazione, ormai braccio militare e avanguardia dell'AKP, un potere contrattuale fortissimo. Un potere contrattuale che viene tatticamente e scientificamente fatto intravedere quando, non casualmente, nelle metropoli tedesche si verificano contemporaneamente attacchi di gruppi xenofobi autoctoni ai rifugiati e attacchi dei Lupi Grigi alla sinistra turca e ai curdi. Un potere che in questo momento è la giustificazione cinica e impronunciabile per cui l'UE assiste in silenzio al massacro dei curdi e al tentativo di distruzione delle idee di democrazia di Gezi Park.
Ritornando quindi all'inizio di questo lungo articolo e all'operazione mistificatoria di Repubblica, la domanda potrebbe essere se, per cinico calcolo e realpolitik, in questa ennesima falsa narrazione del Medioriente, in questo ennesimo trasformare le vittime in carnefici e viceversa, non ci sia un ulteriore, e forse irrimediabile colpo all'idea di Europa della democrazia, della libertà e dell'integrazione come ormai sempre più stancamente ci ostiniamo a definirla.
Dinamo Press
21 09 2015
Un reportage collettivo dalla frontiera di Ventimiglia. Dal 15 giugno sul lungomare alla frontiera tra la Francia e l'Italia, tra le città di Ventimiglia e Menton, si è stabilito il presidio #noborders, nato e mantenuto in una dimensione totalmente indipendente ed autorganizzata.
Il presidio, ad oggi, ha assunto proporzioni impressionanti: una cucina attrezzata per più di 200 pasti, bagni, docce e collegamenti elettrici, un ufficio e zona stampa. Assemblee quotidiane in arabo e in inglese sono la norma a Ventimiglia. Si discute della vita in comune nello spazio così come delle azioni dimostrative da mettere in pratica al confine, distante solo pochi metri ma orizzonte lontano per molti migranti. Cosi', bloccare il traffico al grido di "Open the borders" o decidere di attraversare la frontiera via mare, come hanno fatto sabato 12 settembre circa 35 persone, tra migranti ed attivisti, diventano parte della quotidianita'.
Il presidio di Ventimiglia è uno di quei luoghi in cui le contraddizioni non fanno più paura e la solidarietà e la vita in comune spazzano via ogni traccia di deriva umanitarista. Si vive insieme e si lotta insieme, e spesso si subisce insieme la violenza da stato d'eccezione che ha fatto della frontiera una zona di battaglia. Le scene a cui si può assistere in questi luoghi vanno al di là di ogni immaginazione e costituiscono un laboratorio di gestione violenta dei flussi, una ridefinizione continua dell'azione poliziesca in senso repressivo.
Nella minuscola stazione di Menton Garavan, la prima dopo la frontiera, non c'è mai nessuno, solo un massiccio presidio di gendarmi pronti a salire sui treni per far scendere i migranti ed arrestarli, con controlli veloci basati esclusivamente sul colore della pelle. L'agitazione è perenne come se da un momento all'altro dovesse accadere qualcosa. Sempre. Sono pronti, i poliziotti, a catturare ogni vita in fuga per sbatterla su una camionetta e rispedirla da dov'è venuta. Anche da parte italiana la repressione non si è fatta attendere: ad oggi 18 denunce, 8 fogli di via e due arresti nei confronti degli attivisti del presidio.
Non manca, ad aumentare lo stato d'incertezza, la confusione fra le diverse forze dell'ordine ai due lati della frontiera: sebbene i migranti dell'Africa subsahariana rischino il rimpatrio forzato nel caso in cui vengano scoperti in territorio francese, la maggior parte delle volte vengono invece trattenuti e ammassati in container per ore, prima di essere rimandati in Italia. Al presidio è possibile incontrare persone che già più di una volta hanno tentato il passaggio e subito la cattura e il respingimento in Italia.
La maggior parte dei migranti che si trovano al presidio noborder vengono da Sudan ed Eritrea (vedi mappa). Fuggono dai conflitti nel Darfur (regione occidentale del Sudan) e nel Sud Sudan, nonché dal regime eritreo, dai rischi della mai conclusa guerra in Somalia e dalle minacce della desertificazione.
Non c'è davvero da stupirsi se queste spinte economiche, politiche e ambientali abbiano portato i flussi a fare pressione su Ventimiglia, e se solo di recente iniziamo a parlarne e a notare la loro potenza è perché dal 2011 ha smesso di funzionare il sistema di controlli, detenzioni e respingimenti che Italia e UE avevano finanziato ed esternalizzato in territorio libico.
Già all'interno della regione si trovano centinaia di migliaia di profughi e migranti, ma non accenna a diminuire il numero di quelli che trovano la forza di spostarsi verso altri paesi, attraversando il deserto e il mare, in direzione dell'Italia, della Francia, e magari oltre. Ventimiglia è, allo stesso tempo, un punto fermo e un luogo di passaggio per la maggior parte di chi ci vive. La frontiera tra l'Italia e la Francia è soltanto uno dei luoghi da attraversare, il primo confine dentro la fortezza Europa. La giungla di Calais è per tanti la meta successiva.
Eppure tra i tanti incontri e le tante soste in questi viaggi interminabili, ci sembra che a Ventimiglia qualcosa si rompa nel terribile ingranaggio delle migrazioni. La resistenza, la speranza, la semplice quotidianità paiono spezzare la solitudine del viaggio e l'individualità della ricerca di un futuro. Certo, i percorsi saranno ancora lunghi e diversi. Certo, non tutt* attraverseranno l'odiosa frontiera insieme, e ancora, le diversità sono tante e palpabili. Ma allo stesso tempo, paradossalmente, il solo trovarsi di fronte a quel confine significa essere vite e corpi resistenti: non ci chiamerete rifugiat*, né migrant* economici, né in nessun altro modo! Già cadono frontiere a Ventimiglia, e sono quelle di categorie artificiali o strumentali malamente calate sui migranti: abbatterle significa incunearsi nell'incapacità e nelle divisioni di un'unione europea balbettante, trincerata dentro una fortezza che ai confini sfoggia la sua assurda violenza. Significa mettere le vite dei migranti avanti a tutto, anche agli interessi di quei paesi, Germania in testa, che dietro il paravento umanitario organizzano la selezione all'ingresso della forza lavoro.
Dentro il campo abbiamo incontrato un meccanismo orizzontale, che inventa continuamente le sue forme di organizzazione e supera le barriere create da lingue e storie differenti. Ma la vita del campo non resta dentro al campo, esce e grida per essere riconosciuta.
Azioni collettive di blocco alla frontiera sono la quotidianità, insieme ad azioni di visibilità come quelle già accennate. Ciò che impressiona è come questa sia una prospettiva cercata e messa in primo piano dagli stessi migranti. Sabato, sono stati per primi i migranti a voler varcare a nuoto, simbolicamente, il confine.
Simbolicamente, certo, ma a pensarci bene, la ricerca dell'azione, della visibilità (anche mediatica), della rappresentazione, sono figlie della vita di fronte a una barriera che in confronto al No Borders Camp altro non è che un feticcio, e come tali aprono un campo di ipotesi politiche altamente riproducibili. Quanto successo ieri tra Serbia e Ungheria si pone sulla stessa linea: più di un migliaio di migranti ha abbattuto alcuni tratti della rete costruita dal governo Orban. L'attraversamento delle frontiere diventa così un'opzione reale, un fenomeno che nei prossimi mesi sarà probabilmente inarginabile.
La dimensione del confine, luogo di passaggio ma anche luogo di soggiorno e di intersezione, pone la questione di "fare rete" dentro le migrazioni. Che si tratti di poter comunicare con altri migranti a Parigi o Calais o in altri angoli d'Europa, che si tratti di una dare supporto legale e logistico diffusamente su tutto il continente, o che si tratti di rivendicare collettivamente e in luoghi diversi il diritto a spostarsi, crediamo che emerga come priorità assoluta quella di identificare parole d'ordine e pratiche comuni che raccontino i percorsi di libertà dentro le linee migratorie, contro i muri della fortezza Europa. La disobbedienza alla frontiera sta divenendo il tratto comune, il collante concreto, di questi movimenti. È attraverso queste pratiche che si definisce la possibilità di fare rete, non tanto attorno a dei nodi geografici, quanto attorno a dei flussi che determinano un campo di resistenza in ogni luogo in cui si condensano.
Oggi i confini dell'Ungheria sono in fiamme, alle porte dell'Europa si alzano barriere di filo spinato. Il confine torna luogo militare, barriera fisica, disperato tentativo di trincerarsi in una identità aggrappata a radici inesistenti. Ma mille altre frontiere si alzano ogni giorno: quelle culturali di chi vorrebbe nazioni frammentate nell'identitarismo, quelle di chi racconta le migrazioni come fenomeni da selezionare, piuttosto che coglierne la dimensione epocale e collettiva, quelle tra virtuosi e fannulloni, tra un Nord Europa austero e laborioso e un Sud insolvente e parassita. Umiliare la Grecia mentre si selezionano i migranti da ammettere sono facce della stessa medaglia: il ricatto del debito e quello del passaporto sono figli dello stesso "there is no alternative".
“Ventimiglia ovunque” non è per noi soltanto uno slogan ma una possibilità reale, un’opzione da praticare, per abbattere e cancellare tutte le frontiere, un nome comune a differenti desideri di libertà.
di Exploit
Dinamo Press
18 09 2015
Zuckerberg vuole davvero inserire il tasto col pollice verso sulle nostre bacheche? Probabilmente no, ecco perché.
Con ogni probabilità, se state leggendo questo testo è perché qualcuno – un compagno delle scuole medie su Facebook, un influencer su Twitter – lo ha diffuso nei social network. Avrete così modo di assegnare un bel mi piace nel caso sia comparso sulla vostra timeline o di cliccare sulla stellina nel caso sia stato propagato tramite cinguettio.
Se, al contrario, disapprovate questo scritto, perché non siete d'accordo o perché riferisce cose che vi preoccupano, non vi sarà sufficiente un semplice clic. Avrete un solo modo di esprimere il vostro disappunto oppure il vostro sgomento: dovrete commentare, scrivere qualche parola, lasciare il mouse e utilizzare la tastiera per mandare l'autore a quel paese, manifestare sdegno o spiegare garbatamente dissenso.
Qualche giorno fa, nel corso di una session di Question&Answer al quartier generale di Menlo Park, il grande capo di Facebook Mark Zuckerberg, ha annunciato quella che è parsa una piccola rivoluzione. “La gente ha chiesto il pulsante non mi piace per molti anni e oggi è un giorno speciale perché è il giorno in cui dico che ci stiamo lavorando e siamo molto vicini al lancio del test”. Ha proseguito sostenendo che il tasto dislike “potrebbe permettere agli utenti di esprimere le emozioni in modo più realistico, piuttosto che avere una sola scelta“.
Ad una prima lettura pare lineare. Facebook ha lo scopo di spingere un miliardo e mezzo di utenti a condividere in tempo reale le proprie vite per metterle a valore. È grazie a questo coinvolgimento diretto che raccoglie l’8 per cento della pubblicità on line, tallonando Google con 17 miliardi di dollari di fatturato. Lavora più sulle emozioni che sugli elementi razionali e accontenta una richiesta. Col tasto non mi piace produce un'offerta che possa incrociare la domanda sul mercato delle passioni, delle condivisioni della cooperazione. La notizia si è diffusa come accade quando arriva un annuncio atteso, è stata accolta con sollievo, quasi come una vittoria democratica. I giornali rilanciano la cosa e sulle bacheche fioccano i like. Finalmente il tasto non mi piace, è quello che chiediamo da anni!
L'innovazione è apparsa meno netta già all'ascolto della dichiarazione integrale del Ceo di Facebook, Zuckerberg spiegato che non si limiterà a introdurre un bottone di dissenso e che la vicenda è più articolata. La questione del piacere o non piacere, insomma, non è liscia come sembra. E ci sono diversi motivi per ritenere che l'Operazione Dislike non convince appieno il management del Libro delle facce. In primo luogo, c'è il fatto che dopo anni di diffusione esponenziale, Zuckerberg e soci sanno benissimo che la giostra delle bacheche funziona molto grazie alla polarizzazione dei contenuti.
Torniamo alla questione dalla quale siamo partiti: se scrivo qualcosa che ti trova d'accordo o se posto un'immagine che incontra il tuo gradimento, ti limiterai a mettere mi piace. Tuttavia, la spinta condividere e produrre contenuti (che è ciò che interessa all'Uomo in Ciabatta) viene più facilmente dal disaccordo che dall'empatia. Per questo motivo è esistito soltanto il tasto mi piace. Perché, al di là della semplice (e fugace) dimostrazione di consenso, si scrive, si producono altri post, ci si dilunga, allo scopo di manifestare dissenso, marcare differenze, polemizzare, costruire affinità. Se esistesse il tasto non mi piace, in altre parole, si rischierebbe di arginare un dispositivo essenziale, uno spazio maggioritario e decisivo ai fini del coinvolgimento: quello del flame, della diatriba, del contraddittorio che a sua volta ne produce altri, costringe a schierarsi e a cercare consenso, a scrivere altri post o più facilmente a mettersi al traino di utenti forti che fungono alla bisogna e che attirino, questa volta sì, dei like funzionali a pareggiare i dislike manifestati per iscritto, o con immagini e video. È una dinamica non unidirezionale e neanche per forza futile: per l'eterogenesi dei fini e per via del fatto che non esistono poteri perfetti e controlli assoluti, ha prodotto anche moti di indignazione.
La faccenda pare relegata ad aspetti di costume 2.0 ma è di fondamentale importanza, visto che è su piattaforme come Facebook che ormai molti selezionano le notizie, si fanno un'idea del mondo. Come sarai oggi? Spaventato oppure ottimista? Ci sarà un'invasione di migranti oppure avrai modo di salvare il mondo cliccando sul sito che difende i coniglietti abbandonati? Il modo in cui dall'algoritmo EdgeRank in poi Facebook seleziona i contenuti che appaiono sulla linea del tempo di un utente influenza direttamente il suo umore.
È la vita che scorre ogni giorno sulla nostra timeline a insegnarcelo.
Giuliano Santoro
Dinamo Press
16 09 2015
15 Settembre, report terzo giorno di carovana internazionale per l’apertura di un corridoio umanitario verso Kobane. Continuano ad arrivare partecipanti alla Carovana mentre prosegue l’offensiva turca nei confronti del Kurdistan. La sera del 14 settembre il pullmino della Carovana diretto ad Urfa è stato fermato e perquisito dalla polizia.
Segui #CarovanaKobane e @DinamoPress per la diretta della giornata di oggi a Cizre e Dyarbakir.
Leggi i report delle giornate precedenti: la prima giornata con l'arrivo al campo profughi di Suruc [English Version] e la seconda giornata in cui la carovana incontra l'HDP e i movimenti del cantone di Kobane a Suruc.
All’interno del pullman erano presenti anche i due parlamentari italiani che hanno tentato, senza esito, di opporsi alla perquisizione. Abbiamo notato che negli ultimi giorni il livello di attenzione attorno alla nostra presenza è aumentato notevolmente. Siamo costantemente seguiti e monitorati dai mezzi blindati della polizia e siamo costretti a pianificare gli spostamenti con cura.
NEVER ALONE
Un intenso incontro con le donne ci riporta nel campo dedicato ad Arin Mirxan che avevamo visitato il primo giorno di Carovana (link), ad accoglierci ritroviamo anche la deputata HPD Leila… che si stringe con tutte noi intorno allo striscione che abbiamo portato “we can be free together, but we can’t be free alone – international feminist solidarity”. La rappresentante di KJA (Free Women Congress) ribadisce che il messaggio femminista per la libertà e l’emancipazione di genere deve viaggiare oltre i confini, gli stessi che il confederalismo democratico vuole abbattere.
L’AGENDA POLITICA
Nella sede della BDP, declinazione regionale del HDP – dove si ritrovano abitualmente gli attivisti politici di Suruc – rivediamo tanti volti che ci hanno accompagnato in questi giorni. Le pareti sono piene di immagini di martiri curdi ed internazionali, attorno a noi le riunioni si susseguono mentre lo spazio è attraversato da un flusso continuo di attivisti, che si informano sull’evolversi della situazione a Cizre e Diyarbakir. Partecipiamo all’incontro con rappresentanti del BDP e del KJA.
L’Europa, vista da qui non è solo un approdo per i profughi in fuga ma è parte colpevole per l’assenza di politiche di accoglienza che facciano fronte al flusso migratorio. “Qui abbiamo accolto 250.000 profughi” dice il rappresentante BDP, “l’Europa non può pensare di aprire le sue porte solo a 10.000 persone”. Il Tema dei profughi e della loro accoglienza ritorna negli interventi che seguono, “ma è necessario fissare un’agenda politica condivisa più ampia – incalza Ajse Gokkan di KJA Diplomacy – che oltre a denunciare il business dell’accoglienza, includa la partecipazione delle donne, il riconoscimento politico dell’esperienza del Rojava in una Siria Democratica”.
Infine, oltre alll’apertura di corridoi umanitari a Kobane e la sua ricostruzione, ci ricordano gli altri accessi alla regione, come Nisebin, Qamislo, Alcakale, Gre Spi e la questione del popolo Ezida che sta subendo il 73° genocidio della sua storia.
ACCESSO NEGATO AL GATE DI MURSITPINAR – KOBANE
Nel pomeriggio, assieme ad una delegazione locale, ci dirigiamo verso la frontiera, sui furgoni medicinali e apparecchiature sanitarie destinate agli ospedali di Kobane, quaderni e pastelli colorati per le scuole della città. Per varie settimane la municipalità di Suruc ha richiesto al governo centrale di aprire la frontiera per lasciar passare la carovana. I quattro pullman si dirigono verso il confine, sotto lo stretto controllo delle forze di polizia locale. A circa cinquecento metri dal gate incontriamo un posto di blocco: blindati e barricate mobili ci impediscono di proseguire.
Decidiamo di tentare una deviazione, ma tutti gli accessi al confine sono sorvegliati. “La Turchia ci ha negato il permesso di passare” ci dicono i compagni curdi. “Il governo minaccia di chiudere la frontiera e di impedire il passaggio ad ogni tipo di merce verso il Rojava.” Il posto di frontiera di Suruc è aperto solo tre giorni a settimana, una nostra forzatura potrebbe comportare un blocco a tempo indeterminato dei rifornimenti verso Kobane. Il ricatto del governo è palese e gioca sulla vita di decine di migliaia di persone lungo il confine. Ripieghiamo nel vicino villaggio di Mesher, un gruppo di case sotto il sole battente, luogo strategico della resistenza, dal punto di vista sia logistico che politico. Le staffette partite dall’Italia hanno fatto spesso base qui.
Veniamo accolti da una delegazione del villaggio e dai membri dell’associazione “Rojava”, per una conferenza stampa di denuncia di ciò che sta avvenendo. “Gli aiuti umanitari verranno consegnati all’associazione Rojava, che si occuperà di farli arrivare oltre il confine”. Il copresidente del BPD di Suruc ha ribadito l’importanza della nostra presenza.
“E’ oltre un mese che chiediamo l’autorizzazione per il vostro ingresso, anche solo in forma di delegazione, ma solo oggi le autorità turche hanno definitivamente intimato di non avvicinarci al confine”. Una presa di posizione chiara, che ha lo scopo di isolare Kobane tenendo lontana la solidarietà internazionale. E’ la prima volta che un’iniziativa di questo genere, lanciata pubblicamente dai movimenti, con attivisti da tutta Europa, mette al centro del dibattito la questione del corridoio umanitario, che sembra poter mettere in difficoltà il governo di Ankara rispetto ai suoi obblighi internazionali.
La Carovana Internazionale per l’apertura di un canale umanitario verso Kobane.
Dinamo Press
16 09 2015
Da sette venerdì consecutivi la popolazione irachena scende in strada, in massa. Per chiedere che le riforme entrino in vigore, invocando le dimissioni del Primo ministro. E per organizzarsi.
“Lo slogan più importante oggi era diretto al Primo ministro”, racconta Hisham da Baghdad, mandando messaggi vocali via Facebook ad Osservatorio Iraq.
“Deve lasciare, deve dimettersi”, è la sentenza della piazza,che al settimo venerdì consecutivo di protesta comincia ad alzare il livello delle richieste.
Rispetto ad una settimana fa, Haider al-Abadi gode di ancora meno credibilità rispetto alle riforme da lui stesso promosse e approvate l’11 agosto scorso in Parlamento, ma ancora non entrate in vigore. E se fino ad ora le dimostrazioni erano mosse più dalla spontaneità e dal passaparola (venerdì a Baghdad c’erano comunque circa 17mila persone, a piazza Tahrir), venerdì qualcosa è cambiato.
Attivisti, intellettuali, rappresentanti di organizzazioni della società civile, alcuni dei quali parteciparono alle dimostrazioni del febbraio 2011, hanno annunciato la formazione di una “Amministrazione delle manifestazioni”.
L’annuncio è stato pubblicato sulla piattaforma dell’Iraqi Civil Society Solidarity Initiative (ICSSI), sostenuta, tra le altre, anche dall’associazione italiana “Un ponte per...”. Lo riportiamo di seguito tradotto in italiano.
Sono ormai passate sei settimane da quando le manifestazioni pacifiche a Baghdad e nelle province irachene sono iniziate. Ma ancora manca una reale risposta dal governo alle legittime richieste dei manifestanti per riformare il sistema politico, per invocare la responsabilità dei funzionari corrotti e per pretendere i servizi necessari e di base per la popolazione.
Le dimostrazioni vivaci e pacifiche di piazza Tahrir hanno ispirato un numero crescente di persone a prendervi parte – attiva, in quanto attivisti nonviolenti. Questo fatto, a sua volta, ha evidenziato la necessità di una maggiore organizzazione.
In risposta a questa esigenza un certo numero di attivisti di lungo periodo, molti dei quali hanno diligentemente lavorato per un Iraq unico e democratico sin dalle manifestazioni del febbraio 2011, hanno cominciato ad assumersi questa responsabilità. Queste stesse persone hanno organizzato le proteste e hanno rappresentato i manifestanti, spesso parlando in loro nome.
Attivisti, intellettuali e rappresentanti di organizzazioni civili, si sono visti e hanno tenuto una riunione in cui hanno scelto di formare una "Amministrazione delle manifestazioni". L’obiettivo è quello di coordinare le richieste di negoziazione delle riforme con le autorità di Baghdad. I nomi dei suoi membri saranno annunciati più avanti.
Alla luce di tutto questo, è con grande soddisfazione che salutiamo la saggia autorità religiosa di Najaf (l’Ayatollah al-Sistani, ndt) per il sostegno che ha offerto alle nostre legittime richieste, che si manifesta nella sua decisione di dare priorità allo Stato civile rispetto ad altre lealtà e affiliazioni, e in questo, sostenendo la nazione nella sua lotta contro la corruzione.
Inoltre va notato che un mese fa, dopo l'inizio delle manifestazioni, le presidenze del Consiglio dei ministri e la Camera dei Rappresentanti hanno presentato due documenti di riforma che sono stati votati in Parlamento. Anche se questi documenti non corrispondevano chiaramente al livello delle rivendicazioni popolari sono stati comunque accolti positivamente dall'opinione pubblica, e sono stati considerati un possibile primo passo di un percorso di riforme radicali e globali.
Tuttavia, dato che il periodo di un mese che era stato assegnato per l'attuazione delle riforme è scaduto, abbiamo il sospetto che ci siano stati tentativi deliberati di ritardare il processo di attuazione che renderebbe le riforme reali. Gli sforzi per eludere l'applicazione di tali importanti misure sembrano essere stati fatti da forze politiche influenti in seno al Consiglio dei ministri e alla Camera dei Rappresentanti.
Pertanto, confermiamo qui il nostro impegno costante per garantire che queste importanti riforme diventino una realtà. Il nostro impegno è ora più forte di prima di fronte a coloro che cercano di contrastare la volontà del nostro popolo, e continueremo a protestare pacificamente, coerentemente con lo spirito della Costituzione irachena.
Mentre ribadiamola nostra determinazione a marciare sulla via di una riforma reale e di lungo termine, vogliamo sottolineare l'urgente necessità di partire dall'autorità giudiziaria, perché ogni processo di riforma che non inizia con la magistratura alla fine contribuirà alla corruzione e approfondirà le sue radici.
Diciamo tutto questo con passione e convinzione: siamo rafforzati dai numeri in crescita che sono dalla nostra parte, dalla nostra unità e dalla legittimità della nostra causa, e continueremo le manifestazioni pacifiche, invigorendo il nostro movimento, fino a quando i nostri diritti legali saanno rispettati e tutelati.
*La foto pubblicata mostra la conferenza stampa tenuta dagli attivisti venerdì a piazza Tahrir, Baghdad. Si ringrazia Hisham al-Mozany per la gentile concessione.
13 Settembre 2015
di: Stefano Nanni da Dohuk - Kurdistan iracheno
Tratto da osservatorioiraq
Dinamo Press
15 09 2015
Domenica 13 Settembre - Primo giorno di Carovana internazionale per l'apertura di un corridoio umanitario verso Kobane al confine turco-siriano. Centinaia di attivisti europei nel centro culturale Amara e nei campi profughi intorno a Suruç da oggi fino al 16 settembre [English version].
Guarda il VIDEO della prima giornata, leggi anche: Turchia una strategia sanguinaria e Turchia è terrorismo di Stato.
Come centri sociali e associazioni, uniti nella campagna Rojava Calling, insieme ad attivisti italiani ed internazionali, organizzazioni di base, rappresentanze di enti locali e parlamentari abbiamo partecipato al primo giorno di Carovana, per costuire una rete ampia e concreta di solidarietà con la Resistenza di Kobane. La città curda è ancora assediata da Daesh ed è costretta alla fame dalla chiusura del confine delle autorità turche, una morsa che tenta di piegare la Resistenza dei combattenti YPG e YPJ e l'esperienza del confederalismo democratico.
Tale esperienza non solo è stata attacata dall'Isis ma anche dal governo turco. Se da un lato del confine Daesh (Isis) prosegue l'aggressione contro i cantoni del Rojava, in Turchia il governo di Erdogan ha lanciato una nuova offensiva. Sono moltissimi gli attacchi contro la Resistenza curda da parte del governo turco; ad esempio, nella giornata di oggi è stata attaccata dalla polizia la manifestazione in solidarietà agli abitanti di Cizre, mentre continuano gli scontri a Dyarbakir. ネ di questa sera la notizia che dopo le grandi mobilitazioni di ieri e di oggi, nella città di Cizre è stato imposto un nuovo coprifuoco di quarantotto ore. La città era stata riaperta solo ieri dopo nove giorni di assedio da parte dell'esercito turco, che non ha permesso l'accesso neanche alla delegazione di deputati del HDP (Partito Democratico dei Popoli).
Secondo fonti curde le vittime dell'assedio sono 31, tra cui un neonato di 35 giorni, mentre un bambino ha perso la mano a causa di una mina. A Dyarbakir un ragazzino di 14 anni è stato prelevato in strada da una camionetta dell'esercito turco e oggi il suo corpo è stato ritrovato torturato e gettato nella spazzatura. Nonostante le atrocità perpetrate dal governo turco, Erdogan sarà accolto a Milano il 14 per l'inaugurazione della settimana turca ad Expo. Le realtà milanesi NO EXPO hanno lanciato una manifestazione alle 19:30 in Piazza San Babila.
CAMPI PROFUGHI
Dopo il saluto e l'accoglienza della municipalità di Suruç e dell'associazione delle donne KJA (Free Women Congress), si è svolta nel Centro Culturale Amara la commemorazione delle vittime del 20 luglio scorso, quando un attentato uccise 33 giovani socialisti turchi, impegnati nella ricostruzione di Kobane. Moltissimi profughi siriani, circa 400.000 si sono stabiliti nei campi profughi intorno a Sanliurfa e Suruç. Ne abbiamo visitati 3 che accolgono curdi siriani costretti alla fuga, autogestiti dai profughi, col supporto della municipalità di Suruç impegnata a fornire beni di prima necessità, cibo e infrastrutture. Nel campo dedicato alla martire delle YPJ – ARIN MIRXAN – restano solo 90 delle 470 tende presenti fino a pochi mesi fa. Tra i profughi molti hanno deciso di tornare a Kobane per partecipare alla ricostruzione della città, molti altri sono stati costretti a partire per l'Europa.
Nel secondo campo che abbiamo visitato, dedicato alle famiglie dei martiri, abbiamo incontrato decine di persone che aspettano la restituzione dei corpi dei propri parenti. Circa 600 nuclei familiari hanno usufruito di questa struttura; adesso ne restano circa 90, accolti in container.
Il terzo campo che abbiamo visitato, KULUNCE, fino a poche settimane fa ospitava circa ottomila persone. Ora ne restano alcune centinaia, mentre il campo sta venendo progressivamente smantellato. Ciò non ha impedito, dieci giorni fa, a 200 militari dell'esercito turco di fare irruzione, distruggendo la scuola di lingua curda e l'ambulatorio medico. Nell'operazione un volontario internazionale è stato arrestato con l'accusa di terrorismo e reimpatriato.
I PARTIGIANI DI KOBANE
Il nostro viaggio è poi proseguito a Misanter, piccolo villaggio a poche centinaia di metri da Kobane, luogo strategico nonchè punto di incontro e di supporto alla resistenza per il Rojava.
Lì è stato costruito un piccolo museo, dedicato alle guerrigliere ARIN MIRXAN e KADER ORTAKAYA. Al suo interno, oltre allo spazio dedicato ai martiri, è stata allestita una biblioteca che accoglie libri donati da attivisti e combattenti. Nei pressi di Suruç abbiamo visitato un cimitero dove riposano circa sessanta caduti nella Resistenza di Kobane. Assieme a loro sono sepolti anche due delle trentatre vittime dell'attentato del 20 luglio scorso al centro Amara.
Infine siamo stati accolti nel villaggio di Mesher, che lo scorso anno ha ospitato le staffette di Rojava Calling. Quel luogo che per primo ci ha fatto avvicinare alla lotta delle combattenti e dei combattenti che danno tutt'ora la loro vita per il confederalismo democratico. A Mesher abbiamo mangiato insieme alla municipalità di Suruç e abbiamo incontrato le rappresentanti di KJA, che ci hanno invitato ad un confronto sull'esperienza delle donne e sul cambiamento del loro ruolo nei villaggi e nelle città del Rojava.
"We can be free together but we can't be free alone".
#carovanakobane - Carovana Internazionale per l'apertura di un corridoio umanitaio verso Kobane.
Dinamo Press
14 09 2015
C'è un cartello appeso da poco alla biglietteria della stazione dei bus di Salonicco, dove per dieci euro ti compri la possibilità di provare a oltrepassare un'altra frontiera, un passo avanti in fuga dalla guerra. Pros Eidomeni, per Idomeni, località greca al confine con la Macedonia, nel bel mezzo del nulla [...] : filo spinato, polvere, sporco e tanta, troppa polizia, l'unica incaricata ufficialmente di organizzare gli attraversamenti e gestire la situazione come si trattasse di un qualsiasi problema di ordine pubblico.
Dunque, un'ora scarsa di autobus (a dieci euro) che neppure ti conduce al confine informale tramite cui il governo di Skopje ha deciso di far passare migliaia e migliaia di uomini, donne, bambini (Migranti, rifugiati o expat, cfr. l'interessante riflessione di Andrea Natella).
Oggi ci fermiamo circa 7 km prima di Idomeni, perché la polizia greca, che cambia idea ogni giorno e forse più volte al giorno, ferma gli autobus, consegna un numero a un “responsabile” scelto nel mucchio, in genere qualcuno che capisce l'inglese, e obbliga i gruppi così formati a aspettare anche per ore il proprio turno; finita l'attesa, il gruppo - nel frattempo disperso, riformato a suon di minacce, mescolato o abbandonato perché le conflittualità etniche e nazionali sono spesso motivo di attrito, soprattutto in condizioni di stanchezza e tensione - ottiene il permesso, bimbi in spalla e polvere negli occhi, di incamminarsi fino a Idomeni, sedersi e attendere, di nuovo. Qualcuno non ce la fa? Ci sono bambini con una gamba rotta o persone anziane?
Nessun problema, un folto plotone di tassisti, in rapporti di amicizia quanto meno ambigua con la polizia greca, è pronto a accompagnarti al confine per soli altri dieci euro, che poi che saranno mai, se ne hai pagati migliaia per attraversare il mare su un gommone? Idomeni, dunque. Tira vento, è quasi freddo, la polvere si alza minacciosa e l'orizzonte è zeppo dei resti dell'accampamento di ieri, quando le persone erano all'incirca diecimila, ci dicono. Oggi la situazione pare tranquilla, dopo i lacrimogeni lanciati nella notte tutti sono passati e qui, freschi e riposati, ci sono solo i “nuovi”.
Passati dove? È la prima domanda che sorge spontanea, folle come il tentativo di bloccare questa marea umana. Non c'è niente davanti a noi, se non filo spinato messo lì alla bell'è meglio, a indicare che da una parte il prato è greco e dall'altra macedone. Una frontiera non ufficiale, ci dicono, l'unica da cui possono passare, divisi in altri gruppi ancora, per poi ricominciare a camminare. L'inconsistenza materiale di un concetto e insieme la profonda fisicità dei corpi immobilizzati, dell'impossibilità di movimento, dello scontro con la polizia, un rischio sempre dietro l'angolo, per qualsiasi minimo segno di protesta. Ore infinite e sospese, con la netta sensazione dell'inutilità di tutto questo e con in testa una serie di domande a cui nessuno dà risposta.
«Non va bene qui, ci sono bambini piccoli, è sporco, non sappiamo dove sederci. Perché ci trattano così?», ti sputa in faccia un quindicenne siriano, che parla inglese perfettamente e ha lasciato, solo, la famiglia in Turchia con in testa il sogno della Germania. «Nessuno parla con noi, nessuno ci spiega niente, so solo che non abbiamo un piano B, e arriveremo dove dobbiamo, punto», ammette un padre di famiglia iracheno, che sa già a chi rivolgersi per trovare il modo di attraversare l'Ungheria con tre bambini in un camion, senza essere visto perché «abbiamo visto le immagini, a Budapest ti mettono in prigione, preferisco rischiare in un altro modo». Storie di contatti presi al telefono e di migliaia di euro immessi nel mercato del traffico umano, dubbi e piani confusi: «Com'è la Norvegia, credi che potrò continuare lì il mio dottorato?». Storie di fuga dall'IS e di case crollate, storia di tanta, tanta disperazione e altrettanta speranza, storie che un po' si assomigliano tutte, ma anche no, e quando te le trovi di fronte una in fila all'altra non puoi che augurare a tutti buona fortuna, con in testa però il capitolo di violenza che seguirà, altri confini, altra polizia, altro razzismo, altro sfruttamento.
Idomeni è un luogo di passaggio, dove gli sforzi eccezionali, a tratti insostenibili, ai limiti e oltre l'auto-sfruttamento, dei volontari, gruppi di solidarietà e singoli - compreso il sindaco - riescono a coprire solo minimamente i bisogni reali e dove l'assenza di un piano generale di gestione dell'emergenza stride con le dichiarazioni ufficiali, altisonanti e calcolate, degli ultimi giorni: piani di accoglienza, obbligo di ripartizione e via dicendo. Ottimo, se, almeno in parte, sono state le spontanee mobilitazioni delle popolazioni europee e l'ostinazione dei migranti a forzare queste decisioni.
Ma il terreno è scivoloso, e difficile realizzare fino in fondo come, dove, quando agire per intersecare le lotte di chi, fuggendo verso la libertà di un continente con le mani perennemente insanguinate, si scontra con i suoi muri, con l'ipocrisia delle sue leggi democratiche e delle sue gerarchie interne, con un'inclusione riservata solo a chi è - temporaneamente - utile in termini economici e di calcolo politico. Come incontrare queste popolazioni che si spostano senza sosta e si allontanano verso un orizzonte sempre nuovo, questi uomini e queste donne con cui condividiamo il sogno di un mondo dove muoversi sia sempre una decisione, e possa essere perseguita senza rischi e senza limitazioni?
Non è facile, ma forse ora è davvero il momento di cercare una risposta, pratica e condivisa, perché questa storia sia in parte, e nelle sue fasi più conflittuali, costruttive e di lotta, anche la nostra.
da seguire:
noborders20miglia.noblogs.org/ (verso la tre giorni del presidio NoBorders di Ventimiglia, 11-12-13 settembre)
Eidomeni Coordinating Refugees Help (FB)
Refugee Solidarity Movement Thessaloniki (FB)
Κοινωνικό Κέντρο / Στέκι Μεταναστών (FB)
foto e racconti da Kos e Idomeni (in aggiornamento): www.timon-photography.jimdo.com
Dinamo Press
14 09 2015
In questi giorni la situazione in Turchia sta degenerando. Erdogan ha lanciato un’offensiva a tutto campo contro le opposizioni interne e soprattutto contro l’unica forza politica in grado di mettere i bastoni tra le ruote al suo progetto autoritario: l’HDP e il popolo curdo. Ma come ne parla la stampa italiana?
Questo un veloce bollettino della guerra scatenata dal dittatore turco: 315 sedi dell'HDP date alle fiamme o distrutte negli ultimi giorni; molti deputati HDP arrestati (che si vanno ad aggiungere agli oltre 2.000 oppositori imprigionati nei mesi scorsi); 15 persone linciate l'altra notte; decine di curdi feriti dalla polizia o dagli ultra-nazionalisti; Cizre allo stremo: senza rifornimenti d’acqua e di cibo, senza elettricità da oltre una settimana, a causa del blocco imposto dall’esercito turco, che ieri non ha lasciato passare nemmeno un corteo di migliaia di persone che voleva rompere l’assedio e portare soccorso.
Ovviamente, in una situazione di guerra si spara da una parte e dall’altra. Così il PKK (il Partito dei Lavoratori Curdi), dopo la rottura della tregua unilaterale dalla parte turca, ha contraccato all’offensiva di Erdogan: azioni mirate e chirurgiche in cui sono morte alcune decine di poliziotti e militari. Questo mentre l’aviazione turca bombarda a tappeto da oltre due mesi i villaggi curdi in Syria e Iraq, causando centinaia di morti (militari, ma soprattutto civili).
Uno scenario drammatico, insomma. Una situazione sull’orlo della guerra civile, che potrebbe presto evolvere in episodi di pulizia etnica. Perché mentre da un lato l’HDP invita a non rispondere alle provocazioni limitandosi all’autodifesa, Erdogan sta fomentando i movimenti ultra-nazionalisti. Gli attacchi di questi giorni, infatti, sono coordinati dai militanti del suo partito, l’AKP.
Nonostante ciò, sulla stampa internazionale non si muove una foglia. Ogni tanto viene riportata qualche notizia, principalmente sugli attacchi del PKK. Ma dell’offensiva di Erdogan non si parla. Eppure la Turchia affaccia sul Mediterraneo, si trova a poche decine di km a est della penisola italiana. Eppure anche un minimo sentimento di solidarietà verso quello che sta succedendo ai colleghi giornalisti che si trovano in quel Paese dovrebbe spingere qualcuno a prendere parola. Nei mesi scorsi, diversi giornalisti turchi sono stati arrestati per aver pubblicato delle prove sugli scambi economici e militari tra Erdogan e l’ISIS. Pochi giorni fa, invece, la stessa sorte è toccata a due giornalisti inglesi di Vice e una giornalista olandese dei quotidiani Het Parool e De Groene Amsterdammer, arrestati a Diyarbakir: tutti accusati di “diffusione di propaganda per un’organizzazione terroristica”. Stavano filmando rispettivamente un corteo e una festa dell’HDP. Due giorni fa, infine, a Istanbul è stata attaccata e distrutta la sede del giornale Hurryiet, che aveva riportato questa dichiarazione di Erdogan: “se avessimo ottenuto la maggioranza in parlamento, niente di tutto ciò sarebbe successo. Datemi 400 seggi e vi darò la pace”.
Oggi finalmente anche Repubblica.it ha deciso di parlare di Turchia. Non certo a favore della libertà di stampa o dei diritti umani, però. Anzi. Repubblica.it ha scelto di pubblicare una gallery sotto il titolo surreale “Turchia: in migliaia scendono in piazza contro azioni ribelli curdi”. Repubblica - quello stesso quotidiano pronto a bollare ogni sasso che vola in un corteo come inaccettabile violenza, pronto a definire terrorismo il sabotaggio di un compressore - ha oggi chiamato “manifestanti” dei gruppi ultranazionalisti che stanno dando alle fiamme centinaia di sedi del principale partito di opposizione, che uccidono e aggrediscono i curdi in tutto il Paese, che nel corteo fotografato cantavano “contro i curdi non vogliamo un intervento militare, vogliamo il genocidio”. Sì, perché quei “manifestanti” non sono persone comuni. Si capisce da un saluto un po’ particolare: uniscono l’indice al pollice e alzano le corna. È il saluto dei Lupi Grigi, un’organizzazione paramilitare e fascista, che si rifà al panturchismo (l’ideale dell’unione di tutte le popolazioni turche) e odia e perseguita tutte le minoranze che si trovano sul territorio turco. I Lupi Grigi si sono resi responsabili di decine di attentati e omicidi contro i militanti comunisti e anarchici, già negli dagli anni ’80, in Turchia e all’estero. Pare che anche Alì Agca, l’attentatore di Giovanni Paolo II, fosse un lupo grigio. Più recentemente si sono distinti per gli attacchi con le sciabole contro il movimento di Gezi Park e si sono fatti notare anche in Germania per diversi assalti contro i cortei dei curdi che manifestavano solidarietà a Kobane.
Adesso, la domanda è retorica, ma vogliamo farla: le gallery di Repubblica le fa un giornalista incapace di fare una ricerca su google oppure c’è una precisa scelta editoriale che combina silenzio e menzogne e deve difendere ad ogni costo Erdogan, l’alleato di Renzi che lunedì prossimo sarà in visita all’Expo?
Ma soprattutto: possibile che nessun giornalista alzi una voce contro tutto questo schifo?