minima&moralia
23 09 2015
Ho sempre trovato odioso il modo in cui Erri De Luca scrive. Enfatico, ricattatorio, autocelebratico, dannunziano, kitsch. Ho trovato le sue posizioni sulla sua militanza in Lotta Continua narcisistiche e irrispettose per i compagni di allora e per il movimento in generale, oltre che politicamente ingenue, vigliacche, sbagliate.
Qualche anno fa sullo Straniero uscì un pezzo di Vittorio Giacopini durissimo intitolato La politica come estetica e come ginnastica.
Giacopini faceva una disamina senza appello dei suoi testi, citando una serie di espressioni che reso il suo stile così celebrato, i suoi libri così popolari, e che per me al contrario l’hanno screditato come scrittore senza possibilità di appello.
Tipo? Citando a caso dai suoi libri e dai suoi articoli:
“Generazione insorta”,
“La comunità divisa e militante, contagiosa”,
“Recinto degli insorti”, la politica come “atletica leggera degli scontri”
la politica come “vento in faccia”,
“E così avanza il giorno per creste, discese, risalite, passaggi in traversata… Oggi è turno di vita… oggi noi siamo cavalieri senza sella di noi stessi”,
“Le prime volte sperimenti il vento che fanno i corpi in corsa… è vento in faccia, corpi di ragazzi e ragazze schizzano via… dietro arrivano le truppe in divisa….”,
“Ho la faccia stropicciata da parecchie rughe, intorno agli occhi, sulla fronte. È un disegno sommario comune a molti operai…”,
“Il servizio d’ordine di Lotta Continua fu a nostra iscrizione al Novecento… si era al mondo per terminare un’opera, sigillare un secolo visionario e antibiotico. Siamo stati gli ultimi iscritti a un tempo grandioso e sgangherato”,
“Parliamo tra noi con un residuo di comunismo nella voce che sta forse nel modo di versare il vino al vicino e sembra in bocca a noi una lingua persa, come lo yiddish, lingua bruciata dalla gente bruciata….”
“Avevo 18 anni nel 1968 e quello non era il ballo dei debuttanti, ma la tarantella degli scasati, di quelli che erano usciti di casa”,
“Ficcavo le dita nel cavo delle ascelle, poi portavo al naso, ecco veniva l’odore abbrustolito dei lacrimogeni, il frastuono di gridi in una mischia, colpi, qualcuno a terra, sono io, le guardie addosso… rituffo le dita nelle ascelle, ecco l’odore dei lubrificanti bianchi… di fabbrica…”,
“Noi abbiamo trascinato la storia come Orfeo ha fatto con Euridice… Euridice è il nome… di chi cerca e trova dike, giustizia. Siamo stati un movimento agitato da ragioni di giustizia più che da scopi finali di potere”,
“Le generazioni tornano… Questa di adesso, come la tua… è contemporanea di se stessa, estemporanea al resto… Tu la segui, vai dietro alle sue mosse e alle licenze che le autorità si prendono contro di lei. Tu con le tue passate notizie di piazze arrostite affumicate…”
Etc…
Ma è proprio per questo, perché di De Luca penso che sia un intellettuale disonesto e uno scrittore furbo e mediocre, che ritengo assurda, spregevole, ributtante la richiesta della procura di Torino di condannarlo a otto mesi di reclusione per istigazione a delinquere perché ha invitato a sabotare i lavori della Tav – sabotaggio che invece io ritengo legittimo.
Ecco qui: si può essere d’accordo con De Luca sulla battaglia contro la Tav, si può essere allucinati per la richiesta di condanna e carcerazione, e si può pensare che scriva davvero male.
Le parole che non ci piacciono si difendono e si combattono con altre parole, non con i processi.
Tutta la solidarietà a Erri De Luca.
Abbatto i muri
23 09 2015
La lapidazione della settimana è dedicata ad Alice Sabatini, vincitrice del concorso per Miss Italia e autrice di una delle battute più ingloriosamente spiacevoli per il pubblico. Sono tutti fan dei partigiani? Sono consapevoli del fatto che esistevano anche le partigiane? Sanno che in quegli anni si lottava per la liberazione dal nazifascismo? Direi di no. Non tutti. Quello che ho letto in questi giorni è stato puro fango gettato contro una giovane donna con i pretesti più esilaranti. Riderei moltissimo se non ci fosse da piangere.
non bisogna difenderla in quanto donna perché quel che ha detto è indifendibile.
Rammento a lettori e lettrici che mai e poi mai ho difeso una donna perché donna e men che meno ho evitato di difendere uomini soggetti allo stesso tipo di linciaggio.
non bisogna difenderla perché una Miss, ‘sti cazzi, certe cose le deve sapere.
Ma siete tutti diventati giudici che assegnano il Nobel? No, perché da quel che so c’è chi Miss Italia non l’ha seguita mai, chi ha addirittura firmato petizioni per fare chiudere il programma, chi, da sempre, ha considerato le partecipanti solo un branco di oche esibizioniste che fanno tanto male alla lotta per i diritti delle donne. Dunque perché mai all’improvviso vi è venuto questo interesse sui motivi per cui una ragazza deve essere eletta? Come mai vi vedo formulare regole per l’esclusione di un concorso o per la bocciatura di una candidatura?
non bisogna difenderla perché è ignorante e allora possiamo darle della troia, della capra, possiamo dirle di andare a consegnarsi in Siria agli uomini dell’Isis.
La maggior parte della gente che commenta scommetto che sa poco della seconda guerra mondiale. Scommetto anche che tra chi contesta la Miss ci sono un po’ di fascisti che non hanno gran simpatia per i partigiani. Scommetto che sono tante le donne che si sentono in diritto – e non gli pare vero – di poter insultare una bella ragazza che tradisce l’obbligo di clausura morale. Ma a prescindere da quel che sanno, che diritto avete di insultare in questo modo una persona?
non bisogna difenderla perché ha detto che tanto è donna e non doveva fare il militare.
E qui interviene il sentimento misogino e virile di chi vorrebbe dimostrare che le femmine storicamente non sono servite a nulla e che hanno sempre delegato gli uomini per i compiti faticosi e pericolosi. A nessuno viene in mente che questa giovanissima ragazza potrebbe aver detto la prima cosa che le è uscita dalla bocca senza pensare, colta alla sprovvista, essendo la prima a rispondere alla domanda, per me idiota, posta da Amendola, colta dall’emozione e con la sensazione di aver combinato un gran disastro.
La ragazza risponde a chi la sfotte in malo modo e spiega, per l’appunto, che l’ha detta male. Avrebbe voluto rivivere l’epoca in cui è vissuta sua bisnonna, per capire quel che succedeva allora, e a me non sembra poi un cattivo proposito. Ma anche se non fossi d’accordo con quello che lei pensa e che ha detto non mi permetterei mai di sfogare il mio odio sulla tastiera con il pretesto di un’accusa che pare impressa sulla pietra.
Ora so che appresso a questo post ci saranno un po’ di insulti rivolti anche a me, perché se togli l’osso ai cani è ovvio che sbranano te. E’ un meccanismo che conosco più che bene per averlo provato molte volte. Ma il punto è che ho provato a discuterne in modo sereno con un post sulla mia pagina facebook, ma si è precipitata una folla di gente accanita, in qualche caso ostile, in posa da crociata, livorosa, che mi ha lasciata sbigottita. Davvero lapidereste una persona per così poco? Avete una vaga idea dei mille motivi per cui dovreste essere furiosi?
Mai ho visto altrettanta indignazione per gli stranieri che crepano in mare, per i provvedimenti del governo, per i furti di vita e di respiri che i potenti, quelli che monopolizzano l’economia mondiale, compiono senza alcuno scrupolo, senza coscienza.
Le ragazze hanno diritto a partecipare a quel che vogliono. Si chiama libertà di scelta. Hanno anche il piacere di essere criticate ma non mi dite che quel che ho letto in questi giorni si chiama “critica” perché non lo è. Non lo è affatto. Per queste e altre ragioni, dunque, io sto con questa ragazza, dai capelli corti, pura eresia a detta dei commentatori, e dal sorriso vivace e luminoso. Io sto con lei e con tutte le ragazze che crescendo hanno tutto il diritto di sbagliare, perché ho avuto 18 anni anch’io e dovreste ricordare che anche voi, a 18, forse a 30 o perfino a 50 anni avete detto tante di quelle sciocchezze che ci si può riempire un palazzo intero.
Auguri a questa giovane ragazza, per la sua carriera, sperando possa emanciparsi economicamente e vivere al meglio imboccando la strada che le piace di più.
di Eretica
Melting Pot
22 09 2015
La campagna LasciateCIEntrare ha chiesto l’autorizzazione a far entrare al CIE ed al CARA di Caltanissetta una delegazione di attivisti per il giorno 8 settembre. Nella risposta viene esplicitato che alcuni componenti non possono entrare, senza specificare le motivazioni e senza dare una risposta ad una nostra richiesta presentata per iscritto. Nel CIE possono, invece, accedere solo 3 persone per motivi di sicurezza. In passato siamo entrati nei CIE anche con delegazioni di 15 persone.
Inoltre il testo così recita: "Si ricorda che gli eventuali colloqui con gli ospiti maggiorenni dovranno essere condotti previa informativa sul loro scopo ed utilizzo finale e gli immigrati prescelti dovranno rilasciare il proprio consenso libero ed informato". Ancora una volta, come da molti mesi a questa parte, ci viene detto che non possiamo fare riprese video e fotografiche.
Limitazioni di numero di persone all’accesso. Limitazione di parola. Niente foto. Niente riprese. Cos’hanno da nascondere per costruire tante barriere?
Come Campagna ci battiamo da anni per il diritto all’informazione, facendo in modo che i migranti possano portare la loro voce al di fuori di un luogo in cui sono resi invisibili e silenziati. Adesso si sta facendo di tutto per rendere invisibile anche la voce della società civile.
Sappiamo che all’interno del centro di identificazione ed espulsione sono da poco arrivati cittadini del Maghreb sbarcati da alcuni. Considerando l’alto numero che registriamo negli anni di respingimenti illegittimi, decidiamo comunque di accettare ed entriamo. Proviamo a squarciare il silenzio. La delegazione è composta da Yasmine Accardo, Pinuccia Rustico, Salvatore Cavallo e Giovanna Vaccaro.
Il primo passaggio che si effettua, entrando nel centro governativo di Pian del Lago (il quale, oltre al CIE, comprende due aree adibite a Centro di Accoglienza Richiedenti Asilo, se così può definirsi un’area allestita con container), è quello alla postazione dei militari addetti al rilascio del pass d’accesso al centro, su consegna dei documenti di identità e dopo un’ispezione degli zaini e borse che abbiamo con noi. Il controllo con il metal detector pare invece essere riservato agli ospiti ogni volta che entrano ed escono.
Mentre attendiamo di ricevere tutti i pass, alcuni giovani migranti che erano fuori dai cancelli, si avvicinano a noi con dei certificati di nascita dai quali risultano minori. Li segnaliamo al responsabile della Questura che dice loro di attendere e che presto qualcuno dall’ufficio sarebbe andato a prenderli per identificarli. Chiediamo quale sarà la procedura e ci dice che , dopo i rilievi fotodattiloscopici , sarà la stessa Questura a cercare una comunità dove poterli collocare. L’ufficio addetto del Comune non sembra in effetti essere attivo in questo senso.
Se non ci fosse stato il fortuito incontro con noi, questi minori sarebbero stati destinati ad attendere intere settimane insieme alle altre decine di migranti che avevamo visto fuori dai cancelli, seduti sotto il sole, prima di riuscire ad accedere agli uffici della Questura, che sono stati trasferiti da alcuni anni all’interno del centro di Pian del Lago. Così, qualsiasi cittadino straniero debba disbrigare qualsiasi tipo di pratica che riguardi il suo status, è costretto a recarsi in questo luogo militarizzato. Lungo il tragitto di 6 chilometri che separa la città dal centro, abbiamo incontrato diversi gruppi di migranti a piedi. Percorrono 6 chilometri ad andare e 6 per tornare. Qui non passano mezzi pubblici. Centinaia di persone camminano su una strada in gran parte senza marciapiede, e che di sera non ha illuminazione.
Qualcuno su questa strada ci è anche morto, investito da una macchina, di sera.
Le gran parte dei migranti che siedono fuori dal centro aspettano dunque di poter essere identificati e fare richiesta di protezione internazionale. Per poter gestire il grande afflusso di richiedenti asilo che si presentano quotidianamente, la Questura ha messo in atto la (dubbia) prassi di raccogliere i loro nomi in una lista informale e di chiamarli, di volta in volta, seguendo l’ordine della lista, in base alla disponibilità di posti nei centri di accoglienza. Solo a quel punto i migranti (che rimangono in attesa per settimane) vengono identificati e possono formalizzare la domanda d’asilo, per poi essere traferiti in centri di accoglienza della provincia e di tutto il territorio nazionale. Ci dice il responsabile della Questura che, dallo scorso mese, vengono effettuati circa 200 traferimenti settimanali verso strutture del centro e nord Italia.
Ci dice anche che molti migranti vengono a chiedere asilo a Caltanissetta nonostante non sia un luogo di frontiera, perché i tempi di rilascio dei permessi sono più brevi che altrove e ci dice chiaramente che per evitare la ressa, anche l’ufficio Immigrazione della Questura si è adeguato alle altre questure dilungando i tempi di rilascio del permesso. L’adeguamento può considerarsi raggiunto con successo, poiché anche per il rinnovo del permesso di soggiorno c’è un’attesa di ben 8 mesi, e, nel frattempo, la sola documentazione che rimane in possesso del cittadino straniero è un foglietto senza timbro ne’ intestazione, recante solo la data dell’appuntamento del giorno in cui verrà presa in carico la pratica e rilasciato il cedolino attestante la pendenza della procedura di rinnovo del permesso di soggiorno.
Ad accompagnarci nella visita ci sono anche il rappresentante della Prefettura (Vice-prefetto aggiunto e presidente della Commissione Territoriale) e diversi operatori dipendenti dell’ente gestore Auxilium, tra i quali operatori generici, informatori legali e asssistenti sociali. Con questo seguito cominciamo la nostra "visita" del centro governativo di Pian del Lago.
Il centro è formato da due parti: una più piccola costituita da blocchi di cemento ed una grande area costituita da container. Dietro queste strutture, doppiamente recintato con sbarre altissime, di oltre nove metri, si erge il CIE presidiato dalle diverse forze dell’ordine (carabienieri, guardia di finanza, carabienieri) e dall’ esercito.
Davanti al cancello si trovano le aree amministrative: l’ufficio dove la PS sottopone agli esami fotodattiloscopici i migranti.
Nella zona antistante il CARA si riunisce la Commissione Territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato. In media i tempi di attesa per la data dell’audizione che ci vengono comunicati dal rappresentante della Questura sono di 8- 12 mesi, sempre che il richiedente non risulti già foto-segnalato in un altro Stato. In questo caso passano altri due/ sei mesi per gli accertamenti necessari in base al regolamento Dublino.
Il rappresentante della Prefettura-Presidente della Commissione, ci spiega che la Commissione è attiva tutti i giorni ed effettua giornalmente una media di 12 audizioni. Per i trattenuti nel CIE ci viene detto che il tempo di attesa per le audizioni è ridotto a due settimane dalla convalida del trattenimento e la decisione della Commissione è pressochè immediata. Quindi i tempi dell’intera procedura ammontano a 20 giorni circa.
La direttrice del centro ci comunica che le persone attualmente trattenute nel CIE sono 65, mentre nel CARA ci sono 496 richidenti asilo ( 362 nel CARA e 134 nel CDA, nonostante la differenza di denominazione, sono entrambi usati come CARA e permane una divisione solo spaziale). Le nazionalità principali di provenienza sono: Pakistan, Afghanistan, Mali.I tempi di permanenza all’interno sono di 14 mesi . Una volta ottenuto il permesso di soggiorno, ci tiene a precisare il responsabile della Questura, "vengono immediatamente - citando testualmente le sue parole- sbattuti fuori dal centro”.Ci viene detto che al momento non ci sono donne. Vediamo passare una donna con passeggino. Sarà una migrante diretta soltanto all’ufficio immigrazione. Non abbiamo modo di chiedere. Veniamo condotti velocemente verso la zona delle case di cemento. Vorremmo entrare con calma ma il rappresentante della Questura sottolinea che entreremo nel CIE se ci sono le condizioni ed il tempo. Aumentiamo il passo,guardiamo da lontano la zona delle case di cemento. Qualcuno è appeso con le mani alla rete che separa il blocco dal resto del centro. Guardiamo attraverso la porta di uno degli edifici in miniatura, ma vediamo solo alcuni migranti uscire e guardarci. Nessuno di loro si avvicina, né sembra aver voglia di parlare. Gli occhi fissi nel vuoto.
Intanto accelleriamo il passo e ci dirigiamo verso la zona container, mentre ci viene illustrato come funziona bene il servizio informativo legale ed il servizio formazione lavoro ed i progetti in corso. Secondo loro ogni servizio funziona alla perfezione. Quando poniamo alcune domande sul trattamento riservato ai soggetti vulnerabili, intervengono immediatamente le psicologhe.
Da quello che ci viene raccontato sembrerebbe che una folta schiera di operatori generici e specializzati siano al servizio del centro: ben 106 è il numero totale di operatori che ci viene comunicato. E qui sorge il grande mistero dei mediatori, appena 8, che supportano gli operatori addetti ai servizi alla persona: gli assistenti sociali si appoggiano a loro, le psicologhe svolgono i colloqui supportati da loro, i medici comunicano con i pazienti attraverso loro, e, ovviamente, anche gli informatori legali non possono che affidarsi a loro per assicurare il servizio di consulenza legale.
Intanto ci guardiamo intorno. I migranti seduti a terra o che gironzolano intorno alle case container(35 in tutto): un deja vu. Vorrebbero avvicinarsi ma siamo circondati da un muro di operatori. Desistono. Cosi proviamo ad avvicinarci anche solo per vedere meglio nelle case container: uno splendido esempio di slum! Letti a castello, almeno 12/ 14 posti. Rigorosamente spazi angusti.I migranti si portano il cibo lì. All’esterno di ognuno un condizionatore in bell’esposizione. "Funzionano?" "Certo!" è la risposta, eppure da sempre gli ospiti che incontriamo furoi dai centri ci dicono di soffrire il freddo di inverno e morire dal caldo in estate.
I servizi igienici di questa parte di centro sono anch’essi allestiti in container, ciascuno dei quali è fornito di 6 docce 12 wc. Ci sono poi altri 2 container più piccoli, ma non funzionanti. In totale, sommando i due tipi di strutture, ci sono circa 48 wc! Un numero assolutamente inadeguato alla capienza del centro, soprattutto tenendo conto che solo il 10% di questi risulta essere funzionante. Ovviamente le condizioni sono pessime. Il fetore si sente dall’esterno. Da uno cola liquame. " Si lo sappiamo abbiamo chiesto di farli cambiare!" risponde pronta la direttrice che aggiunge, che, finalmente, il giorno dopo sarebbero arrivati quelli nuovi. Decidiamo di andare oltre mentre ascoltiamo la psicologa che ci illustra i programmi per soggetti vulnerabili. Ci basta lo sguardo sospeso di 4 ragazzi pakistani: la delusione, il dolore, la resa.
Un’operatrice ci spiega che ad ogni ospite viene consegnata una chiavetta che viene ricaricata con 2,50 euro al giorno utilizzabile solo all’interno del Cara per acquistare bevande, sigarette o schede telefoniche
Ai richiedenti asilo non vengono mai dati contanti.Quando possono uscire dalla struttura e andare in città non possono ne’ comprare un biglietto dell’autobus ne’ prendere un caffè, dovessero mai entrare nel mondo fuori dal ghetto . La risposta di sempre rispetto alla possibilità del pagamento in cash è: non è possibile e la modalità di erogazione adottata da loro è quella prevista nel capitolato d’appalto. Quando facciamo loro notare che altri centri si sono attrezzati per garantire l’erogazione del pocket money in contanti, la direttrice del centro e il rappresentante della Prefettura ne parlano come una prassi sbagliata che causa loro anche delle difficoltà..
Gli orari di entrata e uscita dal centro sono dalle ore 10 del mattino alle ore 20, ma dipende dall’operatore a cui si chiede, perché alla stessa domanda altri hanno risposto dalle 8 alle 19, aggiungendo che però c’è la massima elasticità sull’orario.. forse è dovuto a questa l’approssimazione numerica..
Corriamo alla mensa. Una stanza con pochi tavoli. La distribuzione del cibo dura un’ora e mezza.Ci sarà posto per 60 persone al massimo. Eppure in questa parte di centro ci vivono in 362. Chiediamo se le quantità di cibo siano sufficienti. " Certo ce n’è anche per il bis!". Sulla qualità non possono che ammettere le continue proteste , ma per comprovare la bontà del cibo ci dicono che loro lo mangiano ogni giorno senza problemi. Il catering è ovviamente esterno e se ne occupa la stessa ditta che fornisce i pasti dei centri gestiti in provincia di Roma (CARA di Ponte Nuovo e Cie di Ponte Galeria).Si fa di tutto perché ognuno mangi tranquillo nella propria stanza, pazienza se è un container con altre 12 persone senza sedie e con i letti a castello .
Chiediamo informazioni sui servizi di assistenza alla persona e sullo staff specializzato predisposto. I mediatori e interpreti sono i soliti 8, impiegati sia nel CARA che nel CIE. Si occupano in totale di 480 persone (in un regime di capienza ordinaria). Mentre gli operatori che assicurano l’informativa legale agli ospiti del CARA sono 4, nessuno con il titolo di avvocato ne’ una laurea in giurisprudenza. Avendo per anni raccolto le lamentele degli ospiti rispetto a questo servizio che viene spesso descritto come inesistente, chiediamo agli operatori legali l’orario di servizio: “tutti i giorni, 8 ore al giorno”. Alla richiesta di precisazioni relative agli orari nei diversi giorni della settimana, l’orario di servizio che ci viene illustrato dettagliatamente si ferma al martedì; poi si ritorna alla spiegazione generica della mattina e pomeriggio, un po’ qui e un po’ lì.
La lista degli avvocati consigliati dal servizio di informativa legale, sono quelli dell’elenco di legali abilitati al gratuito patrocinio redatto dal Consiglio dell’ordine del Tribunale di Caltanissetta e trasmesso all’ente gestore dalla Prefettura. In realtà, capita di frequente di vedere in città ex-ospiti del CARA con i biglietti da visita di avvocati che sono stati loro consigliati dal servizio di informativa legale del cara, e i nomi degli avvocati consigliati sembrano essere sembre gli stessi 6-7.
Chiediamo informazioni sul corso di Italiano. Quando chiediamo come vengono divise le classi (tre in totale), ci viene detto che è tutto affidato a tre insegnanti (per oltre 480 persone!?). Chiediamo se si tiene in considerazione la presenza di molti analfabeti in lingua madre. Non ci sono risposte. Ci viene invece detto che alcuni seguono il corso per ottenere il diploma di scuola media. Uno su mille ce la fa! Ci viene poi detto qualcosa su attività di artigianato ma non è chiaro a cosa si riferiscano. Nel CIE sono detenuti attualmente 65 migranti, a fronte dei 96 posti disponibili. Sono prettamente di origine maghrebina: 20 di nazionalità tunisina, 22 marocchina, 22 di nazionalità egiziana, un algerino e un georgiano. Prima di entrare il rappresentante della Questura davanti all’intero staff ci dice con grande orgoglio che la percentuale di rimpatri del CIE di Caltanissetta supera l’80%: 800 rimpatri dall’inizio del 2015 e 1500 nel 2014.
Le convalide del giudice di pace avvengono sempre entro le 96 ore. Chiediamo se sia possibile prendere visione dei procedimenti di convalida, ma non ci viene concesso. Chiediamo se ci siano interpreti ed ogni migrante abbia un avvocato. Ci viene risposto di sì a tutto.
Diversi provano a fare richiesta di protezione internazionale, valutata in pochissimo tempo, scarso il numero di quelli che riescono ad ottenerla. La visita è lampo. Non facciamo in tempo a scambiare le prime parole con un gruppo di marocchini che si affollano alle sbarre, che ci viene detto che" per questioni di sicurezza" possiamo parlare con i migranti ad uno ad uno e solo all’interno di una stanza-container separata dai blocchi. Restiamo interdetti. Continuiamo a parlare con i migranti.
Attaccati alle sbarre intercettiamo subito il volto di due probabili minori. Ci chiedono perché sono lì. Ci dicono che non vogliono restare. Ci sono altri minori, in tutto cinque. Chiediamo com’è possibile che siano lì. Ci viene risposto che hanno già attivato le pratiche per l’rx del polso per il controllo dell’età." I minori qui non ci dovrebbero nemmeno arrivare" rispondiamo. Chiediamo ai migranti se hanno fatto richiesta di protezione internazionale. Alcuni dei quali con cui riusciamo a parlare non vogliono restare in italia. Se ne vogliono andare. Sembra che nessuno li abbia informati che da dove si trovano adesso, senza richiesta d’asilo, ci sarà il rimpatrio. Credono che staranno un po’ lì, non capiscono ancora per quale motivo. Credono che verranno rilasciati. Alcuni sbarcati da pochissimi giorni, ci guardano increduli: perché siamo qui? Quanto ci resteremo?
Non riusciamo a finire di parlare e veniamo invitati ad attendere i migranti all’interno della stanza apposita. "vogliamo parlare con tutti!". "certo" ci rispondono. Ma non vicino alle sbarre. Non possiamo vedere dove vivono. Non possiamo avvicinarci. Animali in gabbia.
Entriamo nella stanza ammessa per le interviste ed incontriamo un uomo iracheno che non vuole saperne di fare richiesta d’asilo in Italia.Vuole andare in Germania. Dove è già stato e da dove è stato poi buttato qui dentro. Ha provato a fare lo sciopero della fame, ma senza ottenere nulla. Non può sentire nessuno della sua famiglia. Sono nel deserto e non ci sono telefoni. E’ disperato. Ha urgenza di farli venire in Europa. Ci mostra le foto dei figli e della moglie. Ha anche una lombosciatalgia che gli provoca continui dolori che non gli curano, se non con antidolorifici. Chiede aiuto. Vuole andarsene. Vuole sapere quando. Deve ricongiungersi al più presto con la sua famiglia. Qui gli creano problemi con i documenti. E’ iracheno ma non gli credono. Il ragazzo che traduce è egiziano, detenuto anche lui, sottolinea che lui parla un altro arabo.
Il ragazzo che sta traducendo è stato accusato di scafismo. Ha scontato 3 anni di carcere, dovevano essere quattro, ma sono stati ridotti per buona condotta. In tre anni non ha mai visto il console. Poi è stato portato qui. Ha un avvocato che lo difende. Continua a ripetere che è stato incastrato e che lui non è uno scafista.
Finito questo colloquio sotto stretto controllo di due persone dello staff, ci alziamo ed andiamo nuovamente a parlare con i ragazzi che ci aspettano alle sbarre. Le informazioni sono rapide, si accavallano l’un l’altra. C’è grandissima confusione. Si aggrappano letteralmente a noi per capire. Per sperare di uscire.
Ci sono due giovani libici, ma qualcuno ha deciso che fossero tunisini. Al momento dell’identificazione da parte del Console tunisino, non sono stati riconosciuti da quest’ultimo, ma restano ancora lì. Non vogliono chiedere asilo in Italia perché vogliono arrivare in Germania e nel frattempo attendono là dentro che scorra il tempo massimo del trattenimento, per poi uscire. Non hanno mai parlato con un avvocato e pare non abbiano compreso l’importanza di farlo. Vogliono andare in Germania e pensano di poterlo fare tranquillamente, una volta usciti dal CIE.
Alcuni sono arrivati da due giorni e vengono da Pozzallo, dove sono sbarcati, ma molti non conoscono neanche il porto di arrivo. Molti di quelli con cui riusciamo ad interagire sono egiziani e tunisini "perché dopo tutte le sofferenze del viaggio anche questo?". Uno parla per tutti, dice di essere siriano e che lui lì proprio non ci potrebbero stare. Vuole sapere perché hanno messo lì anche dei minori. Li fa avvicinare, prendiamo i loro dati. Ognuno dei migranti ci vuole comunicare dati e nomi.
C’è chi ha fatto richiesta di protezione internazionale e grida" ho chiesto asilo! Perché non mi fanno uscire?". Mentre parliamo ci viene continuamente ripetuto che dobbiamo andarcene." E’ l’ora delle visite. E’ l’ora della terapia". Proviamo almeno a finire di ascoltare qualcuno. Ma è impossibile. Troppi tutt’insieme. Cerchiamo fino all’ultimo di prendere e dare informazioni, ma poi siamo costretti ad uscire.
A quel punto, cerchiamo allora di capire di che terapie si tratta, visto che la nostra visita è stata interrotta per questo motivo, e la dottoressa ci risponde che si tratta di cure generiche ed esclude che alcuni dei migranti trattenuti i in questo momento siano sottoposti a terapie a base di psicofarmaci.
Usciamo frastornati. Questa non è una visita. E’ durata circa mezz’ora. Senza poter parlare davvero con tutti, come avremmo voluto. Quello che sappiamo è che queste persone non sono consapevoli dei propri diritti. Quanto tempo può resistere un uomo in una gabbia senza conoscerne il motivo? Senza aver commesso alcun reato? Colpevole per essere salito su una barca? Di essere della nazionalità sbagliata? Come è potuto succedere che sia stato convalidato il decreto di trattenimento di sedicenti minori, prima dell’esito dell’RX?
Segnalati a Save the Children i casi dei sedicenti minori presenti nel CIE, ci viene risposto che dalla verifica prontamente effettuata (ad eccezione di uno che è già stato collocato in comunità) tutti gli altri sono risultati maggiorenni e che sono tutti seguiti da un avvocato. Non sembra sorprendere la convalida di trattenimento nonostante la dichiarazione della minore età, prima dell’esito dell’esame RX. Altra grande incognita è come sia stato possibile che gli avvocati che assistono questi sedicenti minori, non si siano opposti all’illegittimo trattenimento precedente all’esito degli esami.
Venerdì 11 Settembre abbiamo appreso che sono stati messi su un autobus direzione aeroporto 21 cittadini egiziani, tra cui tre minori e due richiedenti asilo (ma potrebbero essercene di più). A questo gruppo di persone vengono sottratti i cellulari. Molti di loro non avevano nemmeno fatto la convalida di trattenimento. Non abbiamo avuto modo di avere notizie più precise. L’avvocato che segue alcuni di loro , che è appartenente al foro di Catania dove segue già decine di richiedenti asilo del CARA di Mineo, ci chiama per chiederci come può opporsi al respingimento. Nel gruppo ci sono quattro suoi assistiti. Cosa deve fare: " Ricorso ex art 39 CEDU". Un avvocato che si occupa di immigrazione e diritto d’asilo dovrebbe saperlo. Altrimenti c’è da chiedersi cosa effettivamente questi avvocati possano fare per i loro assistiti e quali le conseguenze di questa impreparazione nel riconoscimento dei diritti di questi ultimi. Ci sono avvocati che seguono centinaia di ricorsi annui e non si comprende dove trovino oggettivamente il tempo di prepararli.Il patrocinio riconosciuto dallo stato frutta di più sui grandi numeri.
Intanto non si sa che fine abbiano fatto queste 21 persone.
Lunedì 14 Settembre un altro gruppo di 10 tunisini arrivati da 48 ore nel CIE vengono anch’essi rispediti in Tunisia. Nessuno di loro ha incontrato il giudice di pace per la convalida.
Yasmine Accardo, Giovanna Vaccaro, Pinuccia Rustico, Salvatore Cavalli.
vedi sito Tratto da www.lasciatecientrare.it
L’Espresso
21 09 2015
Dopo l'inchiesta dell'Espresso sono scattati i sigilli al centro di accoglienza di Spineto, situato nel comune di Aprigliano, con un decreto d’urgenza della Procura di Cosenza firmato dai Pubblici ministeri Dario Granieri, Marisa Manzini e Salvatore di Maio.
Il sequestro è stato convalidato dal Giudice per le indagini preliminari. Risultano indagati per vari reati Carmelo Rota, 33 anni, assessore Pd del comune di Pedace (Cs), presidente della cooperativa S.Anna che gestiva la struttura in convenzione con la prefettura di Cosenza, e Santo Muraca, 65 anni, proprietario dell’immobile, un tempo adibito a ristorante. Leggendo il provvedimento si scopre che sono molte le "gravi violazioni” accertate: finti scarichi fognari, false documentazioni prodotte per avere il certificato di agibilità dal Comune, abusi edilizi.
L’urgenza di chiudere il centro per fermare "l’attività abusiva in atto” viene motivata con il "grave pericolo per l’incolumità degli immigrati ospitati nella struttura”. Secondo gli inquirenti "l’attività gestita dalla Cooperativa Sant’Anna è stata compiuta in spregio di diverse norme penali ed è esclusivamente preordinata al lucro, senza rispetto alcuno della persona umana e dei diritti costituzionalmente riconosciuti, con conseguente attivazione di una struttura fatiscente e priva delle necessarie condizioni per il ricovero degli immigrati”.
Le indagini sono partite grazie a una rivolta dei rifugiati che lo scorso 31 luglio avevano bloccato la strada davanti al centro di accoglienza per attirare l’attenzione sulle condizioni e l’isolamento in cui erano ammassati, con un gruppo di donne somale costrette a vivere in uno scantinato senza finestre.
La protesta, scrivono i pm nel decreto, nasceva "dalla situazione di grave disagio causata dalla fatiscenza degli ambienti, oltre che dalla scarsità di cibo somministrato e dalla carenza di mezzi di trasporto per raggiungere la città”. In quell’occasione, gli agenti della Squadra Mobile di Cosenza, intervenuti per sedare la protesta, avevano riscontrato che le lamentele dei migranti erano fondate. Ai poliziotti "gli ambienti apparivano sporchi, i servizi maleodoranti e inefficienti, con una donna accampata dietro a un bancone in un locale usato in passato come discoteca”.
Successivi sopralluoghi hanno accertato che tutti i locali venivano usati come posti letto per richiedenti asilo, nonostante il sottotetto e la zona interrata risultassero inagibili. Il sequestro è scattato anche grazie a un parere dell’ufficio tecnico comunale, dal quale risultano "gravi problemi igienico sanitari riguardanti gli allacci fognari”. Da un’ispezione della polizia e dei tecnici municipali, effettuata il primo settembre, è risultato che "le vasche di accumulo di acque nere, oltre a necessitare di immediato svuotamento, non risultavano provviste di autorizzazione”. Si tratta, secondo gli inquirenti, di vasche in calcestruzzo interrate e abusive realizzate da Muraca con altre persone ancora da identificare.
La denuncia sulle condizioni di affollamento e degrado della struttura che ospita un gruppo di rifugiati in un centro montano nei boschi della SilaVideo di Raffaella Cosentino
L’accusa nei confronti degli indagati è che "in concorso tra loro, mutavano abusivamente l’originaria destinazione d’uso per attività commerciale, ospitando i migranti in un luogo privo del necessario certificato di agibilità”.
Altri lavori erano in corso in tutto l’edificio senza i permessi di costruzione, determinando "pericoli per le persone ospitate”. Il 10 settembre il Comune ha revocato l’agibilità della struttura. Un centro inagibile non è adatto all’accoglienza dei migranti ed è stato chiuso di forza dai magistrati.
Le gravi violazioni accertate in materia edilizia, scrivono i pm nel provvedimento, hanno generato una "conseguente situazione di degrado dell’immobile” e questo ha causato la "tensione già esplosa a causa delle condizioni in cui i migranti sono costretti a risiedere”. Gli stessi richiedenti asilo che con una protesta plateale sono riusciti a fare avviare gli accertamenti sulla struttura sono stati anche denunciati per minacce e danneggiamenti dalla cooperativa, tra i cui soci figura Marco Morrone, figlio di Giuseppe Ennio Morrone, ex senatore ed ex capogruppo di Forza Italia alla Regione Calabria con la presidenza Scopelliti.
Non è la prima volta che in Calabria i migranti sono costretti a ribellarsi come ultimo atto estremo di difesa per le pesanti violazioni che subiscono nelle strutture di accoglienza. Fece scalpore nel 2012 la sentenza del giudice di Crotone Edoardo D’Ambrosio che assolse un gruppo di trattenuti nel centro di identificazione ed espulsione di Isola Capo Rizzuto (Kr) gestito dalla Confraternita delle Misericordie, perché avevano agito per legittima difesa distruggendo il Cie e usando anche le suppellettili come armi contro gli agenti.
A Cosenza il sequestro del centro di accoglienza straordinaria viene motivato con il fatto che "tale situazione si presenta estremamente pericolosa per i cittadini extracomunitari in quanto la struttura appare non dotata dei requisiti igienico sanitari e delle condizioni di sicurezza necessarie per essere abitata”. Secondo indiscrezioni le indagini non sono chiuse, continuano accertamenti perché il centro di accoglienza sarebbe stato anche allacciato abusivamente alla corrente elettrica.
Communianet
21 09 2015
Da anni ci battiamo nei nostri territori per un'accoglienza degna, offrendo servizi gratuiti per chi arriva o transita nel nostro paese.
La nostra arma è sempre stata la solidarietà, usata per disinnescare il linguaggio di chi, secondo convenienza, definisce i migranti vittime o invasori. Rivendichiamo un'Europa accogliente e solidale dove il diritto di fuga e di circolazione è garantito a chi cerca un futuro lontano da morte e miseria.
Perciò non possiamo rimanere impassibili davanti ai crimini contro l'umanità che il governo Orban sta commettendo ai confini con la Serbia e la Croazia. Da settimane il governo ungherese sta attuando nel cuore dell'Europa una politica dichiaratamente razzista.
È inaccettabile che vengano eretti muri per fermare una popolazione in fuga dalla guerra.
È inaccettabile che l'esercito si schieri contro persone inermi.
È inaccettabile che siano i fucili ad accogliere chi cerca una via di salvezza in Europa.
Non possiamo rimanere immobili davanti ad una tragedia di enormi proporzioni che ci riporta indietro di 70 anni, ci trascina di colpo nella barbarie dei nazionalismi e dei fascismi che ci illudevamo di avere definitivamente sconfitto.
Non vogliamo far finta di non vedere, assistendo impassibili alle immagini trasmesse dai media.
Per questo anche noi aderiamo all'appello lanciato "dalle donne e dagli uomini scalzi" e saremo il 21 settembre alle 18:00 davanti all'ambasciata ungherese a gridare la nostra rabbia contro il governo neofascista di Orban.
Stay Human
#NoBorders
#RefugeesWelcome
Resistenze Meticce, Esc Atelier, Astra, Lab Puzzle!, Strike Spa, Communia, Senza Confine, A.L.A. (Assemblea Lavoratori dell'Accoglienza), Sans Papiers, L.O.A. Acrobax, Alexis Occupato, Laboratorio 53, C.R.A.P. (Coordinamento Romano Acqua Pubblica)
Lavoro culturale
21 09 2015
Un nuovo contributo di Charles Heller e Lorenzo Pezzani, Ricercatori Associati del Progetto (Centre for Research Architecture, Goldsmiths University, Londra), tra coloro che hanno contribuito a fondare la piattaforma Watch The Med.
L’ipotesi che un’imbarcazione in difficoltà venga identificata, avvicinata da mezzi di marina, fotografata e infine lasciata andare alla deriva nel Mediterraneo producendo la morte di sessantatré persone ci impone una riflessione urgente: quale è la relazione che lega le nostre tecnologie di controllo, il dovere di soccorso, e il senso del fotografare?
Fin dall’inizio di quella che è stata chiamata la “crisi migratoria” del Mediterraneo, i media internazionali sono stati sommersi dalle immagini di imbarcazioni sovraffollate che attraversano le frontiere marittime dell’Unione Europea.
Queste immagini, prodotte soprattutto da agenzie di Stato o da giornalisti embedded, circolano in modo indefinito, spesso perdendo ogni riferimento al contesto nel quale sono state scattate.
Sono divenute «immagini fluttuanti» usando i termini di Hito Steyerl, immagini che vanno alla deriva da un articolo all’altro, costantemente disperse come le soggettività dei migranti che ritraggono.[1] Attraverso la loro circolazione infinita, queste immagini rafforzano la sensazione di una invasione, un mito che recentemente alcuni contribute di analisi e ricerca hanno provveduto a decostruire.[2]
È necessario osservare, d’altra parte, che le immagini dei migranti intercettati nel mare operano attraverso un frame di invisibilità, cui ben si prestano le frontiere marittime europee, che rende opaco il soggetto nello stessa misura in cui lo rivela.[3] Ciò che lo spettacolo della “protezione” dei confini nasconde, infatti, è in primo luogo la produzione di illegalità attraverso politiche di esclusione senza le quali i migranti non sarebbero costretti ad usare gli strumenti della clandestinità per attraversare i confini; lo stesso accade alla violazione diritti dei migranti in mare, tenuta fuori da ogni visibilità pubblica. Mentre le immagini rivelano la violenza dei confini, gli Stati cercano di mantenerle invisibili.
Questo è il contesto nel quale si inserisce il caso della “left-to-die-boat” che abbiamo analizzato in collaborazione con un gruppo di Ong condotte da GISTI e FIDH.
Tracce Liquide – Il Caso della “Left-to-Die Boat” from charles heller on Vimeo.
Nel marzo del 2011, al culmine dell’intervento militare NATO in Libia, 72 migranti in fuga dal Paese furono lasciati alla deriva nel Mediterraneo centrale per quindici giorni, nonostante fossero state inviate segnalazioni di emergenza a tutte le imbarcazioni che navigavano in quell’area, e fossero stati intercettati da mezzi aerei militari e di marina.[4]
La riluttanza di tutti gli attori coinvolti nel mettere in salvo i passeggeri alla deriva ha prodotto l’agonia e la morte di sessantatré persone. Durante questo tragico evento furono scattate molte fotografie, ma solo una di queste è stata resa pubblica: quella scattata da un aereo militare di sorveglianza francese durante il primo giorno del viaggio dei migranti (mostrata sopra).
L’immagine è stata rivelata attraverso un’indagine del Consiglio d’Europa,[5] ma molti altri scatti sono rimasti inaccessibili e continuano a ossessionare la nostra ricerca.
Nelle interviste condotte con i nove superstiti, viene descritto come, alla fine del primo giorno di navigazione, erano stati sorvolati due volte da un elicottero militare dal quale il personale a bordo li aveva fotografati mentre si sbracciavano implorando aiuto prima di essere inghiottiti dal buio.
Contrariamente alle speranze dei passeggeri, non fu mai predisposta alcuna operazione di salvataggio a seguito di questi avvistamenti. Dopo dieci giorni, l’imbarcazione continuava ad andare alla deriva e oramai quasi la metà dei passeggeri a bordo erano morti. In quel momento fu avvicinata da una nave della marina militare – che rimane tuttora non identificata – che si è accostata fino ad una distanza di dieci metri. Dan Haile Gebre, uno dei sopravvissuti, ricorda questo incontro:
Noi guardiamo loro. Loro guardano noi. Noi gli facciamo vedere i cadaveri, i bambini. Bevevamo l’acqua del mare, eravamo disperati. L’equipaggio della barca scattava foto, nient’altro.
Venendo meno all’assistenza dei naufraghi nella piena consapevolezza del loro destino, l’equipaggio a bordo di questo mezzo di marina – ancora oggi non identificato – è responsabile della loro morte senza aver toccato i loro corpi.
Abbiamo spesso riflettuto sulla relazione che intercorre tra l’atto di fotografare e l’atto del non-soccorrere. Per Susan Sontag (Sulla fotografia), l’atto di fotografare, che implica l’idea per cui si devono lasciare le cose come stanno «almeno per il tempo necessario a scattare una buona foto», è fondamentalmente «un atto di non-intervento», complice con le forme della sofferenza umana che documenta.
Se la tesi di Sontag permette di mettere in luce queste forme complesse del non-inetervento che conducono ad un esito fatale, non riesce però a descrivere tutti gli atti del fotografare, a cominciare dal fatto che, come ci è stato raccontato dai passeggeri superstiti, essi stessi avevano documentato l’intera sequenza degli eventi con i loro telefoni cellulari. L’incontro tra queste due imbarcazioni – una che rappresenta uno degli attori politici più potenti al mondo, l’altra invece gli indesiderabili – è stato anche l’incontro tra fotografi che si scattavano fotografie a vicenda. Mentre per l’equipaggio militare il fotografare era una parte inestricabile dell’atto di non-intervento, i naviganti alla deriva impugnavano i loro telefonini mentre piangevano implorando i militari di intervenire ed evitare così il loro destino di morte.
La fotografia è dunque fortemente intrigata nella rete dell’intera catena di eventi del caso della “left-to-die-boat”. Se queste differenti fotografie avrebbero potuto fornire un’evidenza innegabile del crimine di non-soccorso, fin’ora sono rimaste inaccessibili. Le immagini catturate dai migranti con tutta probabilità sono state distrutte al momento della confisca dei loro telefoni, quando, dopo essere tornati sulla costa libica dalla deriva furono incarcerati. Le immagini scattate dai militari probabilmente esistono ancora da qualche parte, archiviate in una scheda di memoria o sul disco rigido di un computer. Comunque sono rimaste ad oggi inaccessibili a qualunque indagine.
L’occultamento delle fotografie scattate ben esemplifica l’ambivalenza della “partizione del sensibile” delle frontiere marittime europee, che oscilla tra un una spettacolarizzazione controllata del rafforzamento del confine e l’occultamento della violenza perpetrata contro i migranti.[6]
In assenza di queste fotografie incriminatorie, la nostra indagine sul caso della “left-to-die-boat” ha cercato di ricostruire un’immagine molteplice degli eventi risignificando i dispositivi di rilevamento a distanza che nella nostra contemporaneità hanno trasformato il mare in un sensorium mediato tecnologicamente.
Abbiamo potuto ottenere un riscontro delle testimonianze dei superstiti attraverso le informazioni fornite da mezzi navali dotati di tecnologie di rilevamento; i segnali di soccorso inviati e ricevuti attraverso coordinate georeferenziate; le informazioni su venti e correnti tramite le quali è possibile ricostruire la traiettoria di un’imbarcazione alla deriva; le immagini satellitari che riportano in effetti la presenza di grandi mezzi navali in prossimità della barca alla deriva dei migranti.
Se da un lato queste stesse tecnologie sono spesso usate a fini di sorveglianza dei movimenti migratori illegali, o di altre minacce sociali, in questo caso sono state utilizzate come prove del crimine della non-assistenza.
La ricostruzione degli eventi che ci hanno permesso di produrre è divenuta la base per diversi casi giudiziari ancora in corso contro quegli Stati i cui mezzi navali erano disponibili e operanti al momento degli eventi, compresa la Francia.
Come dimostrano i tragici eventi del caso della “left-to-die-boat”, le immagini non documentano semplicemente la violenza delle frontiere, ma vi partecipano attivamente. Che sia attraverso la logica dello spettacolo o del segreto di Stato, risulta evidente che la flagranza dell’atto di esclusione su cui si sorreggono le politiche migratorie europee ha luogo nelle immagini e attraverso di esse.
Lottare per i diritti dei migranti significa dunque anche intervenire in questo regime di (in)visibilità rivendicando il diritto a quella visibilità in grado di sfidare i confini che si stagliano di fronte a ciò che può essere visto o sentito.
Questo è quello che abbiamo cercato di continuare a fare collettivamente attraverso la piattaforma mappata di WhatchTheMed.
[Traduzione a cura di Maddalena Fossi. Una versione in francese di questo articolo è già apparsa su Libération.]
[1] Hito Steyerl, The Wretched of the Screen. Berlin: Sternberg Press, 2013, p.171.
[2] Hein De Haas, The myth of invasion: The inconvenient realities of migration from Africa to the European Union, «Third World Quarterly 29», no.17, 2008.
[3] Nicolas De Genova, Spectacles of migrant ‘illegality’: the scene of exclusion, the obscene of inclusion, «Ethnic and Racial Studies», 36.7, 2013.
[4] Per seguire la nostra ricostruzione di questi eventi, si veda il nostro report.
[5] Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa (PACE), “Lives lost in the Mediterranean Sea: who is responsible? ”, 2012.
[6] Jacques Rancière, Le partage du sensible, Paris: La fabrique, 2000.
Communianet
21 09 2015
L'assemblea nazionale della Coalizione Sociale si è riunita a Roma per mettere in comune le esperienze di mobilitazione, vertenzialità e mutualismo cresciute in questi mesi a livello locale e per decidere insieme le prossime tappe di mobilitazione.
Il punto di partenza sta nella constatazione del fatto che questo Governo con la sua azione di 'riforma' - Jobs Act, Buona Scuola, Sblocca Italia, privatizzazione dei beni comuni, riforme istituzionali - sta aumentando in maniera drammatica le disuguaglianze nel nostro Paese, mentre gli spazi di democrazia e partecipazione si restringono sempre di più, a partire dallo stesso diritto di sciopero. L'uso arbitrario dei dati statistici non può certo mascherare la povertà crescente, la perdita di potere d'acquisto e i salari troppo bassi, l'aumento della precarietà e della disoccupazione giovanile, la dispersione scolastica e i costi dell'istruzione, le differenze tra Nord e Sud. Dietro questi numeri ci sono le storie di milioni di donne e uomini che da sette anni continuano a pagare il prezzo della crisi. Siamo noi la vera maggioranza di questo Paese e dell'Europa: una maggioranza che oggi chiede giustizia.
Per questo, a partire dalle tante esperienze di organizzazione e mobilitazione che si sono prodotte a livello locale e nazionale, abbiamo deciso di aderire alla data del 17 ottobre, giornata mondiale per l'eradicazione della povertà, promossa da Libera nell'ambito della campagna Miseria Ladra. Crediamo che la rivendicazione di un reddito contro la povertà e le disuguaglianze, e di lavoro e formazione con diritti e di qualità, siano fondamentali per restituire dignità a milioni di donne e uomini che l'hanno persa nei meandri della crisi e della precarietà.
Si tratta di una richiesta chiara di fronte alla quale la politica non può più nascondersi. Parteciperemo alla mobilitazione nell'ambito delle tre giornate promosse da diverse reti e movimenti europei il 15-16-17 ottobre perché crediamo che sia necessario superare definitivamente le politiche di austerità e il ricatto del debito per immaginare un presente e un futuro diversi, con diritti e dignità per tutti.
È necessario organizzarsi collettivamente per rovesciare i rapporti di forza sfavorevoli che impediscono oggi di costruire l'alternativa a livello nazionale ed europeo. Le centinaia di migliaia di migranti in marcia contro i confini del nostro Continente ci offrono un esempio emblematico di come dal basso è possibile scardinare quest'Europa chiusa, violenta e antidemocratica.
Si tratta di una battaglia di tutti e per tutti, così come generale è stato il terreno del contrasto alla Buona Scuola: l'assemblea di Bologna del 6 settembre ha manifestato la volontà chiara di proseguire nella mobilitazione e di costruire un'iniziativa referendaria di carattere generale che, dentro il percorso di mobilitazione, può costituire un terreno importante di ricomposizione delle lotte contro la Buona Scuola, lo Sblocca Italia, il Jobs Act e le riforme istituzionali. Anche le lotte contro le trivellazioni in Adriatico, per un altro modello di sviluppo e per un'altra agricoltura, ci indicano una strada da percorrere nei prossimi mesi in particolare in vista della conferenza mondiale sul clima di Parigi.
È tempo di fare un passo avanti, allontanando la paura e alimentando la speranza. Non è sufficiente sapere di avere ragione per cambiare le cose. Esiste una domanda di giustizia, conoscenza, reddito, lavoro di qualità, che ha bisogno di farsi spazio, a partire dai territori, dalle esperienze di mutualismo e vertenzialità che dovremo moltiplicare. Soltanto coalizzandosi, mettendo in comune la nostra voglia di riscatto, si può uscire dalla condizione di esclusione e individualismo imperante per immaginare e praticare insieme l'alternativa alle miserie del presente.
Connessioni Precarie
21 09 2015
Lo scorso 17 settembre nel pomeriggio una trentina di donne nigeriane è stata rimpatriata con un volo speciale della Meridiana da Roma-Fiumicino verso Lagos. Circa venti di loro facevano parte di un gruppo di 66 donne, sbarcate in Sicilia a fine luglio e trasferite al CIE di Roma – Ponte Galeria sulla base di un criterio per cui, quando i centri CARA per richiedenti asilo sono troppo pieni, i migranti intercettati in mare o durante gli sbarchi vengono portati nei CIE. La potenza della legge si misura soprattutto nella sua capacità di fare cose con le parole: basta ritardare il momento in cui viene data la possibilità di inoltrare la domanda d’asilo, e i profughi diventano per legge «clandestini» che hanno eluso i controlli di frontiera e passibili, come in questo caso, di essere trattenuti in un centro di identificazione e di espulsione. La scelta tra chi trasferire nei CARA e chi nei CIE segue regole tacite (tanto più indicibili quanto più osservate), che rispecchiano i paesi di provenienza. Se si proviene dalla Nigeria è molto probabile che il CARA sia pieno e il posto si trovi solo al CIE.
Durante l’estate, il caso delle 66 donne ha avuto qualche eco sulla stampa, sia per l’interessamento di alcune campagne di attiviste e attivisti, sia perché i giornali potevano parlare delle donne, tutte giovanissime, come di potenziali «vittime di tratta». Anche in questo caso, le qualificazioni del diritto dovrebbero far riflettere. Vittime sì, ma non di qualsivoglia carnefice. Solo poche tra loro hanno ottenuto in prima battuta uno status di protezione. Ancora una volta, la scelta ha seguito regole non dette, chi portava sul corpo le cicatrici delle violenze è stato preferito. Corpi del sacrificio, riconosciuti solo come tali. E quindi corpi sacrificabili, come i corpi delle donne che sono state rimpatriate.
Ognuna di queste donne è sicuramente vittima, non di uno ma di molteplici carnefici. Il patriarcato, le guerre, l’industria del sesso, gli scafisti, e non da ultimo l’apparato repressivo del regime dei confini europei. Ma la maggior parte di loro ha scelto di rappresentare la propria istanza come un’istanza politica, chiedendo asilo. È vero, la tradizione del diritto d’asilo si è sempre mossa su di un terreno ambiguo. L’identità politica che esso rivendica è, in primo luogo, quella della comunità ospitante. La prerogativa di accogliere chi si riconosce come esule politico è sopra ogni altra cosa una rivendicazione di sovranità nei confronti degli altri Stati. Basti pensare che, nel processo di secolarizzazione dell’asilo, alla costruzione giuridica del diritto d’asilo si è sovrapposta quella del divieto di estradizione. Eppure, proprio in virtù di questa rivendicazione di identità politica, le radici profonde dell’asilo non sono da ricercarsi nel rifugio concesso alle vittime, bensì nell’immunità riconosciuta al reo in quanto colpevole.
Anche i corpi delle donne rimpatriate, così come quelli delle altre ancora trattenute, portano i segni di una colpa. Quella di aver scelto di salvarsi da sole, fuggendo dai molteplici carnefici incontrati sulla propria strada. Non può essere detto, ma si tratta di una colpa inaccettabile. Potremmo attribuirle nomi diversi hubrys, tracotanza, sfacciataggine o più semplicemente indolenza, indifferenza verso un ordine. Probabilmente, nessuna offesa è più insopportabile di questa.
Se il diritto la riconosca come una colpa degna di protezione, non è dato saperlo. Mentre le donne venivano rimpatriate il Tribunale disponeva per alcune di loro l’ordine di sospensione dell’esecutività del rimpatrio, in attesa della decisione definitiva sulla protezione internazionale. Ma, in alcuni casi, la decisione è arrivata troppo tardi; tecnicamente, una volta che l’aereo è in fase di decollo, l’ordine di sospensione è improcedibile. Non si tratta dello stato di eccezione (una volta tanto sarebbe forse il caso di chiarirlo), ma del funzionamento normale della giustizia. Non di quella corrotta e inefficiente, ma di quella ordinaria, legittima e legittimata attraverso un meccanismo decisionale. A ogni violazione corrisponde un rimedio, un’altra possibilità di decisione.
Anche in questo caso, anche per le donne rimpatriate, esiste una possibilità di rimedio (per esempio di fronte alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) che si rivelerà tanto più efficace quanto più rapida sarà la proposizione dell’istanza per una nuova decisione (innanzitutto sulla procedibilità del ricorso). Può sembrare uno scioglilingua per giuristi ma, tradotta nel linguaggio profano della vita, la questione di merito non significa altro che, ogni giorno che passa, il «pericolo imminente» corso dalle donne a causa del rimpatrio perderà di credibilità come motivo fondante del ricorso. In altre parole, la loro capacità di resistenza, di nascondersi e sfuggire all’incarcerazione, alla violenza alla morte, non è per il diritto che la prova di una colpa indegna.
E allora, di fronte all’inutilità del rimedio, non resta che augurare a ognuna di loro di resistere il più a lungo possibile. Di fuggire ancora, e di tornare.
La vicenda delle donne rimpatriate in questi giorni da Ponte Galeria è passata quasi del tutto sotto silenzio. Chi l’ha raccontata, ne ha riferito, certo con dovizia di particolari, aspetti diversi. La decisione di raccontarla svestendo i panni dei giuristi o degli studiosi è una scelta di militanza, che è ormai una necessità che non può essere più rinviata. A Ponte Galeria così come a ogni confine d’Europa.
Mleting Pot
21 09 2015
Reportage dalla staffetta #overthefortress: confini chiusi, proteste ed assenza di informazione
"Quanti bambini sono ancora presenti?" Bilal ci risponde un centinaio. Ne vediamo parecchi aggirarsi tra le tende, i più piccoli, nati pochi mesi fa, sono accuditi amorevolmente dalle madri, al riparo dal sole cocente che sfiora i 40°. Partorire e nascere in un viaggio così duro e provante: solo a pensarci fa venire i brividi. È la testimonianza di quanta forza e coraggio hanno queste persone sospese per un lasso di tempo non prevedibile tra la vita e la morte. Altri bambini giocano tra loro, notiamo dei neonati nell’angolo morbido allestito dai volontari sotto un gazebo. I pochi rubinetti dell’acqua aiutano a combattere la calura.
Siamo al valico serbo ungherese tra Horgos e Roszke, teatro di una pagina buia della storia dell’Europa fortezza.
Le cariche brutali della polizia ungherese contro le donne e i bambini che avevano oltrepassato la barriera hanno certamente lasciato il segno, in tanti hanno deciso di incamminarsi verso i valichi di Sombor / Beli Manastir, Tovarnik e Batina / Bezdan, ma un gruppo nutrito di persone non desiste. Sono sedute per terra, davanti a loro la cancellata rinforzata dal filo spinato tagliente. Hanno cartelli con scritto "dove sono i diritti umani", "niente cibo niente acqua, staremo qua per sempre", "per favore Merkel aiutaci", "non abbiamo più case, dovremo vivere qua", "questa è una vergogna per l’Europa".
Ci dicono di essere in sciopero della fame, chiedono di passare, sono stremati e privi di informazioni ufficiali e riscontrabili. Per Orban, il capo del governo ungherese, la linea della fermezza però non è negoziabile, il confine rimane chiuso e presidiato da un numero spropositato di poliziotti.
Le persone rimaste accampate in questo valico sono ancora quattrocento.
A dare supporto un esiguo numero di volontari locali, assieme a dei ragazzi tedeschi, cechi, ungheresi che, oltre ad aver allestito lo spazio bimbi, distribuiscono cibo e acqua potabile. Nessuna organizzazione non governativa è presente, poco il personale medico della Croce Rossa con un’ambulanza al seguito.
Verso le 11 arriva un pullman vuoto. La polizia comunica alle persone che verranno portate al confine con la Romania, poi da lì potranno proseguire verso la Germania. I migranti non si fidano e il pullman rimane vuoto. Hanno capito che il governo serbo vuole spostarli solo per allentare la pressione dal confine, inoltre temono di essere trasferiti in un centro di identificazione.
Le informazioni della polizia non sono verificabili, non ci sono né autorità che gestiscono la situazione, né associazioni riconosciute e fidate che possono garantire e accertare la proposta. La possibilità di conoscere se quello che gli viene detto è vero, quindi avere delle informazioni certe, non è un diritto contemplato. Le persone sono sospese in un limbo dove è il caso a decidere per loro. I loro connazionali sono bloccati negli altri valichi, nessuno sa bene come muoversi e dove dirigersi. Chiedono a noi di verificare se ci sono delle novità, se i paesi dell’Europa occidentale stanno dando delle indicazioni o se li lasceranno fermi e dimenticati.
Lo sciopero della fame e il caldo afoso si fanno sentire e gli operatori sanitari devono soccorrere Bilal che stremato si accascia a terra. Bilal è tra i promotori dello sciopero e fa parte del gruppo di famiglie siriane che ci raccontano la loro storia.
Ci dicono di essere fuggiti dalla Siria per colpa della guerra e di aver scelto inizialmente il Quatar. Nel paese del Golfo Arabo avevano un lavoro sottopagato e senza diritti, costantemente minacciati di espulsione. Hanno perciò deciso di intraprendere questo lungo viaggio per richiedere asilo in Europa. Dalla Turchia a bordo di un gommone, hanno tentato tre volte di raggiungere l’isola greca di Mitilene. La prima volta hanno iniziato a imbarcare acqua perché erano più del doppio della capienza sopportabile e sono tornati indietro; la seconda sono stati arpionati da un peschereccio che gli ha affondati rubando il mezzo, l’intervento tempestivo della guardia costiera li ha tratti in salvo; l’ultima invece è andata a buon fine. Dall’isola sono stati trasportati nell’entroterra greco, poi hanno viaggiato per settimane fino ad accamparsi in questo valico. Si sono spostati a piedi, in bus e in treno, in alcuni tratti hanno pagato dei "passeurs". Un signore ci dice di essere stato picchiato e derubato dei soldi che aveva. Ognuno di loro, se andassimo a fondo, avrebbe il suo aneddoto drammatico e unico da svelare.
Se solo ci mettessimo anche un piccolo istante a comprendere cosa si cela dietro la scelta di mettersi in cammino capiremmo che, non avendone altre a disposizione, l’istinto umano è più forte di qualsiasi paura. Spogliati di tutto non resta che aggrapparsi con tutte le energie e speranze alla vita, per avere e dare un futuro a se stessi e ai propri figli. Questa determinazione, che si chiama dignità, non potrà mai essere sradicata.
Li salutiamo e ci dirigiamo a Sombor, con l’intento di raggiungere Beli Manastir in Croazia e verificare se i migranti sono riusciti ad oltrepassare le frontiera. Le agenzie di stampa che riportano le parole del ministro croato danno per certo che i valichi sono transitabili. Quando alle 17 arriviamo al confine la realtà è però diversa: 300 migranti sono stati fermati e portati in un centro di identificazione serbo.
Il sindaco della città ci dice che la Croazia ha chiuso la frontiera in entrata e in uscita.
Constatiamo che è così e per raggiungere Beli Manastir siamo obbligati a raggirare il blocco passando dall’Ungheria, allungando la strada di 150 km.
Ogni valico è presidiato, la nostra auto viene perquisita, seconda la polizia potremmo nascondere un migrante nel bagagliaio o nel cofano. I camion sono fermi in lunghe code.
La follia securitaria dei confini sta producendo una reazione a catena anacronistica e molto pericolosa. Il passo verso il ritorno dei peggiori nazionalismi identitari è breve.
Staffetta #overthefortress, 18 settembre 2015
Meltingpot
21 09 2015
La staffetta #overthefortress giunge a Tovarnik, al confine tra Serbia e Croazia, dove continuano ad arrivare migliaia di migranti che restano sospesi per giorni in attesa di ripartire. Senza sapere per dove.
La fila in attesa dell’arrivo dei pullman si ingrossa a vista d’occhio. I migranti lasciano le loro valigie a “tenere il posto” mentre si riparano all’ombra o si rifocillano grazie alla distribuzione efficiente di generi di prima necessità dei volontari tedeschi e croati. Il flusso di persone in arrivo a Tovarnik è costante, il confine con la Serbia da questa mattina è riaperto a intermittenza, anche se è possibile attraversarlo solo a piedi. In poche ore le persone presenti, nello spazio adiacente alla stazione dei treni della cittadina croata, sono circa 3.000.
L’accampamento precario di Torvarnik è un’altra tappa obbligata del viaggio che per i migranti sembra non finire mai. La maggior parte delle persone sono arrivate ieri, alcune sono ferme da più giorni: donne, uomini, bambini, di tutte le età; tanti sono siriani, ma ci sono anche afgani , pakistani e bengalesi. I più fortunati sono riusciti a ripartire quasi subito, gli altri attendono pazientemente il loro turno: se venissero bloccati qui si creerebbe in poco tempo un piccolo villaggio, una “Jungle” come quella di Calais. Anche oggi però i pullman e il treno partiranno, ma nessuno sa l’ora e soprattutto quanti potranno salire e dove verranno portati.
Le informazioni, quando ci sono, sono poche e discordanti: Zagabria, Ungheria, Austria, il centro d’identificazione di Jerezo vicino alla capitale croata, sono quelle che circolano, ma non c’è nessuna certezza.
I migranti sono in ostaggio della diplomazia dei singoli Stati e dell’Unione Europea, costretti ad affidarsi a informazioni scarse e vaghe che li costringono a muoversi improvvisamente e velocemente da un luogo ad un altro spesso percorrendo molti chilometri a piedi.
Le modalità di gestione dei flussi migratori da parte dei diversi governi sono diversificate in relazione al momento: qui a Tovarnik stiamo assistendo a come, impossibilitati a bloccare migliaia di corpi in movimento, si sono arrogati il diritto di controllarne e deciderne i tempi e i luoghi, vincolando la libertà e le possibilità di scelta delle persone a criteri decisionali puramente diplomatici e burocratici, senza tenere conto dell’umanità e delle esigenze dei migranti.
Tutto questo si traduce in estenuanti attese durante le quali le persone sono abbandonate a sé stesse, obbligate a soste e ripartenze improvvise, sospesi in un’infinita odissea tra i confini alle porte d’Europa. Gli ostacoli che incontrano lungo il percorso sono innumerevoli e di diversa natura: fisici, pratici ma nondimeno psicologici: alla stanchezza di un viaggio che può durare parecchi mesi si aggiunge la frustrazione di una meta che si allontana di giorno in giorno ma nonostante ciò resta l’obiettivo irrinunciabile; a questa si somma inoltre l’incertezza dovuta a un sistema di gestione che non fornisce né informazioni né aiuti; anzi: spesso i migranti sono vittime di raggiri da parte delle stesse istituzioni, con finte aperture di varchi seguite da respingimenti immediati.
In queste zone di confine, di passaggio da uno Stato all’altro il migrante è considerato una merce di scambio tra i vari capi di governo, un oggetto legato ad interessi geopolitici nazionali e sovranazionali, irresponsabilmente scaricato o accolto a seconda della convenienza del momento.
A Tovarnik, come a Horgos, gli unici interventi umanitari sono organizzati e gestiti dal basso da volontari e associazioni di base che in pochi giorni sono riusciti, senza grossi mezzi e finanziamenti, a mettere in piedi raccolte di fondi e materiali di prima necessità, ad allestire spazi attrezzati con cucine da campo, tende e punti di distribuzione di vestiario e coperte. Il sostegno umanitario di queste iniziative, non dissimili da quelle di altri luoghi, se da un lato dimostra che la solidarietà è un valore presente in tutti i paesi europei e si muove lungo canali concreti e di mobilitazione sociale, dall’altro mette in luce le carenze strutturali delle “grandi” organizzazioni non governative che per motivi politici e di interdipendenza dai governi sono del tutto assenti in queste circostanze.
Di fronte a questo scenario le persone dimostrano la loro determinazione riuscendo a coniugare lucidamente momenti di attesa ad altri dove, per aprire i varchi, è necessario fare pressione reagendo all’apatia e alla perdita di speranza cui facilmente questa situazione potrebbe portare.
È così che anche oggi le persone sono rimaste pazienti e sono riuscite ad autogestirsi aspettando il loro turno prima di salire sugli autobus. Dalle 15.30, quando è arrivato il primo pullman, circa una ventina si sono susseguiti fino a sera. Alle 19 si è aggiunto un treno di cui si sentiva parlare dalla mattina: né i pullman né il treno portavano alcuna indicazione sulla destinazione ma nonostante questo sono stati visti come l’unica possibilità per continuare il cammino.
Lasciamo la stazione di Tovarnik alle 20, quando meno della metà delle persone in attesa era riuscita a salire, accompagnati dai saluti e dai ringraziamenti di chi si affollava ai finestrini. Ce ne andiamo con la consapevolezza che il loro viaggio non è finito e con la convinzione che quanto abbiamo visto non costituisce nemmeno in minima parte una soluzione per quanti continuano e continueranno ad attraversare la rotta balcanica.
Staffetta #overthefortress
Connessioni Precarie
21 09 2015
Lo scorso 17 settembre nel pomeriggio una trentina di donne nigeriane è stata rimpatriata con un volo speciale della Meridiana da Roma-Fiumicino verso Lagos. Circa venti di loro facevano parte di un gruppo di 66 donne, sbarcate in Sicilia a fine luglio e trasferite al CIE di Roma – Ponte Galeria sulla base di un criterio per cui, quando i centri CARA per richiedenti asilo sono troppo pieni, i migranti intercettati in mare o durante gli sbarchi vengono portati nei CIE. La potenza della legge si misura soprattutto nella sua capacità di fare cose con le parole: basta ritardare il momento in cui viene data la possibilità di inoltrare la domanda d’asilo, e i profughi diventano per legge «clandestini» che hanno eluso i controlli di frontiera e passibili, come in questo caso, di essere trattenuti in un centro di identificazione e di espulsione. La scelta tra chi trasferire nei CARA e chi nei CIE segue regole tacite (tanto più indicibili quanto più osservate), che rispecchiano i paesi di provenienza. Se si proviene dalla Nigeria è molto probabile che il CARA sia pieno e il posto si trovi solo al CIE.
Durante l’estate, il caso delle 66 donne ha avuto qualche eco sulla stampa, sia per l’interessamento di alcune campagne di attiviste e attivisti, sia perché i giornali potevano parlare delle donne, tutte giovanissime, come di potenziali «vittime di tratta». Anche in questo caso, le qualificazioni del diritto dovrebbero far riflettere. Vittime sì, ma non di qualsivoglia carnefice. Solo poche tra loro hanno ottenuto in prima battuta uno status di protezione. Ancora una volta, la scelta ha seguito regole non dette, chi portava sul corpo le cicatrici delle violenze è stato preferito. Corpi del sacrificio, riconosciuti solo come tali. E quindi corpi sacrificabili, come i corpi delle donne che sono state rimpatriate.
Ognuna di queste donne è sicuramente vittima, non di uno ma di molteplici carnefici. Il patriarcato, le guerre, l’industria del sesso, gli scafisti, e non da ultimo l’apparato repressivo del regime dei confini europei. Ma la maggior parte di loro ha scelto di rappresentare la propria istanza come un’istanza politica, chiedendo asilo. È vero, la tradizione del diritto d’asilo si è sempre mossa su di un terreno ambiguo. L’identità politica che esso rivendica è, in primo luogo, quella della comunità ospitante. La prerogativa di accogliere chi si riconosce come esule politico è sopra ogni altra cosa una rivendicazione di sovranità nei confronti degli altri Stati. Basti pensare che, nel processo di secolarizzazione dell’asilo, alla costruzione giuridica del diritto d’asilo si è sovrapposta quella del divieto di estradizione. Eppure, proprio in virtù di questa rivendicazione di identità politica, le radici profonde dell’asilo non sono da ricercarsi nel rifugio concesso alle vittime, bensì nell’immunità riconosciuta al reo in quanto colpevole.
Anche i corpi delle donne rimpatriate, così come quelli delle altre ancora trattenute, portano i segni di una colpa. Quella di aver scelto di salvarsi da sole, fuggendo dai molteplici carnefici incontrati sulla propria strada. Non può essere detto, ma si tratta di una colpa inaccettabile. Potremmo attribuirle nomi diversi hubrys, tracotanza, sfacciataggine o più semplicemente indolenza, indifferenza verso un ordine. Probabilmente, nessuna offesa è più insopportabile di questa.
Se il diritto la riconosca come una colpa degna di protezione, non è dato saperlo. Mentre le donne venivano rimpatriate il Tribunale disponeva per alcune di loro l’ordine di sospensione dell’esecutività del rimpatrio, in attesa della decisione definitiva sulla protezione internazionale. Ma, in alcuni casi, la decisione è arrivata troppo tardi; tecnicamente, una volta che l’aereo è in fase di decollo, l’ordine di sospensione è improcedibile. Non si tratta dello stato di eccezione (una volta tanto sarebbe forse il caso di chiarirlo), ma del funzionamento normale della giustizia. Non di quella corrotta e inefficiente, ma di quella ordinaria, legittima e legittimata attraverso un meccanismo decisionale. A ogni violazione corrisponde un rimedio, un’altra possibilità di decisione.
Anche in questo caso, anche per le donne rimpatriate, esiste una possibilità di rimedio (per esempio di fronte alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) che si rivelerà tanto più efficace quanto più rapida sarà la proposizione dell’istanza per una nuova decisione (innanzitutto sulla procedibilità del ricorso). Può sembrare uno scioglilingua per giuristi ma, tradotta nel linguaggio profano della vita, la questione di merito non significa altro che, ogni giorno che passa, il «pericolo imminente» corso dalle donne a causa del rimpatrio perderà di credibilità come motivo fondante del ricorso. In altre parole, la loro capacità di resistenza, di nascondersi e sfuggire all’incarcerazione, alla violenza alla morte, non è per il diritto che la prova di una colpa indegna.
E allora, di fronte all’inutilità del rimedio, non resta che augurare a ognuna di loro di resistere il più a lungo possibile. Di fuggire ancora, e di tornare.
La vicenda delle donne rimpatriate in questi giorni da Ponte Galeria è passata quasi del tutto sotto silenzio. Chi l’ha raccontata, ne ha riferito, certo con dovizia di particolari, aspetti diversi. La decisione di raccontarla svestendo i panni dei giuristi o degli studiosi è una scelta di militanza, che è ormai una necessità che non può essere più rinviata. A Ponte Galeria così come a ogni confine d’Europa.