Dinamo Press
03 07 2015
La campagna mediatica contro Tsipras e Varoufakis continua a definirli irresponsabili e irrazionali. Il "senso di responsabilità" della Troika impone di non finanziare le pensioni minime e non tassare i profitti oltre mezzo milione.
Oggi 3 luglio ore 19.00 piazza Farnese: scendiamo in piazza per sostenere il popolo greco contro i ricatti della Troika!
La campagna mediatica contro il governo Tsipras è partita senza alcuna remora. Tra editoriali, corsivi, amache, tavole rotonde, online, su carta stampata, in tv o in radio la battaglia è all’ultimo commento.
Varoufakis e Tsipras sono degli irresponsabili, irrazionali, incapaci, approfittatori e avventuristi. Il popolo non è in grado di decidere, non può comprendere o è semplicemente stato raggirato. La democrazia è rappresentativa, invocare il referendum è plebiscitarsimo, tutto il contrario della democrazia diretta.
La Grecia è un paese che non vuole prendersi le proprie responsabilità e non vuole accettare le proprie colpe. Al contrario – chiosa Renzi – l’Italia è fuori pericolo perché ha portato avanti le riforme, come distruggere ogni diritto e garanzia sul mercato del lavoro e per le pensioni.
Se la Grecia è arrivata a questo punto è certamente tutta colpa di Tsipras e Varoufakis, non certo della sua classe dirigente precedente, corrotta e falsificatrice, con cui la Troika però non ha mai avuto problemi a trattare. Non è colpa di imprenditori e oligarchi corrotti che hanno svenduto imprese e infrastrutture senza pensarci due volte. La Grecia, come gran parte dei paesi del sud si ritrova tra le peggiori classi dirigenti europee, che non hanno a cuore il bene comune del proprio paese, tantomeno di chi ci vive, figurarsi della costruzione di uno spazio comune europeo. Ma rimane colpa di Tsipras e del suo governo che sogna di fare della Grecia una piccola patria socialista.
Non è certo colpa dei parametri di Maastricht, della costruzione di un sistema monetario tutto pensato a partire dal modello tedesco, di un’ unione economica che non ha mai trovato fondamento in un progetto politico. Sicuramente il problema non sono stati i salvataggi delle banche private, che per anni hanno speculato sui mercati finanziari internazionali, vendendo pacchetti spazzatura come se fossero azioni di tripla A. Sarebbe quindi inutile trovare delle regole per un mercato finanziario che non ne segue nessuna, se non quella del massimo profitto. Sarebbe certo senza senso ripristinare la divisione tra banche di investimenti e banche di risparmio. Senza alcun dubbio non aiuterebbe maggiore trasparenza e responsabilità per banche e fondi di investimento, che con il loro comportamento sui mercati finanziari hanno causato la crisi nel lontano 2008.
Seraphim Seferiades sulla campagna mediatica contro Syriza (02.07.15., Athens)
(da athens.blockupy.org)
No, ricordiamocelo bene: la crisi è colpa della Grecia! E in particolare degli irresponsabili Tsipras e Voraiufakis che con il loro atteggiamento non hanno permesso a Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale di continuare a gestire gli accordi in maniera del tutto unilaterale. Incredibile! Il governo greco vorrebbe decidere su questioni riguardanti iva, tassazione e pensioni del proprio paese! Non solo, il governo greco vuole far decidere tutto ciò ai greci stessi, tramite un referendum!
Forse, però dobbiamo dare in parte ragione a tutti questi commentatori, che così tante parole hanno scritto sulla psicologia del duo Tsipras - Varoufakis. Bisogna essere un po’ irresponsabili e irrazionali per sostenere non solo che le regole di questo gioco vadano completamente cambiate, ma che è il gioco stesso che non funziona più.
La responsabilità della Troika impone di non finanziare le pensioni minime e non tassare i profitti oltre mezzo milione – così come proposto nell’accordo del 25 giugno. Se questa è responsabilità allora noi saremo per sempre irresponsabili e irrazionali …e speriamo che i greci - nonostante la pesantezza imposta da tale responsabilità sulle loro vite – continuino sulla strada dell’irrazionalità! Non sia mai che tali scelte irresponsabili contribuiscano alla costruzione di una nuova razionalità, fondata sul bene comune e non più su quello di pochi.
Vanebix
Dinamo Press
01 07 2015
Perchè questi attentati proprio in Tunisia? Una riflessione sulla strage, gli attacchi dell'Isis e la fase politica dopo le rivoluzioni. Leggi anche ""Noi stiamo con le libertà" a cura del COSPE e "Dopo la primavera difendiamo l'estate" di Ya Basta.
Sono settimane che rimando la scrittura di un articolo piuttosto cupo sulla Tunisia, nel quale avrei voluto parlare degli accordi commerciali con gli USA, del peso del debito, della decisione del Tribunale Amministrativo di sospendere la confisca dei beni della famiglia di Ben Ali, della mobilitazione cittadina contro la gestione opaca delle risorse energetiche, delle proteste ferocemente represse nella città meridionale di Douz. Ma all’improvviso, ancora una volta, la violenza jihadista fa eclissare questa società viva, depressa e ignorata, con le sue proprie lotte e i suoi arretramenti, e costringe ad inquadrarla nel panorama della guerra cosmica, generale, contro il terrorismo.
Possiamo dire che questo è sempre il primo obiettivo di un’organizzazione che si guarda nello specchio deformante dell’islamofobia: come l’islamofobia, lo Stato islamico persegue una guerra eterna tra il Bene e il Male; come l’islamofobia, considera nemici tutti quelli che -musulmani o no- si rifiutano di andare ad ingrossare le sue fila. Ma mentre lo Stato Islamico, con i suoi scarsi mezzi e i suoi soldati spontanei e solitari, manda in ogni direzione un messaggio universale, ragiona piuttosto bene in termini di strategie locali e sa scegliere i propri obiettivi.
Perché la Tunisia? Perché è l’unico Paese della regione in cui non regnano il caos o la dittatura (o entrambe le cose, come in Siria), ovvero quelle situazioni in cui il jihadismo si gonfia come la schiuma. Gli USA hanno creato queste situazioni in Iraq con l’invasione e la conseguente distruzione; Bachir El Assad le ha create in Siria, disintegrando quella società con i suoi crimini atroci; il generale Sisi le incoraggia con una repressione feroce e indiscriminata. Il jihadismo ama le guerre civili e le dittature, come quasi tutti gli attori che si dividono la torta nella regione: dall’Arabia Saudita alla Russia, da Israele all’Iran, e -ovviamente- l’Unione Europea, il cui comportamento ipocrita alimenta, più o meno attivamente, l’islamofobia e l’islamismo, fratelli siamesi indivisibili che occupano tutto lo spazio che viene invece chiuso ai popoli e alle loro istanze di giustizia e di dignità.
In definitiva, il jihadismo non attenta alla Tunisia perché esiste, ma perché vuole arrivare a esistere. Quali sono gli ostacoli? La pace e la democrazia. L’ “eccezione tunisina”, gravemente inadempiente nei suoi obiettivi di cambiamento, ha comunque un grande valore comparativo nel quadro di un disordine regionale e lo Stato Islamico vuole passarci su un colpo di spugna. Ancora una volta, il bersaglio è ben scelto. Assassinare dei turisti significa attentare all’Occidente -che si cerca di radicalizzare- e al tempo stesso alla popolazione tunisina, già gravemente colpita dalla crisi economica. Il turismo rappresenta il 15% del PIL e mantiene, bene o male, migliaia di giovani, delusi dalla rivoluzione e spinti nuovamente verso la disoccupazione e la miseria esistenziale che sono state le molle della rivoluzione del 2011. In realtà, tutto quello che il Governo fa contro lo sviluppo economico e la giustizia sociale, a detrimento delle libertà democratiche, favorisce il jihadismo.
L’Isis cerca guerra, povertà e caos: il governo non dovrebbe aggravare la situazione. L’Isis cerca dittatura: il governo dovrebbe proteggere la minima democrazia conquistata fino ad oggi. Purtroppo l’Isis non è solo su questo fronte: ci sono numerose forze, interne ed esterne, che lavorano per seppellire in Tunisia quei movimenti popolari che lì sono nati e che, seppure per pochi giorni, hanno virtualmente messo fuori gioco le dittature, i colonialismi e il jihadismo terrorista. L’Isis è una delle facce della controrivoluzione vittoriosa, quella controrivoluzione che rappresenta il contrario della rivoluzione: rappresenta, se vogliamo, una controrivoluzione, nel senso che molti di quei giovani che si sono sollevati contro la tirannia ed hanno sostenuto l’assemblea costituente, oggi aspettano fumando e bevendo (in senso letterale) che arrivi lo Stato islamico con le sue droghe più forti.
Come ben ricorda l’antropologo francese Alain Bertho, il jihadismo post-rivoluzionario non può essere definito come una radicalizzazione dell’Islam ma, al contrario, un’islamizzazione della radicalità. I giovani di questa regione (non parliamo degli europei!) sono radicali, e se non si permette loro di essere radicalmente democratici, saranno radicalmente antidemocratici. E’ un fenomeno generale, così come sono generali la globalizzazione, la crisi economica e la perdita delle libertà politiche.
Una riflessione generale sulla quale conviene soffermarsi: l’Isis -secondo una fatwa recente- considera nemici tutti quelli che non sono musulmani sunniti wahabiti, e non abitano in zone controllate dalla stessa Isis; eppure, possiamo stabilire una graduatoria tra le vittime. Le prime vittime del radicalismo islamizzato sono, con accecante evidenza, gli abitanti della zona, in maggioranza musulmani. Seguono le minoranze musulmane delle città europee, criminalizzate da protocolli di polizia, sospetti collettivi e pressioni mediatiche che le dipingono sempre più come nemici interni, reggendo così il gioco ai terroristi. Possiamo dire che l’Isis agisce soprattutto in Francia perché, essendo questo il paese più islamofobo d’Europa, sa che alimentando l’islamofobia crescono anche i suoi sostenitori.
Se un francese non è abbastanza francese perché è musulmano -e ogni musulmano, che sia francese o no, è un potenziale terrorista- le comunità più vulnerabili cessano di essere il banco di prova dello Stato di Diritto: la loro dissoluzione si giustifica in quanto capri espiatori del radicalismo islamofobico, complice evidente del radicalismo islamizzato. Un jihadista stupido è sempre più intelligente di un islamofobo intelligente (che regge il gioco) e un islamofobo normale è sempre più pericoloso di un jihadista fanatico, perchè l’islamofobia è un fanatismo istituzionalizzato, normalizzato, generalizzato. In Europa sappiamo per esperienza cosa succede quando il delirio si normalizza in forma di governo.
Tra le vittime dell’Isis gli europei sono all’ultimo posto, pur essendone i maggiori responsabili. Non è facile per il mondo musulmano credere che stiamo davvero combattendo l’Isis quando dal 1945 appoggiamo uno Stato islamico potentissimo: l’Arabia Saudita, una delle forze controrivoluzionarie che hanno fatto fallire le cosiddette “primavere arabe”. E non è facile credere che stiamo difendendo la democrazia quando, dopo aver sostenuto tutte le dittature rovesciate nel 2011, oggi l’Europa omaggia il golpista generale Sisi, con i suoi 40.000 prigionieri politici, i suoi 4.000 assassinati e i suoi 1.200 condannati a morte. Quando, nel 2011, I popoli della regione voltarono le spalle ai tiranni e a Al Qaeda, l’Europa voltò le spalle ai popoli della regione. “Quando il ramo su cui siamo seduti sta per rompersi, tutti si mettono a fabbricare seghe”, scriveva Brecht. Questo è stato sempre il gioco preferito dell’Europa, dentro e fuori dalle nostre frontiere. C’è da aver paura. L’Europa continua a fare lo stesso gioco.
L’articolo originale in spagnolo è uscito il 27 giugno 2015 sul sito di cuartopoder
*Traduzione dallo spagnolo a cura di Giovanna Barile, articolo pubblicato su tunisiainred.org
di Santiago Alba Rico
Dinamo Press
01 07 2015
Il 3 luglio piazze in tutta Europa contro l'austerità e a sostegno del popolo greco.“E’ una questione di potere e democrazia molto più che di soldi ed economia” scrive Stiglitz e lo ripetono diversi commentatori: aver chiamato per il referendum ha trasformato dei negoziati a porte chiuse sulla crisi finanziaria di uno stato in un problema politico generale. Non solo, aver chiamato per il referendum sposta la scelta dai capi di stato e di governo, dai direttori di agenzie non elette come BCE e FMI, al popolo, che fino ad oggi ha pagato sulla propria pelle tutte quelle scelte: i greci.
Per Renzi questo referendum non è altro che un derby tra l’euro e la dracma, per altri è una decisione tra Europa e stato sovrano: insomma si cerca di farlo passare come una scelta tra futuro e passato. Al contrario, ci sembra che questo referendum almeno in parte voglia ritornare a dare significato alla democrazia. Si potrà contestare a Tsipras di aver deciso di inserire prima il no che il si sulla scheda elettorale, di non far votare sull’ultimissimo accordo, ma sul precedente. Ma la scelta del governo di non prendere una decisione definitiva sull’accordo con la Troika senza aver consultato il popolo ci sembra senza precedenti negli anni della crisi.
In effetti, il primo ministro Papandreou ci aveva provato nel 2011 ad indire un referendum sul piano di salvataggio per la Grecia, ma dopo un ondata di ribassi in tutte le borse europee era stato costretto a fare marcia indietro e ad aprire la crisi di governo. Dopodiché venne formato un governo tecnico con a capo Papademos, ex presidente della Banca centrale greca ed ex vicepresidente della Bce. Di quel referendum, come di questo, si disse che era una scelta irrazionale e irresponsabile e che un voto popolare non era adeguato per scegliere su questioni del genere. Eppure quando nel 2008 il governo svedese convocò un referendum per aderire o meno all’euro, non ci furono commenti simili sull’irrazionalità di quella scelta politica. Ma è evidente oramai che non tutti i popoli e non tutti gli stati valgono uguale nell’Unione Europea! Altro che uguali nelle differenze!
I greci devono decidere su un accordo che non si è riuscito a trovare. A fine febbraio il governo greco era riuscito ad ottenere una proroga del programma di aiuti di 4 mesi, sapendo già che a giugno si avvicinavano le scadenze dei debiti più importanti. Come avevamo scritto, da febbraio in poi il negoziato è diventato infinito. Riunioni, cene, meeting, si susseguono, tra manipolazioni mediatiche e fughe di notizie, tra dichiarazioni inalberate di Schauble e sorrisi tirati di Varoufakis. Ma di fronte all’ennesima richiesta del FMI, Tsipras ha deciso di non continuare, non siglare l’accordo e indire il referendum.
I punti di scontro maggiore sono stati:
- le pensioni: secondo la Troika il sistema previdenziale greco non è sostenibile, perché non completamente contributivo. Quindi tutti i sostegni statali al sistema pensionistico – anche quelli per le pensioni minime – devono essere completamente eliminati e l’età pensionabile deve essere innalzata entro il 2022 a 67 anni.
- l’Iva: secondo la Troika l’iva deve essere innalzata al 23%, eliminando la maggior parte delle esenzioni per prodotti al 13% e al 6%. Un tema di discussione è stato, ad esempio, l’esenzione al 6% per tutto il “basic food” che secondo l’FMI doveva essere eliminata, così come non poteva essere mantenuta l’esenzione per le isole.
- la contrattazione nazionale: secondo la Troika l’eliminazione della contrattazione nazionale deve essere mantenuta, così come deciso dallo scorso governo.
- la tassazione: la Grecia insiste su una tassa una tantum del 12% sui profitti delle imprese superiori a mezzo milione di euro per il 2014, ma sia la Commissione che l’FMI sono fortemente contrari. Perché una tassa una tantum e retroattiva non sarebbe risolutiva per le casse dello stato.
- la ristrutturazione del debito: non è mai entrata nel tavolo di trattativa, nonostante per il governo greco fosse un punto centrale per poter effettivamente cominciare a porre fine alla crisi economica e finanziaria del paese.
«Cittadini greci, Vi invito a decidere, con la sovranità e dignità che vuole la storia greca, se dovremmo accettare l’esorbitante ultimatum che chiede una rigorosa e umiliante austerità senza fine, e senza la prospettiva di poterci reggere in piedi, socialmente e finanziariamente. Dobbiamo rispondere all’autoritarismo e alla dura austerità con la democrazia, con la calma e con decisione».
Dopo il discorso del Primio Ministro greco l’Eurogruppo ha deciso di essere ancora più inflessibile: il programma di aiuti non verrà esteso, nemmeno di un giorno, mentre la banca centrale europea ha congelato l’Emergency liquidity agreement, unica forma di finanziamento rimasta per le banche greche. Così dal 29 giugno le banche sono chiuse e si possono ritirare solo 60 euro a persone. Insomma il voto del referendum avviene sotto il ricatto delle istituzioni europee e della Bce, che hanno chiuso tutti i rubinetti dei prestiti senza alcuno sconto, nemmeno di un giorno.
La maggior parte dei programmi per “salvare la Grecia” sono stati utilizzati per salvare il sistema bancario privato – così da salvare in particolare banche tedesche e francesi molto esposte nei confronti delle banche greche – spostando i debiti dal sistema privato a quello pubblico. Il 5 luglio si decide se questo piano di salvataggio deve essere accettato o meno: un piano che prevede tassazione per i profitti oltre 500 milioni di euro e allo stesso tempo vieta qualsiasi aiuto pubblico per le pensioni minime, si vota senza poter aver più accesso ai propri risparmi e senza sapere se si potrà ricevere la prossima pensione.
Ogni cittadino greco deve avere un grande coraggio per votare NO. Ma ogni cittadino greco deciderà il 5 luglio anche per tutta l’Europa: o continuiamo a vivere sotto il ricatto dell’Europa che salva le banche e i mercati finanziari senza imporgli nessuno regola, o decidiamo che tutto questo deve cambiare. Il 5 luglio il NO è per il cambiamento dell’Europa.
di Vanebix
Dinamo Press
30 06 2015
La reazione europea al referendum indetto dal governo greco svela l'incompatibilità tra Europa neoliberale e democrazia. Ma Syriza non può farcela senza il sostegno di un movimento europeo. Saremo in piazza il 3 luglio, a Roma come in tutta Europa, dalla parte della Grecia che dice OXI (NO), per costruire collettivamente la resistenza alla dittatura finanziaria.
I Signori della moneta, europei e globali, vogliono lo scalpo. Lo scalpo di Tsipras, di Varoufakis, di Syriza e, chiaramente, dei poveri. Il segnale deve essere netto, inequivocabile: non è possibile alzare la testa, non c'è alternativa alle politiche neoliberali, nonostante la crisi ne abbia svelato il carattere violento, distruttivo, sbagliato. A più riprese, e in modo autocritico, il FMI ha ammesso gli errori fatti in Grecia. L'austerity non ha curato la malattia, ma la ha aggravata, tutti gli indici parlano chiaro: l'aumento del rapporto debito/PIL (180%), l'impoverimento drammatico della popolazione ellenica e il dilagare della disoccupazione (27%), ecc. L'autocritica può essere anche resa esplicita, ma di certo un governo anti-austerity come quello greco non può imporre un'inversione di rotta. Sarebbe un precedente troppo pericoloso.
Di più, e lo chiariscono le correzioni in rosso alla proposta avanzata da Tsipras ai creditori: bisogna continuare a dare una lezione ai poveri e lasciare impunite le rendite, liberi i ricchi di arricchirsi. Un atto di guerra vero e proprio, la guerra di classe del Capitale globale e finanziario contro chi prova ad alzare la testa, contro chi vuole contrapporre la democrazia al debito. La guerra dell'Europa ordoliberale, a trazione tedesca, contro l'Europa sociale e solidale. È evidente, nella drammatica vicenda greca si gioca per intero il futuro dell'Unione. Non tanto e non solo perché la Grexit metterebbe a rischio la tenuta dell'euro, ma perché un'Europa che schiaccia e caccia la Grecia – e intanto respinge i rifugiati alle frontiere – è una macchina di morte, oltre a essere un «gabbia d'acciaio» monetaria.
Tsipras e il governo greco, di fronte alla violenza dei creditori, hanno risposto nel modo più giusto. Il referendum, il cui esito non è per nulla scontato, riapre una breccia democratica contro la dittatura della Troika. Una breccia che sarà combattuta senza sosta, a partire dal 'no' della BCE alla richiesta di prolungamento dei prestiti fino al 5 luglio. Imponendo de facto la chiusura cautelativa delle banche elleniche, le tecnocrazie puntano a sfiancare i greci, a screditare Syriza e il suo governo, ad aumentare il panico, agevolare la vittoria del 'sì'. L'intervento di stamane di Juncker – lo stesso che ha istituito i paradisi fiscali nel suo Lussemburgo, favorendo l'evasione sistematica di decine di corporations, lo stesso che ha incassato senza fiatare l’irridente rigetto del piano di distribuzione delle quote dei rifugiati – non lascia dubbi. Balbetta il bugiardo che non intendeva toccare salari e pensioni, ma tradisce anche agitazione. I Signori della moneta non possono tollerare la democrazia: lo sapevamo, lo diciamo e lo scriviamo da anni, ora il mondo intero non può non capire.
Varie ideologie che attraversano i movimenti anti-capitalisti, soprattutto in Italia, ritennero fatto marginale la vittoria di Tsipras e il miracolo di Syriza. Gli eventi di queste ore liberano il campo dalla fuffa e ci auguriamo impongano un silenzio riflessivo. Altrettanto, chiariscono tutti i limiti della generosa resistenza greca: la «rottura costituente» di Syriza, per essere efficace, deve estendersi sul piano europeo; non c'è rottura costituente senza movimenti autonomi capaci di mettere in questione i rapporti di forza. È evidente che non esistono scorciatoie, solo la diffusione continentale di una doppia rottura, dall'alto e dal basso, può rifondare l'Europa federale contro l'Europa della moneta e della morte.
Dinamo Press
29 06 2015
Perchè questi attentati proprio in Tunisia? Perchè L’ “eccezione tunisina”, gravemente inadempiente nei suoi obiettivi di cambiamento, ha comunque un grande valore comparativo nel quadro di un disordine regionale e lo Stato Islamico vuole passarci su un colpo di spugna.
Sono settimane che rimando la scrittura di un articolo piuttosto cupo sulla Tunisia, nel quale avrei voluto parlare degli accordi commerciali con gli USA, del peso del debito, della decisione del Tribunale Amministrativo di sospendere la confisca dei beni della famiglia di Ben Ali, della mobilitazione cittadina contro la gestione opaca delle risorse energetiche, delle proteste ferocemente represse nella città meridionale di Douz. Ma all’improvviso, ancora una volta, la violenza jihadista fa eclissare questa società viva, depressa e ignorata, con le sue proprie lotte e i suoi arretramenti, e costringe ad inquadrarla nel panorama della guerra cosmica, generale, contro il terrorismo.
Possiamo dire che questo è sempre il primo obiettivo di un’organizzazione che si guarda nello specchio deformante dell’islamofobia: come l’islamofobia, lo Stato islamico persegue una guerra eterna tra il Bene e il Male; come l’islamofobia, considera nemici tutti quelli che -musulmani o no- si rifiutano di andare ad ingrossare le sue fila. Ma mentre lo Stato Islamico, con i suoi scarsi mezzi e i suoi soldati spontanei e solitari, manda in ogni direzione un messaggio universale, ragiona piuttosto bene in termini di strategie locali e sa scegliere i propri obiettivi. Perché la Tunisia? Perché è l’unico Paese della regione in cui non regnano il caos o la dittatura (o entrambe le cose, come in Siria), ovvero quelle situazioni in cui il jihadismo si gonfia come la schiuma. Gli USA hanno creato queste situazioni in Iraq con l’invasione e la conseguente distruzione; Bachir El Assad le ha create in Siria, disintegrando quella società con i suoi crimini atroci; il generale Sisi le incoraggia con una repressione feroce e indiscriminata. Il jihadismo ama le guerre civili e le dittature, come quasi tutti gli attori che si dividono la torta nella regione: dall’Arabia Saudita alla Russia, da Israele all’Iran, e -ovviamente- l’Unione Europea, il cui comportamento ipocrita alimenta, più o meno attivamente, l’islamofobia e l’islamismo, fratelli siamesi indivisibili che occupano tutto lo spazio che viene invece chiuso ai popoli e alle loro istanze di giustizia e di dignità.
In definitiva, il jihadismo non attenta alla Tunisia perché esiste, ma perché vuole arrivare a esistere. Quali sono gli ostacoli? La pace e la democrazia. L’ “eccezione tunisina”, gravemente inadempiente nei suoi obiettivi di cambiamento, ha comunque un grande valore comparativo nel quadro di un disordine regionale e lo Stato Islamico vuole passarci su un colpo di spugna. Ancora una volta, il bersaglio è ben scelto. Assassinare dei turisti significa attentare all’Occidente -che si cerca di radicalizzare- e al tempo stesso alla popolazione tunisina, già gravemente colpita dalla crisi economica. Il turismo rappresenta il 15% del PIL e mantiene, bene o male, migliaia di giovani, delusi dalla rivoluzione e spinti nuovamente verso la disoccupazione e la miseria esistenziale che sono state le molle della rivoluzione del 2011. In realtà, tutto quello che il Governo fa contro lo sviluppo economico e la giustizia sociale, a detrimento delle libertà democratiche, favorisce il jihadismo. L’Isis cerca guerra, povertà e caos: il governo non dovrebbe aggravare la situazione. L’Isis cerca dittatura: il governo dovrebbe proteggere la minima democrazia conquistata fino ad oggi. Purtroppo l’Isis non è solo su questo fronte: ci sono numerose forze, interne ed esterne, che lavorano per seppellire in Tunisia quei movimenti popolari che lì sono nati e che, seppure per pochi giorni, hanno virtualmente messo fuori gioco le dittature, i colonialismi e il jihadismo terrorista. L’Isis è una delle facce della controrivoluzione vittoriosa, quella controrivoluzione che rappresenta il contrario della rivoluzione: rappresenta, se vogliamo, una controrivoluzione, nel senso che molti di quei giovani che si sono sollevati contro la tirannia ed hanno sostenuto l’assemblea costituente, oggi aspettano fumando e bevendo (in senso letterale) che arrivi lo Stato islamico con le sue droghe più forti. Come ben ricorda l’antropologo francese Alain Bertho, il jihadismo post-rivoluzionario non può essere definito come una radicalizzazione dell’Islam ma, al contrario, un’islamizzazione della radicalità. I giovani di questa regione (non parliamo degli europei!) sono radicali, e se non si permette loro di essere radicalmente democratici, saranno radicalmente antidemocratici. E’ un fenomeno generale, così come sono generali la globalizzazione, la crisi economica e la perdita delle libertà politiche.
Una riflessione generale sulla quale conviene soffermarsi: l’Isis -secondo una fatwa recente- considera nemici tutti quelli che non sono musulmani sunniti wahabiti, e non abitano in zone controllate dalla stessa Isis; eppure, possiamo stabilire una graduatoria tra le vittime. Le prime vittime del radicalismo islamizzato sono, con accecante evidenza, gli abitanti della zona, in maggioranza musulmani. Seguono le minoranze musulmane delle città europee, criminalizzate da protocolli di polizia, sospetti collettivi e pressioni mediatiche che le dipingono sempre più come nemici interni, reggendo così il gioco ai terroristi. Possiamo dire che l’Isis agisce soprattutto in Francia perché, essendo questo il paese più islamofobo d’Europa, sa che alimentando l’islamofobia crescono anche i suoi sostenitori. Se un francese non è abbastanza francese perché è musulmano -e ogni musulmano, che sia francese o no, è un potenziale terrorista- le comunità più vulnerabili cessano di essere il banco di prova dello Stato di Diritto: la loro dissoluzione si giustifica in quanto capri espiatori del radicalismo islamofobico, complice evidente del radicalismo islamizzato. Un jihadista stupido è sempre più intelligente di un islamofobo intelligente (che regge il gioco) e un islamofobo normale è sempre più pericoloso di un jihadista fanatico, perchè l’islamofobia è un fanatismo istituzionalizzato, normalizzato, generalizzato. In Europa sappiamo per esperienza cosa succede quando il delirio si normalizza in forma di governo. Tra le vittime dell’Isis gli europei sono all’ultimo posto, pur essendone i maggiori responsabili. Non è facile per il mondo musulmano credere che stiamo davvero combattendo l’Isis quando dal 1945 appoggiamo uno Stato islamico potentissimo: l’Arabia Saudita, una delle forze controrivoluzionarie che hanno fatto fallire le cosiddette “primavere arabe”. E non è facile credere che stiamo difendendo la democrazia quando, dopo aver sostenuto tutte le dittature rovesciate nel 2011, oggi l’Europa omaggia il golpista generale Sisi, con i suoi 40.000 prigionieri politici, i suoi 4.000 assassinati e i suoi 1.200 condannati a morte. Quando, nel 2011, I popoli della regione voltarono le spalle ai tiranni e a Al Qaeda, l’Europa voltò le spalle ai popoli della regione. “Quando il ramo su cui siamo seduti sta per rompersi, tutti si mettono a fabbricare seghe”, scriveva Brecht. Questo è stato sempre il gioco preferito dell’Europa, dentro e fuori dalle nostre frontiere. C’è da aver paura. L’Europa continua a fare lo stesso gioco.
L’articolo originale in spagnolo è uscito il 27 giugno 2015 sul sito di cuartopoder
*Traduzione dallo spagnolo a cura di Giovanna Barile, articolo tratto da tunisiainred.org
Dinamo Press
29 06 2015
La parola gli operatori sociali. Assemblea pubblica mercoledì 1 luglio ore 10:00 in viale Manzoni 16, sotto il V Dipartimento alle Politiche Sociali
Il sistema d’accoglienza di questo Paese e soprattutto di questa città costringe gli operatori sociali dei centri per migranti, richiedenti asilo e rifugiati a lavorare in condizioni di forte precarietà, sfruttamento e ricatto continuo. Ritardi nei pagamenti, mancanza di chiarezza sulle mansioni da svolgere, non riconoscimento delle competenze individuali, richiesta di estrema flessibilità, assenza di controlli sanitari e sui contratti sono solo alcune delle problematiche che questi lavoratori affrontano ogni giorno.
Di certo non basta “Mafia Capitale” a risolvere simili problemi.
Anzi, in molti casi le conseguenze di questa inchiesta rischiano di ricadere proprio sulle spalle degli operatori. Infatti, mentre le cooperative indagate continuano a vincere nuovi appalti per aprire nuovi centri, il pagamento degli stipendi è bloccato da mesi e non sembra, a livello istituzionale, esserci la minima idea di come organizzare l'accoglienza in questa città.
A.L.A. (Assemblea dei Lavoratori e delle Lavoratrici dell'Accoglienza) ragiona da mesi sul sistema d’accoglienza, convinta che lo sfruttamento di operatori e ospiti sia frutto degli stessi meccanismi, funzionali a garantire il profitto delle cooperative.
Nelle ultime settimane, in molti tra media main stream e figure istituzionali hanno preso parola rispetto agli sviluppi dell’inchiesta, che ha coinvolto i principali soggetti che accumulano profitti sull’accoglienza romana. Pensiamo ci sia una voce mancante: quella di chi lavora nei centri, di chi vive sulla propria pelle le storture del sistema d’accoglienza e che non vuole più rimanere in silenzio.
Per questo, MERCOLEDÍ 1 LUGLIO alle ore 10:00 saremo sotto l’Assessorato alle politiche sociali, in viale Manzoni 16.
Vogliamo creare uno spazio di confronto e di denuncia rispetto a condizioni di lavoro per noi inaccettabili: sfruttamento quotidiano del nostro lavoro per cui siamo costantemente demansionati rispetto alla nostra professionalità e formazione; assenza o carenza di controlli sanitari in deroga a qualsiasi basilare norma di sicurezza; nessuna garanzia sui contratti che nella maggior parte dei casi arrivano dopo mesi, non rispecchiano la realtà del lavoro che svolgiamo e non garantiscono nessun diritto; mobbing e minacce per chi prova a mettere insieme le diverse voci dei lavoratori sparse nei diversi servizi e tenute volontariamente divise da chi non vuole nessuna forma di autorganizzazione e di tutela dei lavoratori; condizioni d’accoglienza in strutture troppo spesso inadeguate, prive di servizi e in sovraffollamento, funzionali solo a garantire profitti di qualcuno invece di tutelare diritti e dignità delle persone accolte.
Rivendichiamo:
-Il pagamento immediato di tutti gli stipendi arretrati perchè il lavoro sociale non è volontariato e il lavoro gratuito non ci piace!
-La definizione di un mansionario dell’operatore dell’accoglienza che restituisca ai lavoratori tutta la professionalità e le competenze che investe nel suo lavoro;
-la garanzia che non siano i lavoratori a pagare per la corruzione delle cooperative attraverso meccanismi di trasparenza negli affidamenti degli appalti pubblici e di erogazione dei fondi;
-la regolamentazione e il rispetto dei contratti e delle tutele sanitarie come clausola dirimente per accedere ai bandi da parte degli enti gestori;
-la trasformazione radicale del sistema d’accoglienza attraverso il superamento dei megacentri e delle perenni politiche emergenziali, fonte primaria del business e dello sfruttamento di lavoratori e migranti.
Chiediamo:
- l'apertura di un Tavolo con Comune di Roma, Assessorato alle Politiche sociali, Prefettura e Servizio Centrale, perchè vogliamo avere risposte immediate sul futuro dei lavoratori dell’accoglienza a Roma, per sottolineare le criticità del sistema vigente e proporre la nostra idea di accoglienza.
Invitiamo tutti i lavoratori e le lavoratrici dell’accoglienza a partecipare, prendendo parola e raccontando la propria condizione. Invitiamo inoltre i migranti che vivono nei centri, tutti i lavoratori e lavoratrici in mobilitazione, specialmente quelli del terzo settore con cui condividiamo numerose problematiche, le reti anti-razziste e solidali a portare il proprio contributo. Il microfono sarà aperto a tutti quelli che vorranno intervenire.
Potranno partecipare e dimostrare solidarietà alla mobilitazione anche gli operatori che quel giorno saranno di turno o che lavorano fuori Roma, tweettando con l’hashtag operatori1L. Durante la mattinata alcuni di questi tweet saranno letti al microfono.
FERMIAMO LO SFRUTTAMENTO DI LAVORATORI E MIGRANTI!
Dinamo Press
24 06 2015
Sabato scorso a Londra in 250.000 contro l'austerità, un passaggio importante per rilanciare le lotte contro la crisi economica. Un racconto della manifestazione con un'intervista a Craig McVegas di Plan C.
Già prima del secondo insediamento del governo Cameron, diverse università a Londra (Goldsmiths e LSE, UAL, KCL e la SOAS a intermittenza) erano occupate. Da almeno due anni il personale del NHS (il sistema sanitario nazionale), ma anche i cittadini stanno difendendo l’unico servizio pubblico rimasto tale in Uk. Da mesi sempre più forte è ripartita la lotta per il diritto alla casa che ha coinvolto diverse aree soprattutto al sud di Londra (per una sintesi delle azioni di Radical Housing Network clicca qui), e da alcune settimane, anche i lavoratori dei trasporti ferroviari hanno dichiarato scioperi a intermittenza contro la privatizzazione.
Siamo al sesto anno delle politiche di austerity in Uk, i cui effetti sono sempre più visibili nei tagli al welfare (sopratutto benefits a sostegno della disoccupazione e per l’inserimento al lavoro, oppure housing benefits per il sostegno agli affitti) e di privatizzazione ancora più selvaggia di scuole e università, sanità e servizi. Ma il movimento si è intensificato con la vittoria e l’insediamento del secondo governo Cameron, il quale ha vinto con il 37% dei voti ma –grazie al sistema uninominale vigente– ha conseguito la maggioranza assoluta dei seggi e non si regge dunque più su una coalizione come il precedente. Troppo lunga sarebbe ora un’analisi del voto, che risulta di certo più stratificato e complesso rispetto a quello che il risultato finale ci ha consegnato e a cui andrebbero aggiunti altri elementi importanti –dal livello di astensione alla divergenza fra voto popolare e distribuzione dei seggi, che ha svantaggiato i verdi e i populisti di Farage.
La prima mobilitazione espressiva, trasversale e radicale è stata quella del 27 Maggio durante il Queen’s Speech in cui la Regina ha ratificato non solo l’insediamento, ma anche l’interezza del programma di Cameron. Il punto centrale del Queen's speech, infatti, è stato la trasformazione del Regno Unito in una "one nation country", che richiama il progetto di "big society" del 2010: una nazione in cui a chiunque verrà garantita la piena libertà' di scelta in ambito scolastico e lavorativo. La realizzazione della retorica neo-liberale. I punti centrali del manifesto dei conservatori sono invece: realizzare un sistema economico stabile che garantisca una crescita rapida (la più prospera al mondo entro il 2030), più lavoro per tutti (cioè tutti devono lavorare!), meno tasse, lotta all'evasione fiscale, controllo dell'immigrazione, rinegoziazione dei rapporti con la UE, lotta e prevenzione del terrorismo, rendere il welfare più “equo”. Che questi siano gli obiettivi è stato ribadito anche il giorno dopo la manifestazione, quando George Osborne e Iain Duncan Smith hanno sancito che a partire da luglio i benefits verranno tagliati di 12 miliardi di sterline, giustificando la loro scelta con l’intento di fermare “the damaging culture of welfare dependency”. La frase che, secondo la buona educazione inglese, vorrebbe “liberare dalla dipendenza dagli aiuti statali”, tradotta in linguaggio concreto, significa ulteriore marginalizzazione di poveri, precari e disoccupati e aumento vertiginoso delle diseguaglianze. Contro tutto questo, con lo slogan #EndAusterityNow la manifestazione del 20 giugno indetta da The people's assembly a cui hanno aderito davvero la stragrande maggioranza delle realtà in lotta, movimenti, sindacati, gruppi di pressione locali (GBlobal justice, No ttip, Dave the nhs) si è mossa. 250.000 persone, secondo gli organizzatori, hanno attraversato la città da Bank of England a Parliament Square, in contemporanea a Glasgow, Liverpool e Bristol, ma anche al resto d’Europa: da Berlino a Dublino, da Atene a Francoforte… Non è che l’inizio per il movimento in Uk, così come già da mesi sta avvenendo a sciame in tutta Europa!
Abbiamo sentito direttamente la voce di Craig McVegas (@CraigMcVegas), attivista di Plan C e editor di NovaraWire a proposito della manifestazione e delle mobilitazioni inglesi:
D: What are your thoughts on today's demo?
Craig: It was fine for what it was. There's only so much you can hope for with an A to B march. But it was clearly a huge turnout with lots of young people too. From what I saw there were relatively few arrests and the police were less provocative than usual, which is a positive thing.
D: Do you think it has marked the beginning of a new phase for the Uk movements and unions?
It's hard to say. We're only at the beginning of a new parliamentary term, so it's hard to imagine that it would be a quiet few years. As austerity kills more people and tears apart more working class communities, it's likely that more people will want to fight back, but a 'new phase' would have to be defined by new tactics and new political articulations. I'm not sure the main unions are able to offer this. The truth is that for all the talk at the rally (and every rally previously) of using the march as the catalyst for taking the fight back to our communities, these big set-piece demonstrations are often actually more like a finish line in the annual activist calendar, until we do it all over again. Demonstrations are good at attracting large numbers of people, but it's not helpful to tell people to go and organise in their communities if we're not simultaneously doing it ourselves and showing people what community organising looks like.
Dinamo Press
24 06 2015
Vogliamo riflettere sull’esito dei ballottaggi e il palese imbarazzo di Renzi, cui si ribellano perfino gli ardimentosi colonnelli del “secondo cerchio magico”? Ma quando mai! Parliamo di cose serie.
Leggiamo a caso l’Enciclica Laudato si’: «…la cultura dello scarto, che colpisce tanto gli esseri umani esclusi quanto le cose che si trasformano velocemente in spazzatura». Poi guardiamo, con il dovuto ribrezzo, il tweet di Grillo su topi, spazzatura e clandestini o le promesse di Alfano di espellere i Rom illegali o le sbrasate di Salvini sulle ruspe. C’è poco da scegliere con chi schierarsi. Da Francesco (che si firma Franciscus, in calce a un testo tutto italiano, altro che ammiccante tweet di regime!) ci separa una bella differenza teologica ed etica, ma da quegli altri un abisso: siamo due specie zoologiche diverse.
Neppure facciamoci ingannare dal solito coro unanime di lodi al Papa. Il petroliere Jeff Bush ha constatato il proprio contrasto di interessi e da noi hanno rosicato Libero e Il Foglio, ma i politici italiani, nella loro ipocrisia, si sdraieranno a baciare la pantofola: assai a torto, perché quell’Enciclica non è affatto conciliante e multiuso.
Beninteso, è impossibile separare con un taglio il teologico inaccettabile e il politico suggestivo: la “cura della casa comune”, che denuncia spietatamente la catastrofe ecologica incombente, gli effetti perversi della globalizzazione, l'antropocentrismo produttivistico, la "rapidizzazione" dei processi economici e biologici e la finanziarizzazione spinta, discende logicamente dal paradigma della creazione e dell’affidamento all’uomo della “custodia” e non del saccheggio del mondo (vedi tutto il cap. 2). L’etica della condivisione e di un’ascesi gioiosa –che rilancia l’inquietante profetismo francescano e bonaventuriano– si accompagna a un sostanzialismo umanistico che si trascina dietro (non chiudiamo gli occhi) la “naturalità” della famiglia e la condanna di gender, eutanasia e aborto. Non facciamoci una Chiesa e un Papa (per di più transitorio) a nostra immagine, ma prendiamolo per quello che è: un po’ meglio di Renzi e Civati, superfluo dirlo, ma anche di Merkel e Obama, comunque. Sulla stampa italiana, inoltre, è il documento più a sinistra che sia apparso negli ultimi anni, daje!
Il contenuto ecologico specifico dell’Enciclica non ha nulla di new age, a partire dalla fulminante premessa: esiste «un’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta». Non si risolve quindi in aggiustamenti cosmetici e trovate pubblicitarie “intorpidenti”, ma modificando i rapporti di dominio e la distribuzione della ricchezza. È il ricatto del debito (fondamentale l’apporto del citatissimo patriarca ortodosso Bartolomeo, che ben ha in mente il caso greco), non l’obesità o i gabbiani incatramati. La soluzione è una “rivoluzione culturale” e un complesso di pratiche politiche, non gli orti di Michelle Obama. I rifiuti tossici provengono dal consumismo in uno con la speculazione industriale e con la logica della concorrenza neoliberale che produce deliberatamente lo “scarto” di uomini e cose. Al degrado sociale e ambientale si oppone “la destinazione comune dei beni”, in primo luogo il clima minacciato dal riscaldamento globale e dall’inquinamento –un problema politico e non tecnologico - generato dai paesi ricchi e scaricato sui poveri e sui paesi poveri, un problema che richiede la cura radicale del male e non il sollievo locale dei sintomi. Bisogna eliminare «la sottomissione della politica alla tecnologia e alla finanza». Niente di meno!
La difesa dell’acqua pubblica e sicura per tutti (forma basilare del diritto alla vita) o della biodiversità negli ecosistemi si scontra con la logica della rendita e del profitto e con la diseguaglianza internazionale e interna dei singoli paesi configurando una complessiva “inegualità planetaria”: «un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale […occorre] ascoltare tanto il grido della terra quando il grido dei poveri». Chiaro che non si parla di lotta di classe e anzi si sorvola sul problema demografico con annessi e connessi, ma con l’aria che tira ci possiamo pure accontentare della denuncia degli squilibri e del “debito ecologico”. Cui immediatamente fa seguito il debito estero dei paesi poveri «trasformato in uno strumento di controllo»: la cronaca quotidiana ci esime da ulteriori commenti.
La critica di una cieca esaltazione del progresso e della tecnoscienza ripropone tutte le ambiguità delle ideologie laiche in materia, oscillando fra spiritualismo e principio di precauzione per gli Ogm fino alla “decrescita felice”, tuttavia nell’insieme si muove in direzione opposta al liberismo fanatico del TTIP transatlantico e dei più modesti furori semplificanti e trivellanti dello SbloccaItalia renziano. Si afferma realisticamente (pare di sentire Gallino) che «la finanza soffoca l’economica reale» –non pretendiamo che ci si mostri come derivi da essa– e che è illusorio aspettarsi la fine della crisi dalla crescita dei mercati e dalla massimizzazione dei profitti. Certo, la critica del paradigma tecnologico rimanda alla pretesa dell’uomo di sostituirsi a Dio anziché collaborare con Lui nell’opera della Creazione (del resto un papa lo dice più legittimamente dei francofortesi!) e il relativismo è associato allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo in termini inaccettabili, ma le conseguenze lavoristiche (coincidenti con l’ideologia ancor oggi dominante nel sindacato e nella sinistra Pd) sono sempre meglio del JobsAct e della demolizione dello Stato sociale. Ci troviamo in disaccordo, come con i neo-keynesiani, però è un dibattito dignitoso e proficuo. Francesco vale più di Poletti e ha un seguito mondiale maggiore, non solo di follower su tweet.
Al netto della prolissità e del moralismo dell’analisi ecologica, come non apprezzare le conclusioni cui perviene il cap. 5, Alcune linee di orientamento e di azione, § 189? «Il salvataggio a ogni costo delle banche; facendo pagare il prezzo alle popolazioni, senza la ferma decisione di rivedere e rinforzare l’intero sistema, riafferma un dominio assoluto della finanza che non ha futuro e che potrà solo generare nuove crisi dopo una lunga, costosa e apparente cura. La crisi finanziaria del 2007-2008 era l’occasione per sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici e per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria speculativa e della ricchezza virtuale: ma non c’è stata una reazione che abbia portato a ripensare i criteri obsoleti che continuano a governare il mondo». Analisi discutibile, per l’illusione di una riforma interna del capitalismo, ma con chi dovremmo discutere e commisurarci conflittualmente? Con Juncker e Padoan, con Alesina e Giavazzi?
Tenendo conto che è un’Enciclica papale con invocazione finale alla Trinità e riscontrando che i suoi limiti di teoria economica non eccedono quelli di un Piketty, possiamo considerare questo testo un elemento importante per rimettere in discussione le ossessioni neoliberali e per disegnare convergenze praticabili in alcuni campi sui quali ci battiamo –migranti, politiche del lavoro e del territorio, povertà, conflitti urbani. Con il che ci risparmiano, per effetto collaterale, di disquisire sui risultati dei ballottaggi e le angustie del declinante governo Renzi, ancor più sulle disavventure del chirurgo Marino che marcia, scolapasta in testa, vero il 2023, evvai!
di Augusto Illuminati
Dinamo Press
24 06 2015
Milioni di metri cubi di terra strappati al suolo, poi spostati. I rilievi sono livellati, le cime delle collinette limate, i bacini sono colmati, gli incavi interrati.
Il cantiere, orco insaziabile, richiede ogni giorno la sua razione colossale di pietre, legni, piombo, ghisa, ardesia, bronzo… Un cantiere a cielo aperto questa via, questa strada, questa piazza, questa città. Cantieri, appalti, cooperative che seppelliscono denaro, mafia,corruzione,partiti democratici, sindaci in bicicletta. Pezzi di città smontate, ricollocate altrove ai bordi delle terre di mezzo dove non passano mai gli autobus.
Quartieri progettati per assomigliare sempre più ad agglomerati di frammenti fortificati, comunità chiuse, spazi pubblici privatizzati e sottoposti a una continua sorveglianza. Ogni frammento sembra vivere e funzionare autonomamente. In apparenza. Tutti dietro vetro e metallo. Il contatto manca talmente tanto che ci schiantiamo contro gli altri solo per sentirne la presenza.
Non vedere, non sentire, non pensare. Camminare veloci per arrivare prima. Non guardare. Una realtà ovattata illuminata dallo smartphone ci segnala i contorni del degrado urbano. Braghettoni* di ogni tipo che si masturbano nel qualunquismo, sognano di imbiancare i suoi colori, di velare la sua nudità indecorosa.
La città fagocita e nasconde i “rifiuti” che non si vogliono mostrare: spazzatura, uomini,donne,bambini, il degrado ha molte forme ci dicono quelli che schifano Roma e quelli che le urlano contro, verdi Salvini e rossobruni vari.
E allora recintiamola questa città, perimetriamola: muri, transenne, fili spinati, gabbie. Il decoroso recinto si stringe sempre di più. Ma il confine può essere attraversato. Uno, cento, mille varchi, per liberare la città dalle sue false paure.
La città è il luogo dove, con intensità sempre maggiore, si spazializzano le ingiustizie e proliferano le frontiere. Qui si riarticola il conflitto contemporaneo.
La città come scenario narrativo. Come oggetto di riflessione, laboratorio di pratiche politiche, materia di invenzione artistica… La cittadinanza come campo d’azione e non come status.
Le città invisibili dei migranti. Città saccheggiate dal turismo, dalla speculazione edilizia. Le città sentimentali che come mappe ancora da esplorare o già esplorate portiamo nei nostri bagagli che entrano a stento nei tram affollati. Attraversando ogni fermata lungo la inner city, risuona lo stesso blues.
“È delle città come dei sogni: tutto l'immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure.”
Il diritto alla città non si esaurisce nella libertà individuale di accedere alle risorse urbane, ma è il diritto di cambiare noi stessi, collettivamente, cambiando la città.
*(il riferimento è al pittore Daniele Da Volterra e al suo intervento nel 1565 per celare le nudità nell’opera Il Giudizio Universale di Michelangelo)
di Ambra Lancia
Dinamo Press
23 06 2015
Sgomberato in mattinata il Cineteatro Preneste Liberato, prosegue l'attacco di Roma Capitale agli spazi sociali della città e si allunga la lista dei luoghi sgomberati o colpiti da provvedimenti amministrativi. Mentre a Roma prende piede l'ideologia del decoro e la convergenza tra grillismo e destre
Leggi il comunicato degli occupanti
È uno stillicidio senza tregua. Dopo il teatro Valle, l'aggressione ostinata a Scup, al cinema Volturno e alle occupazioni abitative, dopo le ruspe di Ponte Mammolo e la vergogna della Tiburtina, dopo gli assedi amministrativi all'Angelo Mai e al Corto Circuito, i sigilli a Casetta Rossa, le ritorsioni contro Cinema Aquila e l'ex Circolo degli artisti, dopo la prova muscolare dello scorso week end contro la Zona temporaneamente liberata di Roma Comune, arriva oggi l'ennesimo sgombero coatto. Questa volta viene colpito il Cinema Preneste e la sua parte abitativa, un'importante esperienza di cultura indipendente e accoglienza abitativa nel mare speculativo della capitale.
Il sindaco e la sua giunta, a voler essere ottimisti, fanno finta di niente. Paiono prigionieri di un'idea di governo schiacciata sulla gestione della miseria quotidiana di bilancio. Sembrano convinti che la "lezione" di Mafia Capitale consista in una spruzzata di moralismo, qualche poliziotto nei dipartimenti e la privatizzazione strategica delle politiche sociali e dei servizi, con il benestare delle fiaccole legalitarie dei sindacati confederali. Una politica senza politica, assediata dall'alto da Renzi e dai vincoli di bilancio mai messi in discussione, indifferente e ostile a qualsiasi relazione con la città dei beni comuni e del nuovo welfare, perennemente subalterna ai poteri forti (riverniciati) della rendita immobiliare e finanziaria.
Nel frattempo, nella dimensione virtuale e mediatica dei partiti, cresce l'opposizione "senza popolo" dei Cinque Stelle e i rigurgiti razzisti della destra salviniana, mentre la sinistra di governo "discute intensamente", non spostando di un centimetro il segno dell'amministrazione. La "sinistra radicale", invece, è ancora chiusa in laboratorio alla ricerca della formula alchemica, della pozione magica chiamata "Syriza".
Roma è una città stremata e impoverita da un blocco politico, economico e culturale senza precedenti, intrappolata in un gioco della parti che rischia di aprire praterie inattese alle "convergenze parallele" tra populismo grillino e una destra fascista di nuovo aggressiva dopo la tempesta giudiziaria. Corre trasversale l'ideologia del “decoro” che riduce la qualità della vita alla “sicurezza” e alla paranoia contro ogni forma di devianza.
Ancora una volta, solo i movimenti e le reti della città solidale, le esperienze di autogoverno territoriale e mutualismo, le frontiere della cultura indipendente possono far saltare il banco, contrastare l'esito liberista di Mafia Capitale, dare una prospettiva fuori dalle secche dei tagli e dei sacrifici. Per aprire un campo largo di attivazione sociale, un nuovo spazio politico pubblico, che rovesci il rapporto tra alto e basso, tra rappresentanza e sovranità, tra istituzioni e partecipazione, tra comunità locali e diktat europei. L'esordio di Roma Comune è una scommessa in questa direzione.