Dinamo Press
24 08 2015
Storie di caporali, fattore, silenzi e complicità
Arcangelo ha 42 anni e lotta per la vita all’ospedale San Carlo di Potenza. È in coma profondo dal 5 Agosto dopo essere stato colpito da aneurisma celebrale, mentre era impegnato nella raccolta dell’uva, nelle campagne di Metaponto. Ironia della sorte, l’uomo abita a poche case di distanza dall’abitazione di Paola Clemente, la bracciante morta nelle campagne di Andria lo scorso 13 luglio, il cui decesso è stato archiviato in un primo momento come naturale dal pubblico ministero competente che non aveva predisposto l’autopsia, e la cui salma, invece, sarà riesumata martedì prossimo. Come si ricorderà, la notizia della morte della donna, accompagnata dalla denuncia sulle relative incongruenze nella dinamica, fu data soltanto il 3 Agosto dalla Flai Cgil Puglia. Nessuno ne aveva parlato prima.
Intanto, la pagina facebook di Arcangelo in queste ore è inondata di messaggi di speranza e affetto. La solidarietà corre in rete; un po’ meno nelle strade e nelle piazze di San Giorgio Jonico, popoloso comune alle porte di Taranto, dove in pochi vogliono parlare, ora. A cominciare dalla famiglia, trincerata dietro un rigoroso silenzio.
"Non c’è nessuno", dicono alcuni vicini di casa mentre mi avvicino all’abitazione. "Non vogliamo parlare", mi dice la sorella aprendo la porta della casa. C’è uno strano silenzio anche attorno a questa storia. Che si è appresa soltanto il 20 agosto. Solo dopo che il pubblico ministero della Procura di Trani, Alessandro Pesce ( titolare dell’inchiesta sulla morte di Paola Clemente) ha dato l’annuncio di un’altra inchiesta avviata dalla procura di Matera sul malore dell’uomo, la notizia è rimbalzata. Gli stessi sindacati ne erano all’oscuro.
Avanza sospetti (anche in questo caso) sull’uso massiccio dei fitofarmaci in agricoltura, il segretario generale della Flai Cgil Puglia, Giuseppe De Leonardis che raccogliendo le testimonianze di alcuni braccianti ha fatto scoppiare il bubbone del nuovo caporalato. E fatto venir fuori quel sistema che avrebbe ucciso Paola Clemente, per esempio. Ci spiega come funziona: “il contratto di Paola era a tutti gli effetti regolare, nonostante lavorasse per 2 euro l’ora. Era stata assunta dall’agenzia interinale Infogroup, una delle società leader del settore insieme alla Quanta (che fino allo scorso anno gestiva circa ventimila rapporti di lavoro in agricoltura e che ora in seguito a denunce ed ispezioni subite ne gestisce più o meno la metà) ma di fatto il suo rapporto di lavoro era gestito da Ciro Grassi, colui che è ritenuto da tempo uno degli intermediari del settore più importanti della provincia di Taranto e che ora è indagato dalla Procura di Trani, insieme al titolare dell’azienda Ortofrutticola meridionale di Andria, dove la donna lavorava”.
“Non chiamatemi caporale, io ho tutte le carte in regola" ha spiegato a La Repubblica Ciro Grassi, l'uomo indagato per l'omicidio di Paola Clemente. E in effetti è così. Già, perché dimenticatevi il vecchio caporale alla guida di malconci pulmini Ducato, qui interviene una delle mutazioni antropologiche subite dal settore agricolo negli ultimi anni. È il sistema del nuovo caporalato: Grassi di mestiere ufficialmente fa il tour operator ma ha come clienti unici le aziende di compravendita del lavoro e come passeggeri soltanto contadini. È l’istituzionalizzazione della filiera dello sfruttamento: i grandi proprietari terrieri si rivolgono alle agenzie per reclutare i braccianti e questi ultimi ai nuovi caporali, che sono sempre quelli vecchi che controllavano la manodopera dell’agricoltura pugliese, ma “ripuliti”, sotto lo schermo di una presunta legalità, grazie alla disponibilità di costosi autobus gran - turismo e alla presenza dei contratti di servizio stipulati con le agenzie interinali. Funziona così - come è venuto fuori già da diverse inchieste giudiziarie – non soltanto nelle province di Bari e Taranto, ma anche in molte zone di Calabria, Campania, Emilia-Romagna e Lazio. Si viene assunti con contratti regolari. Di fatto affidati alla mercé di caporali locali, che trattengono parte del salario dei lavoratori, pretendendo indietro ogni mese circa la metà di quanto loro versato con gli assegni circolari. Alle volte il caporale è donna, la cosiddetta fattora. I suoi compiti non cambiano: contattare e reclutare manodopera, gestire braccia e giornate. Governare le vite di chi lavora in campagna. Lo fanno in cambio di soldi, di percentuali.
Il sistema appariva perfettamente logico e normale, fino a quando il bollettino delle morti sul lavoro che, almeno in Puglia, si sta aggiornando continuamente, non fa scoppiare il caso, portandolo alla ribalta nazionale. Se ne accorge anche il Governo che per bocca del Ministro dell’agricoltura Maurizio Martina annuncia “un vertice nazionale con il Ministro del Lavoro e le parti sociali, il 27 agosto, sui temi del caporalato”. E l’intenzione di istituire “una task force territoriale con controlli mirati e più serrati per contrastare il fenomeno”. Sempre lo stesso Ministro Martina aveva dichiarato in una nota che: “bisogna combattere il caporalato come la mafia”. E giù tutto un profluvio di dichiarazioni giunte da ogni parte politica - più o meno dello stesso tono - sul “dovere da parte di tutti di contrastare lavoro nero e sfruttamento”.
Comunque, ad ascoltare le voci di alcuni sfruttati e i commenti a mezzo stampa a queste drammatiche vicende, che giungono dalle istituzioni locali e nazionali, si comprende quanto ci troviamo di fronte ad un problema di ordine politico–culturale, atavico. Per fare un esempio, il sindaco di San Giorgio Jonico, Giorgio Grimaldi, di Sel, ha dichiarato ad alcuni giornali locali di aver parlato con alcuni braccianti del luogo che gli hanno confermato che il caporalato, in quella zona, non esiste. Salvo poi (contattato telefonicamente) correggere il tiro, spiegando “di essere figlio di contadini e come tale sensibile alla questione, ma d’altronde - lascia intendere - qualcuno dovrà pure accompagnarle al lavoro… le donne”.
Dunque, il caporalato appare quasi un mezzo necessario, allo stesso modo le morti in campagna sembrano spesso “naturali”. Ed è per questo, spiega - Sante Bernalda delegato della Flai Cgil di Massafra - che quando ho saputo del decesso di un’altra donna, nelle campagne di Ginosa (avvenuto il 14 Agosto) ho preferito non diffondere la notizia: “è sembrata una morte quasi naturale” - dice – “perché la donna aveva già comunque una patologia. E poi aveva un contratto regolare, non lavorava in nero”. La storia a cui fa riferimento Sante Bernalda è stata resa nota il 21 Agosto da Nicola Maggio, il marito della donna, che ha preferito non sporgere denuncia e far passare qualche giorno prima di raccontare quel dramma cominciato il 31 Luglio, quando Maria accusa un malore e viene trasportata subito in ospedale, dove morirà pochi giorni dopo, a cavallo di Ferragosto. Ha deciso di parlare, l’uomo, perché “il dolore subito dalla sua famiglia possa servire a fare approvare disposizioni di legge che contrastino realmente il caporalato”.
Aveva un contratto regolare, Maria, che gli aveva consentito, negli anni scorsi, anche di accendere un mutuo, ma andava a lavoro con i caporali. Andava a lavoro tutte le mattine, anche la domenica. Da Massafra a Ginosa, pochi chilometri, per questo saliva a bordo dei vecchi Ducato di colore bianco. Era poca la distanza chilometrica da percorrere. Perciò, all’interno di quest’altra filiera dello sfruttamento, gli autobus gran turismo servivano solo da paravento legale. L’autista del ducato bianco che trasportava Maria era una sorta di sub caporale, in sostanza. Questo dimostra quanto labile sia il confine tra la legalità che sia tale, o presunta. Come sottile è la linea tra la morte naturale e l’incidente sul lavoro; qui, nelle campagne di Puglia, dove la logica della stessa vita è assoggettata al massimo profitto d’impresa.
È la storia del capitalismo, dei vinti e dei vincitori. È una storia di donne e di uomini, di caporali e di fattore. Di silenzi e complicità. È la filiera dello sfruttamento, alla cui violenza va posto immediatamente un argine. Senza dover aspettare le prossime morti nelle campagne, quelle che da secoli si considera come naturali. Ancora adesso, nel sud Europa, nel XXI secolo.
Dinamo Press
24 08 2015
Spettacolo osceno, ma il migliore in assoluto di questa mediocre Estate Romana, di gran lunga più performativo delle meschine liturgie leopolde, il funerale Casamonica ha ridestato Ubik da un torpido letargo.
Le legge è legge, cazzo! Vale per i grandi come per i piccoli, negli eventi storici come nei dettagli.
Per esempio.
L’Ama, già regno di Panzironi, deve tenere le strade pulite no? Gli elicotteristi devono chiedere l’autorizzazione per “spargere sostanze sulla città”, nella fattispecie “petali di rose” (ahimè, ci eravamo illusi). Chiusura del sillogismo: sospensione della licenza per l’elicotterista sorvolatore ed elogio all’Ama che ha prontamente ripulito le strade del Tuscolano dagli sdrucciolevoli petali nonché dalle residue corone di fiori. Mancano solo provvedimenti contro i fornitori floreali e i musici della banda che hanno suonato ai funerali. Giustizia è fatta.
Ah, dimenticavo. Elogi anche ai vigili, che hanno garantito la fluidità del traffico lungo la via Tuscolana, costringendo il corteo tamarro a mantenere la destra. Ora potranno tornare ai loro più gravosi compiti istituzionali di sgombero delle abitazioni occupate e dei centri sociali. Auto in tripla fila, dehors di ristoranti straripanti e abusi edilizi? Non esageriamo.
Ministro, prefetto-commissario, questore e sindaco nulla sapevano. Nessuno li aveva preavvertiti (del resto si usa così anche per le rapine). Per il Giubileo stiamo tranquilli, l’Isis preavvisa con largo anticipo e ama i petali di rosa. Per le futuribili Olimpiadi meglio ancora, un viatico alle decisioni in corso sulla sede 2024.
Ri-dimenticavo (alzh). La società civile ha reagito. Orfini ha convocato un presidio permanente davanti alla chiesa di S. Giovanni Bosco, forte del sostegno locale dei circoli Pd di Tuscolano-Quadraro (definito “inerte” nella famosa relazione Barca) e addirittura di Cinecittà-v. Stilicone (ivi classificato fra i “dannosi”). Mafia, camorra e ‘ndrangheta tremano. Figuriamoci i cavallari Casamonica.
Ok, esaurita l’indignazione episodica e prendendo atto che l’aspetto principale del clamore mediatico rientra ormai di diritto nella campagna renziana contro Marino e nelle squallide manovre per tenere sotto botta Alfano come pedina di scambio per una maggioranza al Senato con i berlusconiani, vediamo che peso dare al nostro episodio. Come dire? Spendiamo meglio la nostra legittima indignazione.
Quei funerali, remake fra Kusturica e Coppola, sono l’apoteosi di un clan di peso ma non dominante nella mafia romana, di una struttura di cravattari e spacciatori che approfittano della strozzatura del credito bancario e delle follie del proibizionismo, della logica del neo-liberismo e delle sue perversioni repressive compensatrici. Riprendiamo la foto ormai famosa della cena del 2010. Luciano Casamonica, il più plausibile leader del clan, se ne sta seduto in un tavolino a parte, con una felpa alla Salvini, mentre in primo piano abbiamo tutti i dirigenti comunali dell’èra Alemanno (immortalato in un altro selfie con Lucianone), Buzzi e –guarda guarda– il ministro Poletti, allora “soltanto” presidente della Legacoop.
Il Casamonica junior era (cfr. interrogatorio Buzzi) un buttafuori assunto come kapò per mantenere l’ordine nei campi rom. Chi mungeva alla grande la vacca Roma erano altri, poi passati pacificamente nell’amministrazione Marino (tranne il troppo compromesso Panzironi). E se, invece di fare del moralismo, facessimo critica politica, dovremmo passare dal kitsch alla rabbia con l’ineffabile Poletti, sgusciato dalle maglie di mafia capitale solo per ricomparire come alfiere dell’austerità con il JobsAct e adesso impegnato nella demolizione del sindacato e del diritto di sciopero.
Tanto per restare ai protagonisti di quell’ineffabile foto ricordo, è più criminale suonare colonne sonore allusive a un funerale sinti-mafioso o escludere i sindacati di base dalle trattative? È più criminale esporre gigantografie simil-papali di un boss sulla facciata di una parrocchia connivente o richiedere un referendum per indire uno sciopero? E più criticabile l’ossequioso dispiegamento funerario dei vigili di Roma capitale (o mafia capitale) o il loro impiego nello sgombero dei campi rom e della baraccopoli di asilanti a Ponte Mammolo?
L’autunno di Renzi e Poletti ci riserverà sorprese ben peggiori e, per dirla con Totò (la cui sfarzosa carrozza funebre è stata indegnamente riutilizzata), “distinte esequie”.
Dinamo Press
24 08 2015
Al confine tra Grecia e Macedonia fitto lancio di lacrimogeni e granate assordanti sui migranti in fuga da Siria, Iraq e Afghanistan. Le barriere di filo spinato sono state sfondate e in molti hanno aggirato il cordone delle forze di polizia
In questo momento, tra il villaggio greco di Idomeni e la città macedone di Gevgelija, migliaia di migranti stanno cercando di forzare il blocco delle forze dell’ordine che gli impedisce di entrare in Macedonia. Queste persone, di cui la maggior parte provenienti da Siria, Iraq e Afghanistan, sono da giorni ammassate al confine che separa i due Stati, in attesa di poter passare e arrivare poi, tramite la Serbia, in Ungheria e quindi nell’Unione Europea.
Tra loro e la Macedonia li separa un fitto cordone di forze dell’ordine: appena i migranti chiedono a gran voce di poter passare e raggiungere il Nord Europa – “Non vogliamo stare in Macedonia, fateci andare via”, ripete stremato un signore a cui nessuno darà ascolto – la polizia carica con i manganelli, usa le granate stordenti, lancia lacrimogeni in mezzo alla folla. Non importa se quelle davanti a loro sono persone, non importa se ci sono donne incinte, persone anziane, bambini di pochi mesi: l’unica cosa che conta è rimandare indietro quella massa informe vista solo come un enorme problema.
A chi si trova in questo momento tra Grecia e Macedonia, non è riconosciuta nemmeno un briciolo di quella dignità di cui si parla nella Dichiarazione universale dei diritti umani in cui, almeno teoricamente, si riconosce l’Unione Europea. Chi si trova in questo momento tra Grecia e Macedonia non è visto nemmeno come persona, ma solo come un problema, un fastidio da mandare indietro.
La paranoia degli stati è arrivata a un punto tale che l’Ungheria, primo paese europeo raggiungibile attraverso la rotta dei Balcani, sta costruendo un muro al confine con la Serbia per impedire ai migranti di entrare nel proprio paese. In realtà, l’Ungheria non è il primo Stato membro dell’Unione che sta iniziando a delimitare i propri confini: pure la Bulgaria sta costruendo un muro al confine con la Turchia, così come l’ha già costruito la Grecia durante il governo Papandreou nel 2011.
La risposta a guerra, morte e disperazione data dagli Stati europei è quella dei muri e dei respingimenti: le popolazioni e i governi si strappano i capelli e fanno la voce grossa di fronte alla minaccia dell’Is ma intanto lasciano morire le sue vittime. Quest’ultime sono da compatire finché sono lontane dagli occhi e compaiono solo in qualche video sul giornale, ma sono da odiare, uccidere e respingere qualora si azzardino a cercare riparo all’interno della civile Europa.
Attualmente tra Idomeni e Gevgelija molti dei migranti sono riusciti a forzare il blocco e sembra che ne siano passati attualmente duemila. La polizia ha risposto con un fitto lancio di lacrimogeni e granate assordanti, provocando il panico tra tutti quanti: molti sono i bambini che si sono persi nella confusione e che non riescono a ritrovare i loro genitori. Tanti sono rimasti feriti duranti gli scontri e nemmeno un dottore è andato a controllare le condizioni di chi si è fatto o si è sentito male. È in corso un’emergenza umanitaria e agli Stati – nessuno escluso – non importa nulla. O meglio, importa: ma solo finché non tocca i propri preziosissimi confini.
di Natascia Grbic
Anna Dohm, Dinamo Press
4 agosto 2015
Dinamo Press
05 08 2015
Il j'accuse contro la società israeliana di uno dei pochi intellettuali critici che vi abitano, arrivato dopo la morte di un bambino di un anno e mezzo arso vivo da un commando di coloni che ha dato fuoco alla sua casa.
Gli israeliani accoltellano gay e bruciano bambini. Non vi è un briciolo di calunnia, il minimo grado di esagerazione, in questa secca descrizione.
Vero, queste sono le azioni di pochi. Vero, anche, che il loro numero sta crescendo. E' vero che tutti loro - tutti gli assassini, tutti coloro che danno fuoco, che accoltellano, che sdradicano alberi - fanno parte dello stesso gruppo politico. Ma chi è all'opposizione condivide la responsabilità.
Tutti coloro che hanno pensato che sarebbe stato possibile sostenere isole di democraticità nel mare del fascismo israeliano sono stati messi in imbarazzo questo fine settimana, una volta e per tutte. Semplicemente non è possibile sostenere la brigata commando che spara ad un adolescente, e poi restare scioccati dai coloni che mettono a fuoco una famiglia; sostenere i diritti dei gay e tenere una conferenza in Ariel (insediamento coloniale); essere senza pregiudizi e poi assecondare la destra e cercarvi dei partner. Il male non conosce confini; inizia in un posto e velocemente si diffonde ovunque.
Il principale terreno fertile di coloro che hanno dato fuoco alla famiglia Dawabsheh sono le Forza di Difesa Israeliane, anche se i criminali non vi hanno prestato servizio. Quando l'uccisione di 500 bambini nella Striscia di Gaza è legittima, e non obbliga nemmeno un dibattito, un giudizio morale, cosa c'è di cosi terribile nel dare fuoco ad una casa, insieme ad i suoi abitanti? Dopo tutto, qual è la differenza tra lanciare una bomba di fuoco e sganciare una bomba? In termini di intenzione, o di intento, non c'è differenza.
Quando sparare ai palestinesi diventa quasi un evento quotidiano - altri due sono già stati uccisi da quando la famiglia è stata data a fuoco: uno in Cisgiordania, l'altro al confine della Striscia di Gaza - chi siamo noi per lamentarci dei lanciatori di fuoco di Duma?
Quando le vite dei palestinesi sono ufficialmente nelle mani dell'esercito, il loro sangue di poco valore agli occhi della società israeliana, allora anche le milizie di coloni sono autorizzate a ucciderli. Quando l'etica delle Forze di Difesa Israeliane nella Striscia di Gaza è che qualsiasi cosa è permessa pur di salvare un soldato, chi siamo noi per lamentarci dei conservatori come Baruch Marzel, che questo fine settimana mi ha detto che era permesso uccidere migliaia di palestinesi per proteggere un singolo capello della testa di un ebreo. Questa l'atmosfera, questo il risultato. Per questo motivo la responsabilità primaria va alle Forza di Difesa Israeliane.
Non meno da condannare sono, certamente, i governi ed i politici che gareggiano a chi lecca di più i piedi ai coloni. Chi dà loro 300 nuove abitazioni in cambio della loro violenza all'insediamento vanto di Beit El sta dicendo loro che non solo la violenza è permessa ma anche che paga. E' già difficile tracciare la linea tra il lanciare buste di urina agli ufficiali di polizia e bombe di fuoco dentro le abitazioni delle persone.
Sono da rimproverare, certamente, le autorità adibite a far rispettare la legge, iniziando dal Distretto di Polizia della Giudea e Samaria - il più ridicolo e scandaloso fra tutti i distretti, e non per caso. Nove case palestinesi sono state date alle fiamme negli scorsi tre anni, secondo B'Tselem. Quante persone sono state processate? Nessuna. Quindi cosa è accaduto a Duma venerdi? Il fuoco era semplicemente migliore, agli occhi degli incendiari e dei loro complici.
Fra i loro complici, chi rimane in silenzio, chi perdona e tutti coloro che pensano che il male rimanga per sempre dentro i confini della Cisgiordania. Fra i loro complici anche gli israeliani convinti che il Popolo di Israele sia il Popolo Eletto, e di conseguenza sia permesso farequalsiasi cosa - incluso dare a fuoco abitazioni di non ebrei, con i loro abitanti dentro.
Così, troppi, molti di coloro che sono rimasti scioccati dall'atto, incluso personalità che hanno visitato le vittime nel Centro Medico di Sheba, fuori Tel Aviv - il presidente, il primo ministro, il leader dell'opposizione e i loro assistenti – si sono imbevuti del razzista, irritante “Hai scelto noi fra tutti i popoli” con il loro latte materno.
Alla fine di una terribile giornata, è questo che ha portato al dare alle fiamme una famiglia che Dio non aveva scelto. Nessun principio nella società israeliana è così distruttivo, o maggiormente pericoloso, di questo principio. Né, sfortunatamente, più comune. Se doveste esaminare attentamente cosa si cela sotto la pelle della maggior parte degli israeliani, trovereste: il popolo eletto. Quando questo diventa un principio fondamentale, la prossima bomba di fuoco sarà solo una questione di tempo.
I loro complici sono ovunque, e la maggior parte di essi sta ora disapprovando ed esprimendo sgomento per quanto accaduto. Ma quanto accaduto sarebbe potuto non accadere; quanto accaduto è stato dettato dalle esigenze della realtà, la realtà di Israele e del suo sistema di valori. Quanto accaduto accadrà di nuovo e nessuno sarà risparmiato. Tutti noi abbiamo dato alle fiamme la famiglia Dawabsheh.
di Gideon Levy*
*L'articolo è apparso in inglese sul quotidiano israeliano Haaretz, la traduzione è stata pubblicata da Rosa Schiano sulla sua pagina Facebook
Dinamo Press
04 08 2015
Dopo il braccio di ferro tra Eurogruppo e il governo di Syriza sul salvataggio del paese ellenico, una riflessione sul ruolo della Germania all'interno dell'Unione Europea.
“I don t see a critical popular mass there for anti-austerity struggles, but only passivity and racism out of fear”
(Margarita Tsomou)
Molte sono le domande sul ruolo che la Germania ha assunto in Europa, e non solo, in questa precisa congiuntura storica; tante le analogie, le allusioni e i paragoni storici, più o meno avventati, più o meno fondati, che circolano.
Un giornalista dello Spiegel, Augstein, qualche tempo fa ha scritto su Twitter: “Wir sind wieder die Deutschen, vor denen man uns immer gewarnt hat”, ossia “Siamo di nuovo i tedeschi, da cui ci hanno sempre messo in guardia”.
Dopo un rapida occhiata al presente non si può che dar ragione al giornalista liberale dello Spiegel. Peccato, però, che solo una parte assolutamente minoritaria della popolazione tedesca la pensi così. Men che mai – e ben lo hanno dimostrato nelle ultime settimane - il governo di Angela Merkel e Schäuble, le grandi imprese, il grosso del conservatorismo liberale tedesco, insieme ai cosiddetti socialdemocratici dell'SPD sembrano avere l'interesse o l'intenzione di riflettere sul proprio (recentissimo) passato storico e sulla responsabilità politica che in questo momento investe la Germania. Tralasciando poi i dettagli sull'apparato repressivo e poliziesco, rimesso a lucido per l'occasione, al fine di ricordare ai movimenti anticapitalisti e solidali con la Grecia da che parte sta la forza (del male, of course!).
Tirapiedi dello Stato tornano sempre alla ribalta, con una puntualità inquietante, a digrignare i denti: a Berlino in particolar modo hanno fatto di tutto per criminalizzare le proteste, per censurare le immagini di centinaia e centinaia di “OXI” sotto la porta di Brandenburgo, nel “cuore della Bestia”. Persino il partito dei Verdi (Bündnis 90/die Grünen) nei giorni del referendum greco invitava a votare “SI”. Siamo di fronte a una vera e propria guerra ideologica; questo vediamo ogni giorno e di questo saremo testimoni. Un intero sistema ha costruito una macchina di propaganda di massa per il “SI”, non c'è stato un giornale tra tutta la stampa tedesca – tolte forse le testate di sinistra NeuesDeutschland e JungeWelt – che ha riportato, anche solo per amor di cronaca, un punto di vista critico, che ha raccontato, per esempio, delle proteste che ci sono state in oltre 100 città tedesche. Prantl un giornalista del giornale Süddeutsche Zeitung criticava qualche giorno fa l’operato poco professionale del mass- media in Germania facendo notare che quasi tutti ripetevano la linea del governo o anticipavano una certa linea politica poi rappresentata da Schäuble, addirittura prima che lui o il governo comunicassero l’opzione Grexit.
Dati statistici anteriori al referendum parlavano di un 75% circa della popolazione d'accordo con la politica di Schäuble. Dopo la sua proposta di una Grexit temporanea, però, il clima in Germania sembrava leggermente mutato. Le critiche contro il Ministro dell'Economia si sono levate da più parti anche all'interno del Bundestag, dall'opposizione all'SPD, fino a Frau Merkel, a tal punto che, per un attimo, sono spuntati titoli di giornali che vociferavano di una possibile dimissione di Schäuble. Ma, il 17 luglio, come è noto, con una seduta straordinaria, il Parlamento ha votato a grande maggioranza il procedimento ricattatorio nei confronti della Grecia: di 598 deputati presenti 439 hanno votato 'Si', 119 'No', 40 si sono astenuti. Qualche 'No' nel Bundestag veniva anche dal partito della Merkel & Schäuble, la CD, a indicare qualche minimo segno di rottura nella classe dirigente tedesca.
Intanto i manifestanti sotto il Bundestag venivano arrestati e trascinati via, perché si erano permessi di portare uno striscione con su scritto “NO” nella zona rossa del Parlamento, dove non si può neanche richiedere l'autorizzazione a manifestare durante le sedute. Di questo, ovviamente, tutti i media mainstream tedeschi non hanno parlato. Solo qualche testata straniera, tra cui la stessa BBC, si è mostrata interessata a raccontare quello che stava accadendo non solo dentro il Bundestag, ma anche fuori.
Tutto ciò in un contesto in cui, in particolar modo nell'Est, ma anche a Ovest, crescono sentimenti xenofobi e razzisti, in cui nuove destre e neonazisti stanno trovando terreno fertile per ingrossare le proprie fila: si ripetono ormai quasi ogni giorno in tutto il paese aggressioni violente nei confronti dei rifugiati, incendi delle loro abitazioni o delle strutture che li accolgono. Anche questa è la Germania oggi, questi i fatti materiali accaduti e che accadono ogni giorno. Per analizzare il razzismo nel paese e un 'nuovo' nazionalismo tedesco serve analizzare bene le radici di queste pulsioni nella popolazione. Non è un caso, ad esempio, che la maggioranza tedesca sia contraria ad un Grexit. Anzi grande parte dei tedesch* vuole dare altro sostegno alla Grecia purché l’intero processo rimanga sotto un certo comando tedesco. I tedeschi si presentano come grandi donatori per la Grecia e vogliono che rimanga nell’Unione Europea. Però non si fidano della Grecia, non si fidano di Tsipras e sopratutto non si fidano della popolazione che votava 'OXI – No' al Referendum. Nasce qua un nuovo punto di nazionalismo, che non è esplicitamente aggressivo. La maggioranza dei tedeschi vuole aiutare la Grecia ma sotto il controllo tedesco che può essere in grado di risolvere la situazione. Più di 5 anni di propaganda sporca contro i 'greci che non lavorano' 'il Greco fallito' ('Pleitegriechen') hanno lasciato delle tracce profonde nell’immaginario collettivo, creando l’idea che solo a partire dall’egemonia tedesca l’Europa possa funzionare.
Gli ultimi sondaggi danno Schäuble al secondo o terzo posto nel essere il politico preferito della popolazione con ~ 70 % (una buona base per i/le compagn@ per essere disperati/e). La maggior parte della popolazione tedesca sta dietro la politica del governo.
Più complessivamente, sul piano della costruzione di discorso, la retorica dell'ordoliberalismo sembra essere quella di provare a “normalizzare” la pratica di estorsione e strozzinaggio, come pratica di gestione della crisi, una crisi che ormai si mostra nella veste di una lotta all'ultimo sangue per salvare un sistema che, palesemente, non funziona più. Il discorso mediatico vigente cerca di presentare tutto ciò come business as usual. Dall’altra parte c'è chi pensa che questi ultimi giorni entreranno nei libri di storia: come giorni di un nuovo inizio o della definitiva catastrofe.
Ma come saranno raccontati dipende anche dalla capacità dei movimenti di lavorare per costruire un'opposizione radicale e di massa, in Germania così come negli altri paesi della maledetta Unione Europea e non solo. Cosa questa assolutamente non facile e scontata, visto l'isolamento politico-istituzionale e mediatico: basti pensare al silenzio triste e umiliante che impera nel partito della Die.Linke, da cui ci si aspettava almeno una presa di parola chiara. C'è chi all'interno prova a smuovere e dire qualcosa, ma l'incapacità generale di mobilitare la base del partito lascia sgomenti. L'argomento è troppo distante dai loro elettori (...), dicono. Così mantengono i propri discorsi sul piano delle lotte da scrivania o di salotti/assemblee per soli „intellettuali“ di partito. Con questa attitudine, neanche riescono ad avvicinarsi allo “Standort Deutschland”, alla fortezza nazionale tedesca. Non meno assordante è stato il silenzio dei sindacati. In altre parole, le manifestazioni, i presidi, le assemblee pubbliche che abbiamo visto in questi giorni non ci sarebbero stati senza i movimenti anticapitalisti ed extraparlamentari.
E fa ridere (una risata molto amara, s'intende) chi si pone da qui – luogo d'osservazione privilegiato in tutti i sensi - come unico problema e dall'alto della propria purezza antagonista, quello di giudicare Tsipras e Syriza, di decidere se siano dei traditori del popolo o meno. Se pollice in su o in giù deve essere, allora deve esserlo per tutti noi anche (tralasciando per un secondo la gogna che andrebbe riservata – privilegium! - alla sola socialdemocrazia europea): per tutti i movimenti e le voci critiche che, oltre la Grecia, non sono stati capaci di imporsi come senso comune, di fare breccia nella società e di costruire forme di resistenza, tanto radicali quanto maggioritarie, al livello internazionale contro questa Europa. Insieme a piazza Syntagma, in questo momento, mille altre piazze europee dovrebbero bruciare. È evidente che la Grecia da sola, totalmente isolata sul tavolo delle “trattative”, non poteva e non può rovesciare i rapporti di forza. Poi certo si potrebbe continuare a discutere della tattica-Tsipras e di quella-Varoufakis, di quale gioco delle carte sarebbe stato migliore, se Tsipras non avrebbe fatto meglio a dimettersi piuttosto che approvare lui un terzo memorandum... Tutto vero, ma al momento ci sembra di sottovalutarci troppo se ci attribuiamo il mero un ruolo di giudici, che seduti dietro al tavolo alzano le palette coi voti sulle vicende e sui loro protagonisti.
È forse più interessante e politicamente urgente riflettere sul conflitto che, grazie non solo a Syriza, ma a un movimento di massa che da almeno sette anni è nelle strade, si è riaperto a livello istituzionale europeo, svelando la vera natura di questa guerra: una guerra agita non solo contro la Grecia, ma contro tutti noi, contro le nostre vite e i nostri modi di esistere, contro l'idea che a tutto ciò possa esserci un'alternativa. In altre parole, siamo di fronte a una vera e propria guerra di classe. Schiacciare e umiliare l'“OXI” alle politiche di austerità espresso da una società intera, vuol dire soffocare e dare una “lezione esemplare” a tutti coloro che non accettano questo stato di cose. La questione dirimente diviene allora capire non solo, o non tanto, come si possa esprimere un livello di solidarietà forte nei confronti della Grecia, ma come, all'interno dell'Europa tutta, i rapporti di forza possano essere rovesciati, come la lotta di classe possa essere nuovamente agita non solo “dall'alto”, ma anche “dal basso”. Come si torna, cioè, ad avere nuovamente un “potere di minaccia” nei confronti dei padroni, delle istituzioni finanziarie, della Troika e dei “falchi tedeschi”? A maggior ragione di fronte ai nuovi nazionalismi e alle nuove destre che avanzano.
E ci si pone queste domande da un punto di vista affatto particolare: dalla capitale tedesca, un tempo nota come “isola” all'interno della DDR, dove Berlino-ovest era il centro dell'opposizione e della dissidenza politica. Quella storia è andata ormai avanti e si è trasformata con tutte le sue contraddizioni: capitale “multikulti”, attraversata, se non dominata, da forme di vita alternative, messe esse stesse a valore dal capitalismo. Babele linguistica dove spesso il posizionamento politico diventa solo un “brand”, una moda, che il più delle volte rifugge l'organizzazione politica. Capitale, forse tra le ultime in tutta Europa, dove la qualità della vita, nonostante i meccanismi perversi del Welfarestate (o Workfare che dir si voglia), è ancora molto alta. Eppure nei bar, nei caffè, nei posti di lavoro, nelle università si parla della Grecia, in maniera più o meno approfondita, ma se ne parla. E iniziano a circolare forme di rabbia diffusa nei confronti dell'attuale governo tedesco, così come nei confronti dell'SPD e dei GRÜNE.
Non casualmente, proprio in questo momento, l'aggettivo “antideutsch”, “antitedesco”, aggettivo carico di storia per i movimenti tedeschi, sta trovando una nuova rinascita. Osservando bene la storia recente di questo paese vediamo che dopo la caduta del muro e la 'Riunificazione' della Germania, il paese è stato un laboratorio speciale per ricostruire un certo potere neoliberale sulla scala europea e globale con nuove strategie di bio- poitica per incentivare un forte individualismo. Lo stesso sistema di 'Treuhand' che era usato per organizzare la liquidazione della Germania Est viene usato per svendere adesso terreni e forze di lavoro greci. Dopo 1989/90 molte battaglie politiche, antifasciste e antirazziste finivano in discorsi paralizzanti.I cosidetti 'antideutsch' rifiutavano ogni espressione di movimento dicendo che in questo paese ogni movimento di massa ha un potenziale autoritario perché nella storia tedesca è iscritto un autoritarismo e un attitudine imperialista. Negli anni 2000' si sono dati conflitti sporchi e faticosi dentro il movimento, per provare a rompere la gabbia auto-referenziale del sentimento anti-tedesco . Da quando viviamo la crisi e da quando stiamo osservando la politica del governo tedesco e i mass- media in questo paese, stanno rinascendo sentimenti di rabbia contro la Germania in generale dentro il movimento. “Germany you are a piece of shit” era scritto su uno striscione il corteo del 03.07.2015, striscione prontamente confiscato dalla Polizia.
Si può riflettere sulla dubbia utilità di questo slogan per allargare la base dei manifestanti, ma allo stesso tempo esprime un sentimento forte che hanno tanti compagn* in questo periodo. Le lotte antifasciste qua sono sempre molto connesse con un certo lavoro di memoria spinto dal movimento. Nella conferenza di Londra sui debiti della seconda guerra mondiale (1953) la Grecia dava più tempo alla Germania Ovest (BRD) per pagare il suo debito del Nazi- Terrore. Questo debito non è mai stato pagato. I colpevoli dei massacri di Cervarolo, St. Anna, Mazzabotto in Italia o Distomo in Grecia, vivono ancora tranquillamente in Germania anche se sono condannati in altri paesi. Il dibattito sui debiti è ampio e per i movimenti è importante insistere sul fatto che questi debiti non sono i debiti di una società civile ma debiti fatti da un sistema di banche, di usura e sfruttamento. Adesso che la Germania che porta il più grande debito storico nel terreno Europeo (cosi grande da non potersi neanche valutare in moneta) va a ricattare la Grecia in un modo aggressivo e autoritario, rinasce il vecchio slogan “Mai più la Germania” (“Nie wieder Deutschland”). Le forze extraparlamentari anticapitaliste cercano di riunire coloro che sono contro e parallelamente devono mantenere le pratiche consolidate nel movimento antifa, ad esempio per rispondere alle aggressioni nazifasciste in confronto agli rifugiati. Di sicuro dopo l’estate i movimenti non solo tedeschi devono decidere insieme come continuare. Il dibattito dei giorni di resistenza contro L'Europa di Austerity e per la solidarietà e verso il 1.maggio a Berlino 2016 possono essere luoghi di questa discussione.
Dinamo Press
03 08 2015
Non è la prima volta, da quando venne apposta nel febbraio del 2006, che la targa della via intestata a Valerio Verbano, all'interno del Parco delle Valli in Municipio III, subisce danneggiamenti o viene distrutta. Era già accaduto nell'agosto del 2013, è accaduto di nuovo ieri quando "ignoti" l'hanno divelta facendola in pezzi. Un gesto vigliacco e insopportabile.
A distanza di più di 35 anni dall'omocidio di Valerio, il suo impegno e attivismo continuano a risultare insopportabili a chi si traveste da rivoluzionario per fomentare la guerra tra poveri e mantenere lo status quo. Contattate le istituzioni locali, queste ci hanno garantito che la targa sarà presto rimessa al suo posto. Se ciò non accadrà provvederemo direttamente a farlo in compagnia di tutta la città solidale, democratica e antifascista. Magari togliendo quell'insopportabile "vittima della violenza politica", definizione figlia dei tentativi di riconciliazione e "memoria condivisa", per sostituirlo con la nostra memoria partigiana e poter finalmente leggere: "assassinato dalla violenza neofascista".
Valerio Verbano, non un nome su una via, ma su tutte le vie, su tutte le piazze
Dinamo Press
30 07 2015
Dopo il braccio di ferro tra Eurogruppo e il governo di Syriza sul salvataggio del paese ellenico, una riflessione sul ruolo della Germania all'interno dell'Unione Europea.
“I don t see a critical popular mass there for anti-austerity struggles, but only passivity and racism out of fear”
(Margarita Tsomou)
Molte sono le domande sul ruolo che la Germania ha assunto in Europa, e non solo, in questa precisa congiuntura storica; tante le analogie, le allusioni e i paragoni storici, più o meno avventati, più o meno fondati, che circolano.
Un giornalista dello Spiegel, Augstein, qualche tempo fa ha scritto su Twitter: “Wir sind wieder die Deutschen, vor denen man uns immer gewarnt hat”, ossia “Siamo di nuovo i tedeschi, da cui ci hanno sempre messo in guardia”.
Dopo un rapida occhiata al presente non si può che dar ragione al giornalista liberale dello Spiegel. Peccato, però, che solo una parte assolutamente minoritaria della popolazione tedesca la pensi così. Men che mai – e ben lo hanno dimostrnti anticapitalisti e solidali con la Grecia da che parte sta la forza (del male, of course!).
Tirapiedi dello Stato tornano sempre alla ribalta, con una puntualità inquietante, a digrignare i denti: a Berlino in particolar modo hanno fatto di tutto per criminalizzare le proteste, per censurare le immagini di centinaia e centinaia di “OXI” sotto la porta di Brandenburgo, nel “cuore della Bestia”. Persino il partito dei Verdi (Bündnis 90/die Grünen) nei giorni del referendum greco invitava a votare “SI”. Siamo di fronte a una vera e propria guerra ideologica; questo vediamo ogni giorno e di questo saremo testimoni. Un intero sistema ha costruito una macchina di propaganda di massa per il “SI”, non c'è stato un giornale tra tutta la stampa tedesca – tolte forse le testate di sinistra NeuesDeutschland e JungeWelt – che ha riportato, anche solo per amor di cronaca, un punto di vista critico, che ha raccontato, per esempio, delle proteste che ci sono state in oltre 100 città tedesche.
Prantl un giornalista del giornale Süddeutsche Zeitung criticava qualche giorno fa l’operato poco professionale del mass- media in Germania facendo notare che quasi tutti ripetevano la linea del governo o anticipavano una certa linea politica poi rappresentata da Schäuble, addirittura prima che lui o il governo comunicassero l’opzione Grexit.
Dati statistici anteriori al referendum parlavano di un 75 % circa della popolazione d'accordo con la politica di Schäuble. Dopo la sua proposta di una Grexit temporanea, però, il clima in Germania sembrava leggermente mutato. Le critiche contro il Ministro dell'Economia si sono levate da più parti anche all'interno del Bundestag, dall'opposizione all'SPD, fino a Frau Merkel, a tal punto che, per un attimo, sono spuntati titoli di giornali che vociferavano di una possibile dimissione di Schäuble. Ma, il 17 luglio, come è noto, con una seduta straordinaria, il Parlamento ha votato a grande maggioranza il procedimento ricattatorio nei confronti della Grecia: di 598 deputati presenti 439 hanno votato 'Si', 119 'No', 40 si sono astenuti. Qualche 'No' nel Bundestag veniva anche dal partito della Merkel & Schäuble, la CD, a indicare qualche minimo segno di rottura nella classe dirigente tedesca.
Intanto i manifestanti sotto il Bundestag venivano arrestati e trascinati via, pato nelle ultime settimane - il governo di Angela Merkel e Schäuble, le grandi imprese, il grosso del conservatorismo liberale tedesco, insieme ai cosiddetti socialdemocratici dell'SPD sembrano avere l'interesse o l'intenzione di riflettere sul proprio (recentissimo) passato storico e sulla responsabilità politica che in questo momento investe la Germania. Tralasciando poi i dettagli sull'apparato repressivo e poliziesco, rimesso a lucido per l'occasione, al fine di ricordare ai movimeerché si erano permessi di portare uno striscione con su scritto “NO” nella zona rossa del Parlamento, dove non si può neanche richiedere l'autorizzazione a manifestare durante le sedute. Di questo, ovviamente, tutti i media mainstream tedeschi non hanno parlato. Solo qualche testata straniera, tra cui la stessa BBC, si è mostrata interessata a raccontare quello che stava accadendo non solo dentro il Bundestag, ma anche fuori.
Tutto ciò in un contesto in cui, in particolar modo nell'Est, ma anche a Ovest, crescono sentimenti xenofobi e razzisti, in cui nuove destre e neonazisti stanno trovando terreno fertile per ingrossare le proprie fila: si ripetono ormai quasi ogni giorno in tutto il paese aggressioni violente nei confronti dei rifugiati, incendi delle loro abitazioni o delle strutture che li accolgono. Anche questa è la Germania oggi, questi i fatti materiali accaduti e che accadono ogni giorno. Per analizzare il razzismo nel paese e un 'nuovo' nazionalismo tedesco serve analizzare bene le radici di queste pulsioni nella popolazione. Non è un caso, ad esempio, che la maggioranza tedesca sia contraria ad un Grexit. Anzi grande parte dei tedesch* vuole dare altro sostegno alla Grecia purché l’intero processo rimanga sotto un certo comando tedesco. I tedeschi si presentano come grandi donatori per la Grecia e vogliono che rimanga nell’Unione Europea. Però non si fidano della Grecia, non si fidano di Tsipras e sopratutto non si fidano della popolazione che votava 'OXI – No' al Referendum. Nasce qua un nuovo punto di nazionalismo, che non è esplicitamente aggressivo. La maggioranza dei tedeschi vuole aiutare la Grecia ma sotto il controllo tedesco che può essere in grado di risolvere la situazione. Più di 5 anni di propaganda sporca contro i 'greci che non lavorano' 'il Greco fallito' ('Pleitegriechen') hanno lasciato delle tracce profonde nell’immaginario collettivo, creando l’idea che solo a partire dall’egemonia tedesca l’Europa possa funzionare.
Gli ultimi sondaggi danno Schäuble al secondo o terzo posto nel essere il politico preferito della popolazione con ~ 70 % (una buona base per i/le compagn@ per essere disperati/e). La maggior parte della popolazione tedesca sta dietro la politica del governo.
Più complessivamente, sul piano della costruzione di discorso, la retorica dell'ordoliberalismo sembra essere quella di provare a “normalizzare” la pratica di estorsione e strozzinaggio, come pratica di gestione della crisi, una crisi che ormai si mostra nella veste di una lotta all'ultimo sangue per salvare un sistema che, palesemente, non funziona più. Il discorso mediatico vigente cerca di presentare tutto ciò come business as usual. Dall’altra parte c'è chi pensa che questi ultimi giorni entreranno nei libri di storia: come giorni di un nuovo inizio o della definitiva catastrofe.
Ma come saranno raccontati dipende anche dalla capacità dei movimenti di lavorare per costruire un'opposizione radicale e di massa, in Germania così come negli altri paesi della maledetta Unione Europea e non solo. Cosa questa assolutamente non facile e scontata, visto l'isolamento politico-istituzionale e mediatico: basti pensare al silenzio triste e umiliante che impera nel partito della Die.Linke, da cui ci si aspettava almeno una presa di parola chiara. C'è chi all'interno prova a smuovere e dire qualcosa, ma l'incapacità generale di mobilitare la base del partito lascia sgomenti. L'argomento è troppo distante dai loro elettori (...), dicono.
Così mantengono i propri discorsi sul piano delle lotte da scrivania o di salotti/assemblee per soli „intellettuali“ di partito. Con questa attitudine, neanche riescono ad avvicinarsi allo “Standort Deutschland”, alla fortezza nazionale tedesca. Non meno assordante è stato il silenzio dei sindacati. In altre parole, le manifestazioni, i presidi, le assemblee pubbliche che abbiamo visto in questi giorni non ci sarebbero stati senza i movimenti anticapitalisti ed extraparlamentari.
E fa ridere (una risata molto amara, s'intende) chi si pone da qui – luogo d'osservazione privilegiato in tutti i sensi - come unico problema e dall'alto della propria purezza antagonista, quello di giudicare Tsipras e Syriza, di decidere se siano dei traditori del popolo o meno. Se pollice in su o in giù deve essere, allora deve esserlo per tutti noi anche (tralasciando per un secondo la gogna che andrebbe riservata – privilegium! - alla sola socialdemocrazia europea): per tutti i movimenti e le voci critiche che, oltre la Grecia, non sono stati capaci di imporsi come senso comune, di fare breccia nella società e di costruire forme di resistenza, tanto radicali quanto maggioritarie, al livello internazionale contro questa Europa. Insieme a piazza Syntagma, in questo momento, mille altre piazze europee dovrebbero bruciare. È evidente che la Grecia da sola, totalmente isolata sul tavolo delle “trattative”, non poteva e non può rovesciare i rapporti di forza. Poi certo si potrebbe continuare a discutere della tattica-Tsipras e di quella-Varoufakis, di quale gioco delle carte sarebbe stato migliore, se Tsipras non avrebbe fatto meglio a dimettersi piuttosto che approvare lui un terzo memorandum... Tutto vero, ma al momento ci sembra di sottovalutarci troppo se ci attribuiamo il mero un ruolo di giudici, che seduti dietro al tavolo alzano le palette coi voti sulle vicende e sui loro protagonisti.
È forse più interessante e politicamente urgente riflettere sul conflitto che, grazie non solo a Syriza, ma a un movimento di massa che da almeno sette anni è nelle strade, si è riaperto a livello istituzionale europeo, svelando la vera natura di questa guerra: una guerra agita non solo contro la Grecia, ma contro tutti noi, contro le nostre vite e i nostri modi di esistere, contro l'idea che a tutto ciò possa esserci un'alternativa. In altre parole, siamo di fronte a una vera e propria guerra di classe. Schiacciare e umiliare l'“OXI” alle politiche di austerità espresso da una società intera, vuol dire soffocare e dare una “lezione esemplare” a tutti coloro che non accettano questo stato di cose. La questione dirimente diviene allora capire non solo, o non tanto, come si possa esprimere un livello di solidarietà forte nei confronti della Grecia, ma come, all'interno dell'Europa tutta, i rapporti di forza possano essere rovesciati, come la lotta di classe possa essere nuovamente agita non solo “dall'alto”, ma anche “dal basso”. Come si torna, cioè, ad avere nuovamente un “potere di minaccia” nei confronti dei padroni, delle istituzioni finanziarie, della Troika e dei “falchi tedeschi”? A maggior ragione di fronte ai nuovi nazionalismi e alle nuove destre che avanzano.
E ci si pone queste domande da un punto di vista affatto particolare: dalla capitale tedesca, un tempo nota come “isola” all'interno della DDR, dove Berlino-ovest era il centro dell'opposizione e della dissidenza politica. Quella storia è andata ormai avanti e si è trasformata con tutte le sue contraddizioni: capitale “multikulti”, attraversata, se non dominata, da forme di vita alternative, messe esse stesse a valore dal capitalismo. Babele linguistica dove spesso il posizionamento politico diventa solo un “brand”, una moda, che il più delle volte rifugge l'organizzazione politica. Capitale, forse tra le ultime in tutta Europa, dove la qualità della vita, nonostante i meccanismi perversi del Welfarestate (o Workfare che dir si voglia), è ancora molto alta.
Eppure nei bar, nei caffè, nei posti di lavoro, nelle università si parla della Grecia, in maniera più o meno approfondita, ma se ne parla. E iniziano a circolare forme di rabbia diffusa nei confronti dell'attuale governo tedesco, così come nei confronti dell'SPD e dei GRÜNE. Non casualmente, proprio in questo momento, l'aggettivo “antideutsch”, “antitedesco”, aggettivo carico di storia per i movimenti tedeschi, sta trovando una nuova rinascita. Osservando bene la storia recente di questo paese vediamo che dopo la caduta del muro e la 'Riunificazione' della Germania, il paese è stato un laboratorio speciale per ricostruire un certo potere neoliberale sulla scala europea e globale con nuove strategie di bio- poitica per incentivare un forte individualismo. Lo stesso sistema di 'Treuhand' che era usato per organizzare la liquidazione della Germania Est viene usato per svendere adesso terreni e forze di lavoro greci. Dopo 1989/90 molte battaglie politiche, antifasciste e antirazziste finivano in discorsi paralizzanti.
I cosidetti 'antideutsch' rifiutavano ogni espressione di movimento dicendo che in questo paese ogni movimento di massa ha un potenziale autoritario perché nella storia tedesca è iscritto un autoritarismo e un attitudine imperialista. Negli anni 2000' si sono dati conflitti sporchi e faticosi dentro il movimento, per provare a rompere la gabbia auto-referenziale del sentimento anti-tedesco . Da quando viviamo la crisi e da quando stiamo osservando la politica del governo tedesco e i mass- media in questo paese, stanno rinascendo sentimenti di rabbia contro la Germania in generale dentro il movimento. “Germany you are a piece of shit” era scritto su uno striscione il corteo del 03.07.2015, striscione prontamente confiscato dalla Polizia. Si può riflettere sulla dubbia utilità di questo slogan per allargare la base dei manifestanti, ma allo stesso tempo esprime un sentimento forte che hanno tanti compagn* in questo periodo. Le lotte antifasciste qua sono sempre molto connesse con un certo lavoro di memoria spinto dal movimento. Nella conferenza di Londra sui debiti della seconda guerra mondiale (1953) la Grecia dava più tempo alla Germania Ovest (BRD) per pagare il suo debito del Nazi- Terrore. Questo debito non è mai stato pagato. I colpevoli dei massacri di Cervarolo, St. Anna, Mazzabotto in Italia o Distomo in Grecia, vivono ancora tranquillamente in Germania anche se sono condannati in altri paesi.
Il dibattito sui debiti è ampio e per i movimenti è importante insistere sul fatto che questi debiti non sono i debiti di una società civile ma debiti fatti da un sistema di banche, di usura e sfruttamento. Adesso che la Germania che porta il più grande debito storico nel terreno Europeo (cosi grande da non potersi neanche valutare in moneta) va a ricattare la Grecia in un modo aggressivo e autoritario, rinasce il vecchio slogan “Mai più la Germania” (“Nie wieder Deutschland”). Le forze extraparlamentari anticapitaliste cercano di riunire coloro che sono contro e parallelamente devono mantenere le pratiche consolidate nel movimento antifa, ad esempio per rispondere alle aggressioni nazifasciste in confronto agli rifugiati. Di sicuro dopo l’estate i movimenti non solo tedeschi devono decidere insieme come continuare. Il dibattito dei giorni di resistenza contro L'Europa di Austerity e per la solidarietà e verso il 1.maggio a Berlino 2016 possono essere luoghi di questa discussione.
Anna Dohm
Dinamo Press
29 07 2015
Oggi in aula si discute su manovre di spending review: 2,3 mld di euro annui in meno nella Sanità per i prossimi 3 anni. “Non vi preoccupate non sono tagli lineari, sono razionalizzazioni!” questo il mantra giustificatorio.
Va da sé che per essere una razionalizzazione i soldi risparmiati debbano essere reinvestiti nel SSN e non per pagare debiti, né per abbassare le tasse. E così, stando alle parole di Gutgeld (il commissario alla revisione della spesa pubblica), non è. Dunque chiariamo subito che non si tratta di una razionalizzazione, bensì di ulteriori tagli. Analizziamo dunque la situazione del sistema sanitario nazionale: Dal 2011 ad oggi sono stati tagliati 24 miliardi, con questi si arriverebbe a più di 30! La percentuale del PIL spesa per la sanità è il 7%. Negli USA (quelli di John Q e della sanità solo a chi può permettersela) è all'8,5% dopo le manovre di Obama (Medicare, Medicaid, etc.)
I LEA sono i livelli essenziali di assistenza sono quei servizi dichiarati base dal nostro ministero, sono quei servizi a cui tutti dovrebbero avere accesso gratuitamente. Questi servizi sono garantiti solo in alcune regioni. Nel 2014 il 9,5% della popolazione ha rinunciato alle cure mediche per motivi economici. Entriamo nel merito di questa manovra: i campi da cui dovrebbero saltar fuori questi soldi sono soprattutto il taglio delle prestazioni specialistiche, del 15%, a breve verrà stilata una lista delle situazioni e delle patologie dove analisi e approfondimenti sono necessari, altrimenti si pagherà di tasca propria. Verranno tagliati gli stipendi ai medici che prescrivono esami “inutili”.
Si potrebbe commentare che molto difficilmente riusciranno a stilare protocolli così ampi in così poco tempo che abbiano validità scientifica. Si potrebbe commentare che se si riesce a studiare protocolli che facciano rientrare tutte le situazioni possibili, perchè spendiamo così tanti soldi nella formazione di nuovi medici? basterebbe un software che applica i protocolli prestabiliti. L'evidenza è che questo punto sia palesemente un nuovo superticket che farà ricadere sul paziente un ulteriore parte dei servizi che ora il SSN eroga. Altri soldi verranno risparmiati sul controllo delle strutture in rosso, il taglio della rete ospedaliera: 5% di beni e servizi (dunque strutture e personale in meno), la riduzione della degenza media e del tasso di ospedalizzazione. Solita solfa.
Stante quello che è trapelato su questa manovra non ci sono dubbi nell'affermare che si tratti di un ulteriore scellerato taglio su un sistema al collasso che non riesce più a sopperire ai bisogni della popolazione. E' tra l'altro indubbio il bisogno che questo sistema ha di diventare più efficiente, ed è anche indubbia la strada che si dovrebbe intraprendere: basterebbe seguire il tragitto segnato dalle regioni più virtuose, come la Toscana e l'Emilia Romagna. Qui l'investimento è stato sulle case della salute, dunque piccoli centri sparsi sul territorio che lavorano sull'assistenza di base e la prevenzione, riducendo il tasso di ospedalizzazione a monte, non a valle.
E' però vero che questo modello non risponde ai criteri richiesti, fare cassa e farla subito, sono politiche più a lungo corso, ma la tornata elettorale si avvicina e i diktat vanno rispettati, ecco perchè si opta per queste “scorciatoie”. La prospettiva è dunque un progressivo smantellamento del mondo assistenziale pubblico a favore della sanità privata, campo in cui abbiamo una delle spese maggiori d'Europa.
Non si può dunque non pensare a quelle piccole sacche di resistenza sanitaria che stanno nascendo in giro per l'Italia: l'ambulatorio popolare napoletano tra le mura di Zero81, quello romano di Strike “Ambu Lanti” e quello milanese. Queste esperienze vedono la sanità come un bene comune, non dunque l'ennesimo salvadanaio per la spending review o il barone di turno, ma un bene gestito in comunione tra operatori della salute ed utenza, così come è stata difesa la struttura del Ce.F.I. Riuscendo a portare ai vari presidi sotto la regione non solo i lavoratori che avrebbero perso il lavoro, ma anche quelle famiglie che avrebbero dovuto fare 30 km 2 volte a settimana per lo stesso servizio, perchè a tale distanza era il più vicino centro di logopedia per bambini (leggi anche Il sindacalismo sociale vince a Roma) si è riusciti ad impedire la chiusura della struttura. Perchè se tagliano sulla sanità tagliano sulla salute di tutt*.
Dinamo Press
29 07 2015
In aula si discute su manovre di spending review: 2,3 mld di euro annui in meno nella Sanità per i prossimi 3 anni.
“Non vi preoccupate non sono tagli lineari, sono razionalizzazioni!” questo il mantra giustificatorio.
Va da sé che per essere una razionalizzazione i soldi risparmiati debbano essere reinvestiti nel SSN e non per pagare debiti, né per abbassare le tasse. E così, stando alle parole di Gutgeld (il commissario alla revisione della spesa pubblica), non è. Dunque chiariamo subito che non si tratta di una razionalizzazione, bensì di ulteriori tagli.
Analizziamo dunque la situazione del sistema sanitario nazionale:
Dal 2011 ad oggi sono stati tagliati 24 miliardi, con questi si arriverebbe a più di 30!
La percentuale del PIL spesa per la sanità è il 7%. Negli USA (quelli di John Q e della sanità solo a chi può permettersela) è all'8,5% dopo le manovre di Obama (Medicare, Medicaid, etc.)
I LEA sono i livelli essenziali di assistenza sono quei servizi dichiarati base dal nostro ministero, sono quei servizi a cui tutti dovrebbero avere accesso gratuitamente. Questi servizi sono garantiti solo in alcune regioni.
Nel 2014 il 9,5% della popolazione ha rinunciato alle cure mediche per motivi economici.
Entriamo nel merito di questa manovra:
i campi da cui dovrebbero saltar fuori questi soldi sono soprattutto il taglio delle prestazioni specialistiche, del 15%, a breve verrà stilata una lista delle situazioni e delle patologie dove analisi e approfondimenti sono necessari, altrimenti si pagherà di tasca propria. Verranno tagliati gli stipendi ai medici che prescrivono esami “inutili”.
Si potrebbe commentare che molto difficilmente riusciranno a stilare protocolli così ampi in così poco tempo che abbiano validità scientifica.
Si potrebbe commentare che se si riesce a studiare protocolli che facciano rientrare tutte le situazioni possibili, perchè spendiamo così tanti soldi nella formazione di nuovi medici? basterebbe un software che applica i protocolli prestabiliti.
L'evidenza è che questo punto sia palesemente un nuovo superticket che farà ricadere sul paziente un ulteriore parte dei servizi che ora il SSN eroga.
Altri soldi verranno risparmiati sul controllo delle strutture in rosso, il taglio della rete ospedaliera: 5% di beni e servizi (dunque strutture e personale in meno), la riduzione della degenza media e del tasso di ospedalizzazione. Solita solfa.
Stante quello che è trapelato su questa manovra non ci sono dubbi nell'affermare che si tratti di un ulteriore scellerato taglio su un sistema al collasso che non riesce più a sopperire ai bisogni della popolazione.
E' tra l'altro indubbio il bisogno che questo sistema ha di diventare più efficiente, ed è anche indubbia la strada che si dovrebbe intraprendere: basterebbe seguire il tragitto segnato dalle regioni più virtuose, come la Toscana e l'Emilia Romagna. Qui l'investimento è stato sulle case della salute, dunque piccoli centri sparsi sul territorio che lavorano sull'assistenza di base e la prevenzione, riducendo il tasso di ospedalizzazione a monte, non a valle.
E' però vero che questo modello non risponde ai criteri richiesti, fare cassa e farla subito, sono politiche più a lungo corso, ma la tornata elettorale si avvicina e i diktat vanno rispettati, ecco perchè si opta per queste “scorciatoie”.
La prospettiva è dunque un progressivo smantellamento del mondo assistenziale pubblico a favore della sanità privata, campo in cui abbiamo una delle spese maggiori d'Europa.
Non si può dunque non pensare a quelle piccole sacche di resistenza sanitaria che stanno nascendo in giro per l'Italia: l'ambulatorio popolare napoletano tra le mura di Zero81, quello romano di Strike “Ambu Lanti” e quello milanese. Queste esperienze vedono la sanità come un bene comune, non dunque l'ennesimo salvadanaio per la spending review o il barone di turno, ma un bene gestito in comunione tra operatori della salute ed utenza, così come è stata difesa la struttura del Ce.F.I. Riuscendo a portare ai vari presidi sotto la regione non solo i lavoratori che avrebbero perso il lavoro, ma anche quelle famiglie che avrebbero dovuto fare 30 km 2 volte a settimana per lo stesso servizio, perchè a tale distanza era il più vicino centro di logopedia per bambini (metti link vertenza clap sul cefi) si è riusciti ad impedire la chiusura della struttura.
Perchè se tagliano sulla sanità tagliano sulla salute di tutt*.
di Lorenzo D'Innocenzo* (* assemblea di Medicina la Sapienza)