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Flash news

Amnesty International
18 09 2015

Cuba vive un momento di grande apertura nelle relazioni internazionali. Tuttavia, nel campo dei diritti umani, nonostante evidenti progressi (quali il rilascio dei prigionieri politici e la riforma della legislazione in materia di emigrazione, attraverso l'abolizione del visto obbligatorio di uscita), i diritti alla libertà d'espressione, di associazione, riunione e movimento non sono ancora garantiti.
La Cuba di oggi è un paese nel quale non vi sono più prigionieri di coscienza condannati a scontare lunghi periodi di detenzione sotto un duro regime carcerario. La strategia delle autorità è ora quella di promuovere campagne diffamatorie nei confronti dei dissidenti e vessarli con brevi ma ripetuti periodi di carcere.

Secondo la Commissione cubana per i diritti umani e la riconciliazione nazionale, ad agosto vi sono state 768 brevi incarcerazioni per motivi politici, in aumento rispetto alle 674 del mese precedente.

A entrare e uscire dalle prigioni cubane sono attivisti per i diritti umani, giornalisti indipendenti e promotori di manifestazioni pacifiche o di incontri privati. A volte, gli arresti sono eseguiti alla vigilia di annunciate manifestazioni, per impedirvi la partecipazione.

Se in passato per condannare i prigionieri di coscienza si ricorreva soprattutto all'articolo 91 ("atti dannosi per l'indipendenza e l'integrità territoriale commessi nell'interesse di uno stato estero") e all'articolo 88 ("possesso di materiale sovversivo") del codice penale, oggi si usano per lo più le norme relative a "disordini pubblici", "oltraggio", "vilipendio", "aggressione" e "pericolosità": concetti generici, resi ancora più vaghi dalla loro descrizione.

L'articolo 72 ne è un esempio evidente: il testo stabilisce la "pericolosità" di una persona qualora manifesti "inclinazione a compiere crimini": un'inclinazione "dimostrata da una condotta in palese contraddizione con le norme della morale socialista". L'articolo 75 prevede poi che la "pericolosità" possa essere sanzionata anche da un agente di polizia.

Lo stato ha il completo monopolio su tutti i mezzi d'informazione, compresi i fornitori di servizi Internet. L'articolo 53 della Costituzione riconosce e limita al tempo stesso la libertà di stampa, proibendo espressamente la proprietà privata dei mass media.
Tutte le associazioni civili e professionali nonché i sindacati che non siano sottomessi al controllo dello stato e alle organizzazioni di massa governative non ottengono il riconoscimento ufficiale. L'articolo 208 del codice penale prevede da uno a tre mesi di carcere per l'appartenenza a organizzazioni non ufficiali e da tre a nove mesi per chi le dirige.

Il potere giudiziario è fortemente controllato dallo stato. Presidente, vicepresidente, gli altri giudici della Corte suprema, il procuratore generale e il suo vice sono eletti dall'Assemblea nazionale e gli stessi avvocati difensori sono impiegati statali che raramente osano contestare la pubblica accusa o le prove presentate nei processi dai servizi segreti.

L'abolizione del visto obbligatorio di uscita dal paese ha consentito a molti cubani di recarsi all'estero, con l'eccezione di 15 ex prigionieri di coscienza rilasciati nel 2011 e che a differenza di altri hanno preferito rimanere in patria piuttosto che andare in esilio in Spagna. A nessuno di loro è consentito di lasciare il paese.

Persistono poi i cosiddetti "atti di ripudio": manifestazioni organizzate dalle autorità, di solito sotto l'abitazione di dissidenti e attivisti, cui prendono parte sostenitori del governo e pubblici ufficiali. La polizia osserva senza intervenire.All'apertura nelle relazioni internazionali coi governi, non ha fatto ancora seguito quella con gli organismi indipendenti sui diritti umani: l'ultima occasione in cui ad Amnesty International è stato permesso di visitare Cuba risale al 1988.

La ripresa delle relazioni diplomatiche tra Cuba e Stati Uniti d'America non ha comportato la fine delle sanzioni finanziarie ed economiche da parte di Washington.

L'Organizzazione mondiale della sanità, l'Unicef e Amnesty International hanno più volte denunciato, nel corso di questi decenni, l'impatto dell'embargo sui diritti economici e sociali della popolazione cubana, tra cui i diritti al cibo, alla salute e all'igiene.

Queste sanzioni ormai anacronistiche vanno annullate al più presto.


Cronache di ordinario razzismo
17 09 2015

Qui di seguito l’appello lanciato in queste ultime ore dalla Cild Italia

In queste ore 20 ragazze nigeriane stanno subendo un provvedimento di rimpatrio forzato (dal Cie di Ponte Galeria), nonostante vi sia la decisione di sospensiva presa dal tribunale di Roma.

Invitiamo il ministero degli Interni a fermarsi urgentemente e andare a verificare uno a uno i provvedimenti di sospensiva ottenuti dagli avvocati della clinica legale dell’Università di Roma Tre.

Da giorni la campagna LasciateCIEntrare aveva lanciato l’allarme del rimpatrio possibile.

La Nigeria è un paese dove si rischia la vita a causa della attività del gruppo terroristico di Boko Haram, dove il ministero degli esteri sconsiglia di andare. Ma ciò è irrilevante per le 20 ragazze nigeriane.

“Oggi il sotto-Comitato Onu contro la tortura ha iniziato la sua prima visita ispettiva in Italia. Ieri una delegazione del Comitato ci ha incontrato – dichiara Patrizio Gonnella, presidente della Coalizione delle libertà civili in Italia. “Non è questa una bella accoglienza da parte delle autorità italiane.”

la Repubblica
17 09 2015

L'emergenza profughi costringe l'Europa a riflettere sul modo in cui sta procedendo il progetto di "fare gli europei".

Un secolo fa ci si dilaniò in una guerra catastrofica e distruttiva.

Un secolo dopo, il 10 dicembre 2012, all'Unione europea è stato attribuito il premio Nobel per la pace in virtù del suo contributo "alla costruzione di un continente di pace e di riconciliazione e di un modello sociale "fondato su Welfare e la Carta dei diritti fondamentali". ...

Atlas
17 09 2015

Leoni, leopardi, bufali e giraffe sono tornati in Somalia a distanza di anni dalla loro scomparsa nel paese del Corno d’Africa. Lo hanno riferito varie fonti somale secondo cui gli animali proverrebbero dalla foresta keniana di Boni.

A causare questa migrazioni sarebbero le operazioni militari in corso a Boni che vedono confrontarsi esercito keniano e guerriglieri shabaab.

Gli animali sono stati avvistati in diversi luoghi del Basso Giuba, area che fino al 1991 – anno di inizio del conflitto civile – era in effetti abitata da leoni, giraffe e altri animali.

Fino a quando la regione resterà priva di un effettivo governo e di sicurezza la situazione resterà comunque instabile anche per questi animali, in cerca di pace come il popolo somalo.

West
17 09 2015

Un’App per prevenire il suicidio tra i giovani Gay? Questa è la sfida di “Tony“. Che permette ai ragazzi di trovare le risposte che riguardano la loro sessualità. Il protagonista è appunto Tony, un giovane gay cresciuto nell’Île-de-France che, passato già attraverso l’esperienza del coming out, sa dare preziosi consigli. Attraverso la App, infatti, gli utenti hanno accesso a numerosi quiz e moduli, che conciliano il tema della prevenzione con quello del divertimento.

Tenendo monitorati i mini-questionari è possibile monitorare chi è più in difficoltà indirizzandoli verso le associazioni e le organizzazioni competenti. Presentata alla Giornata Mondiale contro il suicidio, questa applicazione sembra aver già trovato un vasto seguito. Un buon risultato, se si pensa che in Francia, il numero delle persone che si tolgono al vita tra la popolazione LGBTI è quattro volte più alto della media.

Beatrice Credi

DazebaoNews
17 09 2015

"Vieni a letto con me od altrimenti non ti concedo il mutuo". Era in pratica questo il ricatto di un funzionario di banca di Reggio Calabria, S.D. di 43 anni, che è stato raggiunto da una misura interdittiva disposta dal tribunale ed eseguita dai militari della Guardia di finanza.

Secondo quanto ricostruito in una nota dei militari il bancario ha abusato della sua funzione e minacciando la mancata concessione di un mutuo, avrebbe preteso di avere rapporti personali ed intimi con una cliente. Dopo i gravi fatti la donna si è rivolta ai finanzieri che, dopo accurate indagini, hanno chiuso il cerchio attorno all'impiegato. Nei confronti dell'uomo il giudice ha disposto la misura interdittiva per due mesi, vietando temporaneamente ad esercitare le attività professionali connesse all'esercizio del credito ed alla sua posizione di direttore. Il provvedimento - si sottolinea - è stato anche notificato all'Istituto di credito interessato per i provvedimenti interni di sua spettanza.

Melting Pot
16 09 2015

L’isola di Nauru si trova nell’Oceano Pacifico, appena sotto l’equatore e l’isola più vicina, Ocean, si trova a circa trecento chilometri di distanza. Non ha una capitale amministrativa ma la città maggiormente abitata è Yaren. Si tratta della repubblica più piccola del mondo con un’estensione di circa 21 kmq e con una popolazione di circa 14.500 abitanti (di cui il 35% ha meno di quindici anni).
Dal 2001 un’altra importante caratteristica di Nauru è il campo di accoglienza che l’Australia ha installato secondo l’operazione Pacific Solution. Quest’ultima operazione messa in atto tra il 2001 e il 2007 prevede il respingimento dei barconi e la detenzione dei richiedenti asilo in centri offshore. La maggior parte dei barconi viene dirottata verso l’isola di Nauru o l’isola di Manu in Papua Nuova Guinea.
L’Australia ha infatti delle leggi molto severe riguardo ai richiedenti asilo, siano essi adulti o bambini. Attraverso l’operazione Pacific Solution i richiedenti asilo non vengono fatti entrare nella zona marittima sotto il controllo australiano, ma vengono direttamente rinviati verso nuovi centri di detenzione in isole vicine. Inizialmente il piano prevedeva l’installazione dei richiedenti asilo in case moderne, con l’aria condizionata che sarebbero state costruite per i campionati mondiali del sollevamento pesi (International Wighlifting Federation). La proposta iniziale non venne mai messa in pratica e vennero invece costruiti due campi: Topside e Campside entrambi nel distretto di Meneng.

Isola di Nauru
Nel 2001 l’Australia è stata messa in imbarazzo a livello internazionale dal caso Tampa da cui sono scaturite anche delle tensioni diplomatiche con la Norvegia. L’Australia era stata accusata di violare i diritti umani dopo aver vietato l’accesso alla zona marittima ad una nave norvegese che aveva soccorso circa 438 persone di nazionalità principalmente afghana. La maggior parte dei richiedenti asilo afghani venne poi dirottata verso il centro di detenzione di Nauru dove iniziarono numerose proteste tra cui uno sciopero della fame nel 2003.
Il modo in cui il governo australiano tratta i richiedenti asilo e i rifugiati politici è vergognoso. Secondo alcune statistiche effettuate il 30 giugno 2014, il numero dei richiedenti asilo presenti a Nauru risultava essere 1.169. Essendo Nauru un’isola molto piccola, è impossibile soddisfare i bisogni di tutti i richiedenti asilo presenti: un’abitazione dignitosa, accesso all’acqua potabile, educazione, salute...

Child asylum seekers on Nauru stage a protest (www.theguardian.com )
L’Australia ha cercato di ridurre al minimo l’accesso esterno al campo di detenzione: alcune agenzie dell’ONU e alcune ONG tra cui Amnesty International si sono visti rifiutare più volte il permesso di accedere al campo. Il rifiuto ad Amnesty è stato giustificato riferendosi alle “attuali difficili circostanze”. Difficile capire il significato di queste parole. A febbraio del 2014 il costo del permesso di entrata per i giornalisti è aumentato in maniera vertiginosa. Non vi è quindi nulla di più chiaro: il governo australiano vuole far dimenticare al pubblico il centro di detenzione di Nauru e tenere quindi alla larga giornalisti e ONG.
La domanda è spontanea: perché? Che cosa succede in questo campo di così segreto?
Una spiegazione è stata avanzata da un rapporto di Amnesty in cui vengono descritte le condizioni di vita dei richiedenti asilo. Il rapporto è agghiacciante.
Le persone vengono stipate in spazi ristretti, molti soffrono di problemi fisici e mentali dovuti alle condizioni di vita deplorevoli. Gli individui si trovano in una situazione di limbo, di completa incertezza riguardo al futuro: all’arrivo infatti non è stata fornita alcuna informazione né sostegno legale. Un aspetto preoccupante delle condizioni di vita dei richiedenti asilo a Nauru riguarda la salute. A questo proposito, quindici dottori dell’International Health and Management Services hanno redatto una relazione per denunciare lo stato fisico delle persone e il livello insufficiente di cure offerte dal centro. Si tratta di un report di circa 80 pagine, ma ciò che salta subito all’occhio è che i centri di accoglienza non sono in grado di assicurare le condizioni minime di salute e di sanità mentale. Dignità del paziente compromessa, cure mediche basilari negate, perdita di medicine e referti, ritardo nell’inizio delle cure, condizioni di lavoro non salubri, standard internazionali non rispettati… Secondo un rapporto dell’UNICEF del 2012 il tasso di mortalità infantile a Nauru era di 40 volte maggiore rispetto all’Australia.

Richiedenti asilo diretti in Australia in un centro di detenzione temporanea a Ladong, in Indonesia, il 20 agosto 2013. (Hotli Simanjuntak, Epa/Corbis)
L’Australia ha quindi un problema con i rifugiati? A quanto pare sì. L’ultima notizia che arriva da Canberra è che nel 2014 il governo ha stretto un accordo con la Cambogia per il trasferimento di alcuni profughi. L’accordo è costato l’equivalente di 34 milioni di euro, ma per ora solo alcune persone hanno scelto il trasferimento da Nauru.
Il primo ministro australiano, Tony Abbott, è stato il principale autore dell’attuale politica dell’immigrazione. Purtroppo, come spesso accade nel mondo della politica, Abbott è un esperto nel far buon viso a cattivo gioco. Di fronte alla foto del corpo di Aylan Kurdi sulla spiaggia della Turchia, Abbott, sulla scia del buonismo e dell’ipocrisia, ha commentato definendola “molto triste” e ribadendo la necessità di fermare l’arrivo dei barconi per fermare morti e annegamenti.
Il governo continua a dimostrare di essere irresponsabile, poco trasparente e incompetente nel tema dell’immigrazione, in particolare dei richiedenti asilo. Nonostante le ripetute richieste e denunce dalla comunità internazionale, da l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, da Amnesty e altre ONG internazionali, il governo continua a ripetere che il problema riguarda Nauru e Papua Nuova Guinea… Per quanto tempo ancora?

- Maggiori informazioni riguardanti la salute mentale dei richiedenti asilo sono disponibili al link: http://www.theguardian.com/world/video/2014/aug/04/peter-young-asylum-mental-health-video

* Foto di copertina: Una veglia per i migranti a Sydney, in Australia, il 7 settembre 2015. (Daniel Munoz, Getty Images)

Il Grande Colibrì
16 09 2015

L'associazione queer Boys of Bangladesh [ilgrandecolibri.com] ha presentato al British Council di Dhaka il primo fumetto a tematica lesbica del paese: "Dhee" (saggezza) affronta i pregiudizi che circondano la sessualità femminile, il corpo ed il ruolo delle donne [dhakatribune.com]. Anche l'India del sud festeggia una sua prima storia lesbica, anche se in questo caso parliamo di cinema: domani uscirà nelle sale dell'India meridionale il film "141", per la regia di Bhavaji. Finalmente. Perché, dopo un braccio di ferro durato due anni (il film era pronto già nel 2013), solo ora l'ufficio per la censura ha permesso la proiezione del film, anche se ha vietato di pubblicizzarlo, nonostante non vi siano scene "esplicite" [indiatoday.intoday.in]. Ma in India si discute anche della serie di fotografie "Coming out" del fotografo indiano Arjun Kamath, con al centro una storia d'amore tra donne dal finale tragico [facebook.com].

Sono passi piccoli, ma importanti per rompere la cappa di silenzio che avvolge l'omosessualità femminile in tutto il subcontinente indiano. E, per quanto riguarda gli uomini gay, le cose non vanno molto meglio. "La disinformazione è troppa, il pregiudizio è troppo e, unendosi a problemi legati a povertà, religione e genere, forma un problema unico in India" sostiene il comico statunitense di origini indiane Nik Dodan, che pure in India non ha mai messo piede [pinknews.co.uk]. E la legge non aiuta: nel 2009 l'Alta corte di Delhi, presieduta dal giudice A.P. Shah, aveva dichiarato incostituzionale la sezione 377, eredità della colonizzazione britannica, che criminalizza l'omosessualità, ma in seguito la Corte suprema indiana, sotto la pressione delle comunità religiose, ha reintrodotto il reato [ilgrandecolibri.com]. Si è trattato di un grande errore, dice Shah [timesofindia.indiatimes.com].

E che dire delle hijra, le "transgender" indiane? Nonostante notevoli passi avanti, la loro situazione resta sempre molto difficile [ilgrandecolibri.com]. Banu, studentessa trans di ingegneria di Chennai, risponde così: "Ho chiesto assistenza finanziaria al governo per vivere con dignità. Non voglio fare la carità o le altre attività che la società associa tradizionalmente alle donne trans. Non ottengo lavori part-time perché sono trans e non posso pagare i miei studi. Le autorità non vogliono prendere iniziative per offrirci fonti di sostentamento alternative". Lei e altre donne trans hanno allora avanzato una richiesta shock al governo: "Dateci l'eutanasia" [thehindu.com]. Anche altre attiviste lamentano il fatto che i miglioramenti previsti sulla carta non hanno prodotto molti effetti sulla vita delle hijra [thetypewriter.org]

L'anno scorso, ad aprile, è stata approvata un'importante legge sui diritti delle persone transgender, che dovrebbe assicurare inclusione sociale ed economica, incentivi alle assunzioni, assegni di disoccupazione, servizi sociali, oltre a proibire la discriminazione basata sull'identità di genere e a istituire una linea amica per raccogliere le denunce. Ma purtroppo a maggio ha vinto le elezioni il candidato di destra, Narendra Modi: sotto la sua presidenza, il percorso di emancipazione delle hijra ha subito una brusca frenata, distruggendo il sogno di un futuro migliore. Eppure qualche segnale positivo continua ad esserci: ad esempio, nel Tamil Nadu, a sud, i giudici hanno imposto alla polizia di accettare la candidatura di una ragazza trans, K Prathika Yashini [indiatimes.com].

Un altro segno di speranza arriva dalla partecipazione di un gruppo di hijra pakistane alla tradizionale festa di Bhujaria: un colorato corteo di donne transgender ha percorso, tra canti e danze, le strade di Bhopal, in India centrale [catchnews.com]. Ma non è stata l'unica parata variopinta del subcontinente indiano: a Kathmandu, capitale del Nepal, centinaia di persone hanno celebrato il Pride chiedendo l'introduzione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso. Il Nepal nel 2007 ha cancellato il reato di omosessualità e ha riconosciuto l'esistenza del "terzo sesso" (quello in cui si identificano le hijra della regione). Ora si chiede che i diritti delle minoranze sessuali siano introdotti nella nuova costituzione che si sta redigendo proprio in questi mesi [bbc.com]. Sarebbe un ottimo esempio anche per gli stati vicini...


Pier
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Infoaut
16 09 2015

E' notizia di pochissimo tempo fa che la polizia tedesca ha sparato a salve verso decine di persone che hanno tentato di passare dalla frontiera che separa Austria e Germania. Allo stesso tempo, a Rozske e in altri punti dell' Ungheria assistiamo al faccia a faccia tra forze militari e migliaia di persone accalcate alle recinzioni che fanno pressione tentando di oltrepassarle e/o abbatterle in barba al contingente repressivo da vero e proprio stato di guerra.

Senza incontrare particolari ostacoli o ammonimenti di nota per quanto riguarda la propria condotta, lo sciovinista Orban accelera nella costruzione delle barriere divisorie con tanto di filo spinato al confine con la Serbia. Alte tre metri e mezzo, sono state erette anche nella scorsa notte in faccia a migliaia di persone in transito nel paese ungherese, ora obbligate a rimanere senza destinazione per corollare quello che il Governo nazional-socialista di Budapest ha definito “l'inizio di una nuova era”.

Approfittando di una situazione di continuo ripensamento sulle misure da adottare in seno ai rappresentanti dell' UE a Bruxelles, la polizia ungherese ha accelerato la sua condotta discriminatoria-repressiva nei confronti in particolare dei siriani e degli afgani che si stanno accalcando ai margini delle frontiere chiuse (9mila sarebbero entrati in Ungheria solamente nella giornata di ieri, secondo le fonti ufficiali), e lo stato d'eccezione si allarga geograficamente mutandosi in regola a partire dai confini meridionali per passare a tutti gli snodi logistici del Paese.

Non a caso gli arresti arbitrari delle ultime 24 ore sono saliti esponenzialmente: un trend preoccupante considerando il fatto che, se da un lato sono stati annunciati finanziamenti straordinari interni e da parte dell' Unione per “l'accoglienza”, al contempo i centri di detenzione, identificazione e le carceri ungheresi non sono di certo atte a contenere altre migliaia di persone se non in condizioni disumane e intollerabili.

Se da una parte le mosse di Berlino, dettate dal tornaconto, hanno controbilanciato l' aggressività delle destre continentali, dall'altro lato l'intransigenza ungherese fa da traino proprio a queste ultime, rendendo la situazione alle proprie frontiere sempre meno sostenibile, tanto che nelle ultimissime ore per l'appunto si ha notizia di spari da parte della polizia tedesca alla frontiera con l'Austria..

Communianet
16 09 2015

Pubblichiamo la trascrizione di un intervento video di Eric Toussaint, portavoce del Cadtm International che ricostruisce il percorso che ha portato alla scelta di Tsipras di firmare il nuovo memorandum

La questione del debito greco è assolutamente centrale. A partire dal maggio 2010 e dal primo memorandum e dal momento in cui si è costituita la troika tra il Fondo Monetario Internazionale, la Banca centrale europea e l’Unione Europea, la questione resta assolutamente centrale anche nel corso dei prossimi anni.[1]

La commissione di audit cittadino del 2010
Nel dicembre 2010, la deputata Sofia Sakorafa interviene al Parlamento dicendo che bisognerebbe creare una Commissione di audit del debito greco ispirandosi dall’Ecuador che ne aveva costituita una nel 2007-08. La deputata fa riferimento alla mia partecipazione a quell’esperienza e dice che si potrebbe richiedere il mio aiuto.[2] Era chiaro che quel Parlamento, dominato dal PASOK e da Nuova Democrazia, non aveva alcun interesse a fare chiarezza sul debito, e quindi la proposta è stata respinta. Con una serie di movimenti sociali e la deputata Sofia Sakorafa si è deciso di creare un’iniziativa di audit cittadino del debito.[3] Sono occorsi alcuni mesi per lanciarla. Si è messo a punto un dispositivo di lancio, ad esempio appoggiandosi sulla realizzazione di un documentario, “Debtocracy”, del cineasta Aris Chatzistefanou, che avrebbe avuto una parte molto importante nella diffusione della proposta. Il documentario è stato scaricato in 6 settimane da più di 1,5 milioni di persone su una popolazione di 10 milioni; è dunque un’eco estremamente importante. Evidentemente non è passato sulle reti delle TV private o pubbliche ma ha avuto una risonanza straordinaria.[4] La popolazione che aveva partecipato a un grande numero di scioperi si è lanciata, sulla scia del movimento degli indignati spagnoli, nell’occupazione delle piazze pubbliche di molte di città, a partire da Atene e Salonicco, ma la cosa ha toccato città medie nei mesi di giugno e luglio 2011. I membri del Comitato di audit cittadino hanno trovato un’eco straordinaria a una proposta che presentava i risultati preliminari della rimessa in discussione dei debiti pretesi dalla Grecia e la spiegazione di come la Grecia aveva accumulato un debito tale che lo si poteva considerare illegittimo.

La posizione della direzione di Syriza rispetto al Comitato di audit cittadino del 2011.
Dal lato delle forze politiche organizzate a sinistra, c’era un assai scarso entusiasmo a sostenere questa iniziativa. Dal lato di Syriza, persone come Lafazanis [5], che in seguito è diventato ministro del governo Tsipras a partire dal gennaio 2015, o un’altra ministro del governo Tsipras, Nadia Valavani [6], sono persone che fin dall’inizio, vale a dire dal 2011, si sono impegnate nel sostegno alla Commissione, ma dal lato della maggioranza di Syriza non c’era proprio entusiasmo. Ad esempio, il ministro delle Finanze del governo Tsipras, Yanis Varoufakis, ha dichiarato quando lo abbiamo contattato nel 2011, che non poteva sostenere l’iniziativa di audit cittadino, perché se in seguito all’audit si trattava di proporre una sospensione del pagamento, ciò avrebbe riportato la Grecia all’età della pietra, ha scritto in una lettera pubblica.[7] Il che permette di capire delle cose che sono successe nel 2015 e il tipo di posizione assunta da uno come Varoufaki7]s.

Il programma di Syriza nelle elezioni legislative del maggio/giugno 2012
L’iniziativa di audit cittadino ha finalmente trovato un’eco in Syriza malgrado le difficoltà di partenza, e Syriza ha ripreso la proposta nel suo programma in cinque punti [8] per le elezioni di maggio, poi di giugno2012, per le quali i cinque punti erano:
1) L’abrogazione delle misure di austerità;
2) La sospensione del pagamento del debito fino al ritorno della crescita – ciò che implicava evidentemente tutta un’altra politica – e legare la sospensione del pagamento alla realizzazione dei un audit;
3) La socializzazione delle banche;
4) L’abolizione dell’immunità parlamentare per i responsabili;
5) Misure fiscali importanti per fare pagare quelli che avevano approfittato della crisi e che erano al riparo della fiscalità.
Con un tale programma radicale, Syriza ha compiuto un’avanzata elettorale molto importante, in quanto è passata dal 4% nel 2009 al 27% nel 2012, diventando il secondo partito dopo Nuova Democrazia, con una differenza di soli 2 punti. A partire da quel momento, Syriza è apparsa come una forza capace di accedere al governo nei mesi seguenti o qualche anno dopo.

Fine 2012: la direzione di Syriza modera le sue proposte
Quel che è veramente sconcertante è che mentre Syriza dimostra con il suo risultato che la sua radicalità trova un’eco nella popolazione greca, in particolare con la proposta della sospensione di pagamento del debito, la posizione della maggioranza di Syriza e di Alexis Tsipras è di moderare queste proposte con l’idea, secondo me sbagliata, che se Syriza arrivasse al governo le sarebbe difficile applicarla in pratica, mentre i cinque punti erano elementi assolutamente chiave nella soluzione da dare alla crisi. Non si può immaginare di abbandonare le politiche di austerità se non si risolve in maniera radicale la questione del debito. È impossibile abrogare una serie di misure se non si riduce radicalmente il debito. Perciò occorreva combinare l’abrogazione di una serie di misure imposte dalla troika, con la messa in pratica di una sospensione del pagamento e la riduzione radicale di una parte del debito, e bisognava anche trovare una risposta dal lato delle banche e della fiscalità. Ora, nell’ottobre 2012, quando sono invitato a tenere una conferenza al 1° festival dei giovani di Syriza [9], mi ritrovo in una discussione faccia a faccia con Alexis Tsipras, e di fatto mi rendo conto che lui sta abbandonando la proposta di sospensione di pagamento e sull’audit del debito e si orienta piuttosto verso un negoziato per ottenere una riduzione del debito da parte dei creditori senza ricorrere alla sospensione di pagamento, e gli comunico il mio stupore.
Lui risponde che il programma in cinque punti è mantenuto, ma mi rendo conto che non è la prospettiva concreta di Tsipras.

Ottobre 2013: Alexis Tsipras auspica una conferenza europea sul debito pubblico
Un anno dopo, Tsipras mi invita nuovamente e mi chiede di collaborare alla preparazione di una grande conferenza europea sul debito per ridurre il debito della Grecia, sull’immagine di quanto era successo con la conferenza di Londra del 1953, quando i vincitori della Seconda Guerra mondiale hanno concesso una riduzione molto importante del debito alla Germania dell’Ovest. Abbiamo avuto una discussione e io gli ho detto che mi sembrava perfettamente legittimo che lui interpellasse le opinioni pubbliche europee e le istituzioni europee per dire loro che sarebbe occorsa una conferenza europea sul debito, ma che non c’era nessuna possibilità di ottenerla. Bisogna assolutamente combinare questa idea con quella di un audit e con una sospensione di pagamento. La discussione termina con la proposta che io partecipi a un nucleo preparatorio di una conferenza europea sul debito che si doveva tendere nel marzo 2014, ma nel frattempo la proposta non era stata sostenuta in quella forma dal partito della sinistra europea, che finisce per convocare una conferenza a Bruxelles nella primavera 2014, ma nel frattempo questa proposta non era stata sostenuta in quella forma dal partito della sinistra europea, che finisce per convocare una conferenza europea a Bruxelles nella primavera 2014. Nella conferenza, alla quale ero invitato con Alexis Tsipras e altri dirigenti della sinistra europea, ridico chiaramente che occorreva un piano B, perché la prima proposta di conferenza europea non è sufficiente.[10] Mi ritrovo in una commissione che discute di questo con Euclide Tsakalotos, che è oggi ministro delle Finanze in sostituzione di Varoufakis, e mi rendo conto da quel momento che lui non è assolutamente favorevole a mettere a punto un piano B riguardante il debito, le banche, la fiscalità, e che il piano è di negoziare ad ogni costo con le istituzioni europee per ottenere una riduzione dello sforzo di austerità.

Syriza diventa il primo partito della Grecia alle elezioni europee del maggio 2014
Syriza ottiene una vittoria elettorale e diventa il primo partito greco. Per quanti lottavano sulla questione del debito era una doppia vittoria, in quanto sui sei deputati eletti al Parlamento europeo cinque erano favorevoli a una politica forte in materia di debito e di audit. Era così per Manolis Glezos, per George Katrougalos, che poi è diventato ministro, di Sofia Sakorafa, che era una delle iniziatrici con me dell’audit cittadino nel 2011, ma anche di Kouvenas e di un deputato proveniente dal PASOK. Abbiamo avuto a più riprese riunioni al Parlamento europeo anche con deputati di Podemos e di Izquierda Unida per avanzare l’idea dell’azione unilaterale e della sospensione di pagamento, ma nello stesso tempo mi sono reso conto che la linea ufficiale di Tsipras, sostenuto da persone come Katrougalos, era di andare verso il negoziato.[11] Ciò che è fondamentale per loro è la conferenza europea per la ristrutturazione del debito sul modello tedesco.

La vittoria del gennaio 2015
Vengono convocate elezioni anticipate per il 25 gennaio 2015. Il 2 gennaio sono contattato da un inviato di Tsipras, che mi chiede se potrei consigliare il governo in materia di debito. Accetto immediatamente e faccio una serie di proposte in continuità di quanto era stato proposto dal 2011.[12] Ma qualche giorno prima delle elezioni, mentre avevo fatto quelle proposte, il contatto si perde. Dopo le elezioni vado ad Atene, e una delle persone che incontro è George Katrougalos, diventato ministro della riforma amministrativa, che aveva sostenuto a fondo l’audit e che quando era deputato europeo sosteneva in qualche modo le proposte che facevo, e mi mette in contatto con la nuova presidente del Parlamento, Zoe Konstantopoulou, con la quale il contatto avviene direttamente. Alla fine di una discussione di un’ora ha reso pubblico il risultato della discussione dicendo che faceva appello alla mia collaborazione per lanciare una commissione di audit del debito greco.[13]

L’accordo funesto del 20 febbraio con i creditori istituzionali.
Dopo tre settimane di negoziati, un primo accordo è raggiunto il 20 febbraio tra i creditori, la Commissione europea, la Banca centrale europea e il governo greco, che segna per me una tappa già molto preoccupante.[14] Si tratta di un accordo in base al quale il governo greco si impegna a rispettare il calendario dei pagamenti e le somme da rimborsare a ciascun creditore. Dichiara anche che il governo greco farà una serie di proposte all’Eurogruppo, che sostituiva la Troika, in materia di riforme. Evidentemente, per l’Eurogruppo si trattava di riforme che continuavano il programma in corso, rimandando a fine giugno 2015 le misure di austerità negoziate con i creditori.

Un’altra politica era auspicabile e possibile
Da parte mia, penso che il governo greco avrebbe dovuto adottare un’altra politica. Già dall’inizio di febbraio era dimostrato che i creditori non erano disposti a permettere a Syriza di realizzare il suo programma (rivedere l’austerità e ottenere una riduzione del debito). Allora, come mezzo di pressione sui creditori, Tsipras avrebbe dovuto dire: «Io applico il regolamento europeo adottato il 21 maggio 2013, che prevede la realizzazione di un audit, per vedere in quali condizioni si è accumulato un debito che diventa insostenibile, e per scoprire eventuali irregolarità». È il testo esatto del regolamento europeo: «In quanto governo io lo applico, e sospendo il pagamento del debito durante la realizzazione dell’audit».
Se tu sospendi il pagamento del debito, cambi il rapporto di forza con i creditori. Di fronte a un rifiuto di pagamento, sono loro che devono chiedere di negoziare. Mentre fino ad allora era il governo che era alla ricerca del negoziato, di fronte a creditori che in realtà non volevano negoziare, se non a condizione di continuare le misure di austerità che erano state respinte dalla popolazione greca. Dunque, si sarebbe dovuto sospendere il pagamento, realizzare l’audit, prendere misure forti sulle banche. Bisogna sapere che nelle banche greche sono stati iniettati in modo permanente decine di miliardi, aumentando in tal modo il debito pubblico greco senza risolvere il problema delle banche. Si sarebbe anche dovuto prendere misure forti in materia di fiscalità per aumentare le entrate fiscali e poter condurre una politica antiausteritaria. Penso che se il governo greco non avesse firmato quell’accordo nefasto il 20 febbraio avrebbe potuto realmente impegnarsi in un processo interessante per la Grecia.
È anche interessante che la presidente del Parlamento greco ha detto ad Alexis Tsipras, insieme ad altri ministri, come Lafazanis che è uno dei ministri più importanti: «È fuori discussione sottoporre l’accordo del 20 febbraio al Parlamento greco per approvazione. Una serie di parlamentari greci non potranno approvare questo accordo che è contrario al mandato che Syriza è andata a cercare il 25 gennaio». In effetti, l’accordo del 20 febbraio è rimasto un accordo firmato dal governo, ma senza l’accordo del Parlamento, ed è un punto molto importante.

Lancio della Commissione per la verità sul debito greco da parte della presidente del Parlamento Ellenico.
Il 4 aprile 2015iniziano effettivamente i lavori della Commissione per la verità sul debito greco, istituita dalla presidente del Parlamento greco, e a me tocca il coordinamento dei suoi lavori. I lavori sono lanciati in una seduta pubblica che dura tutta una giornata, alla quale partecipano il primo ministro Alexis Tsipras , il presidente della Repubblica, la maggioranza dei ministri, una serie di parlamentari e una partecipazione molto importante di cittadini; sono presenti movimenti sociali greci.[15] L’audit è concepito come un audit a partecipazione cittadina. Ci lanciamo nei lavori che ci hanno richiesto un enorme lavoro. Per due mesi e mezzo abbiamo effettuato audizioni, abbiamo fatto venire un negoziatore greco all’ FMI per il periodo 2010-2011, abbiamo fatto venire un ex consigliere di Barroso, presidente della Commissione europea per il periodo 2010-2011-2012, abbiamo studiato tutti i debiti,come sono rivendicati dai creditori attuali della Grecia, in quali condizioni sono stati contratti, ecc., e abbiamo definito i criteri che avremmo utilizzato per identificare i debiti illegittimi, illegali, insostenibili o odiosi.[16] Sulla base di questi criteri e dell’analisi rigorosa dei debiti rivendicati, abbiamo prodotto un rapporto preliminare che abbiamo presentato il 17 e 18 giugno.[17] Il rapporto conclude che i debiti rivendicati dai creditori pubblici: la Troika, sono ai nostri occhi debiti illegittimi, illegali, insostenibili o odiosi. Quando dico «ai nostri occhi» è beninteso in base a criteri scientifici e criteri del diritto internazionale e del diritto nazionale.

Il governo greco non si appoggia sull’audit.
Alexis Tsipras aveva dato il suo sostegno ai lavori della Commissione, ma in realtà, nel corso dei negoziati con i creditori non vi si è appoggiato in modo esplicito. Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis hanno continuato il loro piano, che era di ottenere la conclusione del programma di austerità per la fine del mese di giugno, rinnovando un nuovo programma con i creditori, ma in condizioni largamente determinate dagli stessi. Senza mettere la pressione su di loro, rinunciando dunque alla sospensione di pagamento. Questo ha portato al vicolo cieco che conosciamo. I creditori non facevano alcuna concessione al governo greco, e anzi presentavano all’opinione pubblica internazionale il governo greco come incapace di presentare proposte serie. Ciò ha rivelato un fossato profondo tra l’iniziativa dell’audit e una situazione nella quale, proseguendo il negoziato, il governo greco utilizzava tutti i fondi disponibili per pagare i creditori. Per rimborsare l’FMI, la BCE, i creditori privati sono stati utilizzati sette miliardi, mentre le spese per risolvere il problema della crisi umanitaria (i problemi della salute, i problemi dei pensionati, le 300.000 famiglie che non avevano l’allacciamento alla rete elettrica), sono state di 200 milioni di euro. 200 milioni di euro di fronte a sette miliardi utilizzati per rimborsare i creditori! Si misura bene l’ampiezza del fossato.

In quanto coordinatore della Commissione, e con tutti i suoi membri, siamo caduti in una profonda frustrazione, una profonda inquietudine. Ci chiedevamo come era possibile che si continuasse a rimborsare il debito, mentre stavamo dimostrando che era illegittimo. Noi cominciamo adesso a dirlo pubblicamente: c’è un problema! Sono andato a incontrare Dimitris Stratoulis, il ministro in carica delle pensioni, quando annunciava che rifiutava nuove misure di riduzione delle pensioni, per portargli pubblicamente il mio sostegno.[18]
Sì, bisogna resistere alle pretese dei creditori. Per noi è fondamentale mostrare che c’è un legame tra i nostri lavori e le preoccupazioni della popolazione greca. Ho potuto misurare che incontravamo un’eco straordinaria presso la popolazione greca. Personalmente, come coordinatore della Commissione, la mia foto e le mie dichiarazioni comparivano sui media, e quando mi spostavo per le strade di Atene, o quando prendevo la metro, ero regolarmente fermato da cittadini greci che mi ringraziavano per i lavori che svolgevo e per l’aiuto che recavo al paese. Mentre i media dominanti, che rappresentano l’80% dell’ascolto denigravano i lavori della Commissione, la popolazione greca decodificava la politica di discredito lanciata dai media e ci appoggiava. Dimostrava un’attesa molto grande rispetto ai nostri lavori.

Dal referendum del 5 luglio all’accordo del 13 luglio 2015
Alcuni giorni dopo la presentazione pubblica dei nostri lavori, la Grecia era in stato di sospensione di fatto rispetto all’FMI (anche se non era ancora una sospensione ufficiale, era in ritardo di pagamento). La scadenza di pagamento era un momento critico. Così, i creditori hanno deciso di aumentare le loro esigenze rispetto ad Alexis Tsipras. Lui è quindi stato portato a indire un referendum il 5 luglio 2015. Mentre c’era una pressione massima dei creditori, come l’intervento di Junker che diceva al popolo greco che bisognava votare per le proposte che avanzavano essi stessi (e dunque per il SÌ al referendum), il 62% della popolazione greca ha detto NO alle proposte dei creditori. Questo fatto riapriva una situazione per la quale il governo Tsipras avrebbe potuto, sulla base del suo mandato del 25 gennaio, e sulla base del suo nuovo mandato rafforzato, 62% di NO alle pretese dei creditori, aprire un nuovo orientamento. Quello consistente nel dire: «noi abbiamo fatto tutte le concessioni possibili e immaginabili, abbiamo rimborsato 7 miliardi e voi, voi creditori, non fate alcuna concessione. Siamo costretti a prendere misure di autodifesa. Sospendiamo il pagamento del debito, risolviamo il problema delle banche mettendole in fallimento, ma proteggendo i depositi dei risparmiatori, prendiamo delle misure fiscali molto forti per fare pagare i ricchi e soprattutto quelli che sono responsabili della crisi. E ci impegniamo in un piano B perché il piano A non ha funzionato».

Invece di fare questo, il governo Tsipras, che tuttavia il 5 luglio aveva un mandato molto chiaro, il 6 luglio è andato a incontrare i dirigenti dei tre partiti che avevano fatto appello a votare SÌ e che avevano subito una disfatta terribile: il partito POTAMI, il partito PASOK, e il partito Nuova Democrazia. Propone loro un accordo. Questo accordo, molto nefasto, è sottoposto al Parlamento l’11 luglio.[19] Da una specie di Santa Alleanza fra la destra (sconfitta nel referendum) e Tsipras viene fuori una proposta, e Tsipras il 12 luglio va a Bruxelles con questa proposta. I creditori, che vogliono ottenere la capitolazione definitiva di Tsipras, dicono: «quello che proponete non è sufficiente, noi induriamo le nostre posizioni». E dopo 17 ore di negoziati, il 13 luglio, Tsipras firma un accordo assolutamente funesto. Non solo nuove misure colpiranno i pensionati (una volta di più), ma colpiranno tutta la popolazione con l’aumento dell’IVA su una serie di prodotti di consumo corrente, e in più c’è il famoso fondo di privatizzazioni che si accelera e arriva a 50 miliardi di euro. Si tratta né più né meno di una vendita all’asta di tutto ciò che non era ancora stato privatizzato. Questo accordo funesto è firmato da Tsipras il 13 luglio[20] e sottoposto al Parlamento greco nella notte dal 15 al 16 luglio.[21] Per me è la capitolazione.

Le lezioni della capitolazione del 13 luglio 2015
Bisogna trarre le lezioni della capitolazione del 13 luglio 2015.[22] Se non si fa ricorso a misure unilaterali di autodifesa di fronte ai creditori, in particolare la sospensione di pagamento del debito, è impossibile ottenere concessioni forti da parte dei creditori. Bisogna che le forze politiche e sociali europee capiscano che un negoziato nel quadro europeo attuale, rispettando le regole dettate dalla Commissione europea, la BCE, o l’FMI, non può funzionare. Bisogna disobbedire ai creditori. Solo disobbedendo ai creditori si può imporre loro di fare concessioni. Certo, non c’è solo la questione del debito. Bisogna ripetere che oggi, esistono misure chiave di alternativa: a lato della sospensione del debito occorre l’abbandono delle misure di austerità e l’adozione di leggi che proteggano le persone che sono state colpite dalle politiche di austerità. Occorre anche una soluzione dal lato delle banche. Ci vuole una socializzazione del sistema bancario. Bisogna che le banche private passino nel settore pubblico e rispondano a criteri di servizio pubblico per servire gli interessi della popolazione. Ci vuole una politica fiscale totalmente diversa. Bisogna che il percento più ricco, le grandi imprese, paghino realmente le tasse, e che si diminuisca il carico delle tasse sulla maggioranza della popolazione: bisogna abbassare il tasso dell’IVA, bisogna che si esonerino da certe tasse quelli in basso fissando una soglia di reddito. È dunque la combinazione di una politica che agisca sul debito, sulle banche, sulla fiscalità, mettendo fine all’austerità e creando lavoro, quella che permette di realizzare un’alternativa. Questa alternativa è del tutto possibile. La popolazione è pronta e dà il suo sostegno. Se no non si capisce perché il 62% dei greci, mentre erano minacciati del caos se votavano NO, perché, malgrado questo martellamento, questo ricatto, la chiusura delle banche greche, perché hanno votato contro le proposte dei creditori.

La conclusione è che un movimento che vuole assumere responsabilità di governo deve essere all’altezza del sostegno popolare. Deve essere pronto. Se si propone alla popolazione di respingere le proposte dei creditori, se si propone di realizzare un altro programma, bisogna essere pronti a prendere le misure che permettono di realizzare tale programma. Abbiamo bisogno delle forze sociali e politiche che sono concretamente pronte d affrontare i creditori. E a disobbedire ai creditori.
La lezione fondamentale da trarre è che la moderazione non permette di trovare una soluzione. Bisogna appoggiarsi sulla popolazione e prendere misure molto forti.

Una moneta complementare nel quadro di un piano B.
A lato di misure forti, come la sospensione unilaterale di pagamento del debito e la socializzazione delle banche, esistono misure molto concrete, come la creazione di una moneta complementare che può avere effetti estremamente interessanti. Per un paese che si trova a scarsità di euro, come la Grecia, perché è asfissiata dalla BCE, è perfettamente possibile creare una moneta complementare per via elettronica. È, ad esempio, quello che ha fatto l’Ecuador da due anni. In quanto banca centrale del paese, si tratta di aprire un credito tramite il cellulare, ad esempio di 100 euro, che permette alle persone che lo ricevono (come i pensionati che riceverebbero una parte della loro pensione, i dipendenti pubblici, le persone che ricevono un sussidio pubblico) di pagare ad esempio la bolletta dell’elettricità, dell’acqua, i trasporti pubblici. … Potrebbero usare tali crediti anche per fare acquisti nei supermercati, perché bisogna capire che anche se i supermercati privati non sarebbero entusiasti della creazione di una moneta complementare, finiranno per accettarla per non perdere i clienti, che andranno a fare la spesa nei negozi che l’accettano. Le autorità del paese saranno allora in grado di concedere aumenti dei salari, aumenti delle pensioni, senza dipendere direttamente dalla moneta ufficiale.

La prospettiva di un’uscita dalla zona euro.
Per paesi come la Grecia o il Portogallo, l’uscita dalla zona euro diventa una prospettiva del tutto giustificata. Per riprendere la padronanza dell’economia e applicare politiche che rispondano agli interessi del paese, bisogna essere pronti a ritornare a una moneta nazionale. Ma secondo me, la cosa è valida solo se va insieme alla socializzazione delle banche, con una riforma fiscale favorevole a quelli in basso, con una soluzione radicale al debito. [23] Se no, ci sarà un’uscita da destra dalla zona euro. È proprio per questo che una parte dell’estrema destra sostiene tale uscita in modo sovranista. Bisogna evitarlo. Ci vuole un’uscita progressista, favorevole al popolo. Per ritrovare il controllo della propria moneta, per condurre una politica monetaria favorevole al mercato locale, in particolare ai produttori locali, non bisogna avere come obiettivo di vendere all’estero, ma di basarsi sulle forze produttive del paese per rispondere ai bisogni della popolazione e diminuire in tal modo le importazioni e dunque i bisogni in valute forti.

Note
[1] Questa versione contiene numerose note che permettono di approfondire e referenziare gli argomenti trattati.

[2] Sofia Sakorafa, che ha rotto con il PASOK, quando questo ha accettato il memorandum del 2010, è stata rieletta deputata nel giugno 2012 sulla lista Syriza. In seguito, è stata eletta al parlamento europeo nel maggio 2014. Il 9 gennaio 2011, il terzo quotidiano greco, in termini di tiratura (all’epoca), mi ha intervistato sotto il titolo «Non è normale rimborsare i debiti che sono illegittimi. I popoli d’Europa hanno anche il diritto di controllare i loro creditori». Il quotidiano spiega che «Il lavoro del Comitato in Ecuador è stato recentemente citato nel Parlamento greco dalla deputata Sofia Sakorafa». Ethnos tis Kyriakis, di centrosinistra, era il terzo quotidiano greco in termini di tiratura (100.000 copie). Versione in greco dell’intervista pubblicata il 9 gennaio 2011:
http://www.ethnos.gr/article.asp?catid=22770&subid=2&pubid=49752949 Vedi la versione francese.

[3] Tra i promotori del comitato cittadino di audit (ELE in greco) hanno avuto un ruolo particolarmente attivo: Leonidas Vatikiotis, giornalista e militante politico di estrema sinistra molto attivo ( non è membro di Syriza, fa parte del NAR, membro di Antarsya), l’economista Costas Lapavitsas (non era membro di Syriza, è diventato deputato di Syriza nel gennaio 2015, ha votato contro il 3° memorandum e partecipa al nuovo movimento politico ‘Unità Popolare’, Giorgios e Sonia Mitralias (che avevano creato nel luglio 2010 il comitato greco contro il debito, membro della rete CADTM).
….
Tra gli articoli pubblicati alla fine del 2010 per preparare il lancio del comitato di audit, vedi quello apparso il 10 dicembre 2010 su una rivista greca: « Ouvrez les livres de compte de la dette publique ! .»

Costas Lapavitsas sosteneva attivamente la necessità di creare una commissione di audit «la Commissione internazionale di audit potrebbe avere la funzione di catalizzatore contribuendo alla necessaria trasparenza. Questa Commissione internazionale, composta da esperti di audit delle finanze pubbliche, da economisti, da sindacalisti, da rappresentanti dei movimenti sociali, dovrà essere totalmente indipendente dai partiti politici. Dovrà appoggiarsi su numerose organizzazioni che permetteranno di mobilitare strati sociali molto ampi. In questo modo, la partecipazione popolare, necessaria di fronte alla questione del debito, comincerà a diventare realtà». (articolo pubblicato il 5 dicembre 2010 dal quotidiano Eleftherotypia, vedi in françese).

[4] A proposito di Debtocracy, vedi: «Dette: les Grecs et la Debtocracy», pubblicato il 13 luglio 2011.

[5] Panagiotis Lafazanis, uno dei dirigenti della Piattaforma di Sinistra in Syriza, ministro dell’energia, è stato dimissionato da Alexis Tsipras perché si è opposto all’accordo del 13 luglio 2015. P. Lafazanis dirige Unità Popolare, che dal 21 agosto 20125 riunisce i 25 deputati che hanno lasciato Syriza, la Piattaforma di Sinistra e altre forze della sinistra radicale.

[6] Nadia Valavani, viceministro delle Finanze, che si è dimessa dal governo il 15 luglio perché si opponeva all’accordo del 13 luglio 2015. Nadia Valavani è conosciuta per la sua coraggiosa attività nella resistenza alla dittatura dei colonnelli (1967 – 1974).

[7] Vedi in greco: ΣχόλιαΓιάνης Βαρουφάκης Debtocracy : Γιατί δεν συνυπέγραψα
http://www.protagon.gr/?i=protagon.el.article&id=6245, pubblicato l’11 Απριλίου 2011.

In questa lunga lettera, Yanis Varoufakis, spiega perché non sostiene la creazione del comitato cittadino di audit (ELE). Varoufakis spiega che l’economista James Galbraith gli ha chiesto il 2 febbraio 2011 se bisognava firmare l’appello per la creazione di ELE. Per la cronaca, sono io che avevo scritto a Galbraith per chiedergli di firmare l’appello internazionale. Nel lungo testo pubblicato nell’aprile 2011, Varoufakis dà anche il suo parere sul documentario Debtocracy, nel quale è intervistato.

Da notare che nel marzo 2011ero stato invitato da Synaspismos (il principale partito della coalizione Syriza, diretta da Alexis Tsipras prima che Syriza si trasformasse in partito nel 2013 ed eleggesse A. Tsipras come presidente) come conferenziere ad Atene a una grande conferenza internazionale, nel corso della quale sono intervenuti, tra gli altri, Y.Varoufakis, Alexis Tsipras, Y. Dragasakis… Una parte della mia conferenza è stata pubblicata in inglese in un libro edito ad Atene da Elena Papadopoulou e Gabriel Sakellaridis (Edited by), THE POLITICAL ECONOMY OF PUBLIC DEBT AND AUSTERITY IN THE EU, Transform, Athens, 2012.

Tra gli autori: Yanis Varoufakis, Alexis Tsipras, Nicos Chountis, Yannis Dragasakis, Euclid Tsakalotos, Éric Toussaint …
http://transform-network.net/uploads/tx_news/public_debt.pdf Il contributo di Yannis Varoufakis dà una buona idea del suo orientamento moderato (vedi una versione più sviluppata della sua posizione: http://yanisvaroufakis.eu/euro-crisis/modest-proposal/ ) mentre quella di Alexis Tsipras riprende l’orientamento più radicale adottato da Syriza fino a giugno 2012. Alexis Tsipras si pronuncia per un audit integrale del debito, la socializzazione delle banche, la tassazione dei beni della Chiesa… La versione françese del mio contributo è stata scritta nel gennaio 2011.

[8] La proposta in 5 punti di Syriza è stata presentata il 9 maggio 2012 da Alexis Tsipras quando è stato incaricato, tra i due turni delle elezioni del 2012, di tentare di costituire un governo. Vedi il quotidiano conservatore greco Ekathimerini: «Tsipras lays out five points of coalition talks», 9 maggio 2012,
http://www.ekathimerini.com/141399/article/ekathimerini/news/tsipras-lay.... Questi 5 punti erano ricavati dai 40 punti del programma di Syriza per le elezioni del 2012, «Greece: SYRIZA’s 40-point program», http://links.org.au/node/2888

Occorre sottolineare che tale programma esigeva in particolare la nazionalizzazione delle banche, la deprivatizzazione delle imprese vendute ai privati, la nazionalizzazione degli ospedali privati, riforme costituzionali per separare la Chiesa e lo Stato, dei referendum sui trattati europei, l’uscita dalla NATO, la fine dell’accordo militare con Israele…

[9] Vedi il video del mio discorso al 1er festival della gioventù di Syriza Vedi il testo completo.

[10] Ho avuto l’occasione di sviluppare questo punto di vista in una interview che ho rilasciato al quotidiano greco Il giornale dei redattori (I Efimerida ton Syntakton - vicino a Syriza) nell’ottobre 2014.

La versione originale in greco è disponibile su: http://www.efsyn.gr/?p=245093 In questa intervista, sono espresse in maniera chiara e netta le proposte alternative all’orientamento che è stato messo in pratica da Alexis Tsipras e dalla maggioranza della direzione di Syriza.

Nel febbraio 2013, ero già stato intervistato dallo stesso quotidiano e avevo espresso timori in rapporto alla moderazione delle proposte di Syriza. Vedi Éric Toussaint: «La Grèce doit suspendre unilatéralement le remboursement de sa dette».

L’intervista originale è stata pubblicata il 23 febbraio 2013 dal quotidiano greco «efsyn»(Il giornale dei redattori): http://www.efsyn.gr/?p=25897

[11] Vedi « Dette : Quelles stratégies en Europe ? », Discussione tra Syriza, Podemos, el Bloco de Esquerda e il CADTM sulle strategie per fare fronte alla crisi del debito in Europa (Parlamento europeo – 20 gennaio 2015).

[12] Vedi La Grèce devrait mettre sur pied une commission d’audit de sa dette Vedi anche: «Si un gouvernement Syriza appliquait à la lettre un règlement de l’UE sur la dette...» pubblicato il 22 gennaio 2015.

[13] Vedi sul sito del parlamento greco: ttp://www.hellenicparliament.gr/En... (only in greek) Occorre sottolineare che Zoe Konstantopoulou era stata molto chiara sul tema del non pagamento del debito illegittimo il 6 febbraio 2015 in un discours prononcé lors de son élection en tant que Présidente du Parlement hellénique.

[14] Vedi la critica di Manolis Glezos, deputato europeo di Syriza,
Glezos: «Je demande au Peuple grec de me pardonner d’avoir contribué à cette illusion», pubblicato il 22 febbraio 2015

[15] Vedi Éric Toussaint, « 4 avril 2015 : Journée historique pour la recherche de la vérité sur la dette grecque », pubblicato il 5 aprile 2015, Zoe Konstantopoulou, « Discours de la présidente du Parlement grec, Zoe Konstantopoulou, à la session inaugurale de la Commission de vérité de la dette publique », pubblicato il 5 aprile 2015, Sergi Cutillas « Chronique des interventions de l’exécutif grec au Comité d’audit de la dette grecque ».

[16] Vedi Définition des dettes illégitimes, illégales, odieuses et insoutenables et Termes de référence de la Commission pour la Vérité sur la Dette grecque

[17] Video : Intervention d’Éric Toussaint à la présentation du rapport préliminaire de la Commission de la vérité

Rapport préliminaire de la Commission pour la vérité sur la dette publique grecque.
Video : Conférence de presse de clôture au Parlement grec.

[18] Communiqué d’Éric Toussaint in seguito all’incontro con il ministro Dimitris Stratoulis che ha l’incarico delle pensioni, pubblicato il 15 maggio 2015

[19] La presidente del parlamento greco si è opposta a questo accordo, come vari ministri e deputati di Syriza. Vedi Discours de Zoé Konstantopoulou, présidente du parlement grec, sur le projet soumis par le gouvernement aux créanciers l’11/07/2015.

[20] Il giorno stesso ho pubblicato un articolo proponendo un’alternativa a questo accordo: Une alternative est possible au plan négocié entre Alexis Tsipras et les créanciers à Bruxelles, pubblicato il 13 luglio 2015

[21] 32 deputati di Syriza hanno votato contro questo accordo, con la presidente del parlamento greco e Yannis Varoufakis. Vedi Discours de Zoé Konstantopoulou en faveur du NON à l’accord imposé par les créanciers.

[22] Vedi Éric Toussaint, « Grèce : les conséquences de la capitulation » e Post-scriptum : Les conséquences de la capitulation.

[23] Avevo menzionato questa posizione in un’interview al quotidiano svizzero Le Courrier il 3 febbraio 2015.

Lavoro Culturale
16 09 2015

Quando tentiamo di capire la catena di orribili eventi e “contromisure” che le istituzioni europee definiranno nelle prossime settimane per fare fronte a quella che molti politici ed esperti definiscono “la peggiore crisi dei rifugiati dopo la Seconda Guerra Mondiale”, dovremmo tenere a mente che la crisi non è semplicemente una crisi e che il linguaggio dell’emergenza non aiuta a comprendere ma solo a offuscare e nascondere ciò che è sotto i nostri occhi.

Il fatto che alcuni cittadini europei abbiano sentito il bisogno di compiere un atto eccezionale di accoglienza e di ricevere i migranti che dall’Europea dell’Est hanno raggiunto la Germania con dei cartelli “Benvenuti rifugiati!”, ci dice molto di quanto poco accoglienti siano le nostre pratiche ordinarie e quotidiane nei confronti dei rifugiati e dei richiedenti asilo.

Le immagini disturbanti che abbiamo visto sono solamente i sintomi superficiali di una questione molto più profonda, legata al livello di perniciosità a cui è giunta la nozione di asilo in Europa. Una storia dell’asilo europeo non è stata ancora scritta, ma le tracce di quanto ormai paradossale e aporetica è divenuta la pratica dell’asilo in Europa sono sotto i nostri occhi.

Nel suo significato classico, in greco e latino per esempio, asilo significa santuario, tempio, uno spazio sacro in cui ci si può rifugiare e in cui l’uso legale della violenza viene sospeso. Con la creazione degli stati-nazione moderni l’asilo è stato codificato nel “diritto d’asilo”— il principio normativo secondo cui gli stati hanno il dovere di dare protezione a coloro che abbandonano un altro paese perché la loro libertà e la loro vita sono in pericolo.

Tuttavia la nozione di asilo presenta una genealogia molto più ampia e non riducibile all’asilo politico e al processo che ha portato alla sua codificazione. La parola asilo include molti altri domini della nostra storia sociale, al di là dell’asilo politico, domini che non sono meno politici di quello dell’asilo politico. Per esempio, in Storia della follia nell’età classica (1978), Michel Foucault definisce la storia dell’istituzione terapeutica dell’asilo psichiatrico come una

serie di operazioni che organizzano silenziosamente il mondo dell’asilo, i metodi di cura, e allo stesso tempo l’esperienza concreta della follia. [Nel passaggio dall’imprigionamento del folle alla sua reclusione nell’asilo psichiatrico] è vero che l’asilo non punisce più la colpevolezza del folle, tuttavia esso fa qualcosa di più, poiché l’asilo organizza la colpevolezza; la organizza per il folle, come una forma di coscienza, e la organizza come relazione non reciproca con chi amministra l’asilo; l’asilo organizza la colpevolezza per l’uomo di ragione come consapevolezza dell’altro, come un intervento terapeutico nell’esistenza del folle (pp. 547-549).

In questo passaggio Foucault analizza il significato della trasformazione delle prigioni come istituzioni repressive in moderni asili psichiatrici: dalle celle ai nuovi spazi di libertà vigilata in cui la medicina funziona come una forma di giustizia, e in cui i prigionieri non sono più costretti a vedere le catene, le sbarre e le griglie delle finestre delle prigioni in cui erano prima rinchiusi. Per Foucault la nascita dell’asilo costituisce una forma di liberazione e protezione molto particolare, il passaggio dalla segregazione alla segregazione medica in cui la terapia si pone come forma di disalienazione. Chi vive protetto dall’asilo non può sfuggire al potere morale e legale di chi amministra l’asilo, degli uomini di ragione, come li chiama Foucault.

Non voglio forzare troppo il parallelo tra asilo politico e asilo psichiatrico, ma è difficile non vedere le somiglianze tra le due istituzioni dell’asilo. Oggi ai migranti che giungono in Europa e chiedono asilo nel rispetto delle convenzioni internazionali viene offerta una terapia non contro la perdita della ragione, ma contro la perdita di una piena cittadinanza. L’asilo politico di oggi si pone come una terapia umanitaria per chi ha perso la piena appartenenza a una comunità politica. In un certo senso la follia sta all’asilo psichiatrico come la fuga in cerca di protezione di soggetti vulnerabili sta all’asilo politico.

Come quella dell’asilo psichiatrico, l’istituzione contemporanea dell’asilo va compresa come un connubio di operazioni morali e legislative. Da un lato pare che quasi tutti in Europa, anche chi viola il diritto di asilo o amministra un sistema che lo svuota del suo significato classico, siano pronti a riconoscere il dovere morale della benevolente offerta di asilo. Dall’altro nel tradurre in pratica questo dovere morale l’asilo si trasforma in un’istituzione fatta di misure fondamentalmente segreganti e violente: la polizia dei confini; l’identificazione con i numeri tatuati sulle braccia (le immagini provenienti dalla Repubblica Ceca), o le impronte digitali; il trasferimento in campi con varie gradazioni di segregazione; l’indagine per rilevare la natura e la veridicità della perdita di piena cittadinanza da parte dei richiedenti. Questa è, in breve, l’istituzione dell’asilo nella sua miglior forma esistente in Europa, quando essa non stermina i migranti in mare.

In breve, la situazione in cui ormai siamo da anni ci racconta due cose. In primo luogo ci dice che l’asilo politico è qualcosa di molto diverso dall’istituzione liberante e filantropica che continuiamo a difendere per proteggere la nostra posizione di salvatori di sopravvissuti. Il modo in cui traduciamo il diritto d’asilo in pratica presenta tutti i tratti di un’istituzione di potere — il potere di organizzare in forme segreganti e di concedere (o meno) l’asilo. In secondo luogo ci racconta uno dei paradossi contemporanei del regime internazionale dei diritti umani. La storia recente dell’asilo politico ci dice che gli stati-nazione che si sono fatti promotori delle norme e convenzioni fondamentali per i diritti umani in materia d’asilo sono gli stessi stati-nazione che violano in maniera istituzionalizzata i principi filantropici che hanno codificato in legge. Trasformando l’asilo in una serie di operazioni di controllo stiamo contribuendo alla disintegrazione etimologica e politica del valore dell’asilo.

(Mentre chiudevo questo articolo, ieri all’incontro di emergenza dei ministri degli Interni europei è stata presa la decisione di rafforzare le misure di internamento dei “migranti irregolari” e di creare nuovi campi profughi fuori dall’Europa. La bozza di documento dei ministri degli Interni dice che «è cruciale rafforzare i meccanismi di identificazione, registrazione e presa delle impronte digitali in Italia e Grecia»).

Connessioni Precarie
16 09 2015

Come una tempesta i migranti si aggirano per l’Europa. Con i loro movimenti disordinati stanno travolgendo confini, istituzioni, ideologie apparentemente consolidate. I migranti hanno fatto saltare lo status quo europeo. Quello che non era riuscito al referendum greco sta riuscendo a migliaia di uomini, donne e bambini che mettono in gioco la loro vita per averne una migliore. Se lo sconcerto di fronte alla violenta soppressione dell’OXI da parte delle istituzioni europee sembrava aver paralizzato quanti in quel «no» avevano visto un’occasione, i migranti sono riusciti a provocare un’ondata di solidarietà e una mobilitazione di massa che indica un rifiuto delle politiche dei confini e dell’intransigenza neoliberale che nemmeno i campioni dell’austerità possono ignorare. Molti ora ammoniscono severamente che non c’è bontà nell’apertura delle frontiere, che quei migranti entreranno ai gradini più bassi in un mercato del lavoro segmentato e gerarchizzato, che il loro destino è lo sfruttamento. È tutto certamente vero, ma è altrettanto certo che questo è il destino comune a tutti coloro che sono sottoposti al regime del salario. Dire che il capitalismo è sempre e comunque sfruttamento non deve impedire di cogliere l’insieme di novità che i migranti stanno obbligando in Europa. In fondo si può concordare con Angela Merkel: gli elementi di crisi introdotti dai migranti sono molto più profondi di quelli emersi dalla vicenda greca.

Proprio per questo si tratta di capire in che direzione vada la massiccia operazione politica e ideologica di «accoglienza» guidata dalla Germania: se il pugno duro nei confronti della Grecia è stato necessario a sopprimere sul nascere ogni speranza di un’alternativa all’austerità, l’improvviso slancio verso l’accoglienza sembra ora voler assoggettare quella rinnovata speranza alla logica che lega a doppio filo precarietà, rigore finanziario e governo della mobilità, legittimando al contempo una centralizzazione politica dell’Unione. I movimenti dei migranti stanno disarticolando praticamente la sovranità dei singoli Stati in Europa. Non siamo di fronte a un processo lineare, ma la costruzione e la gestione di questa emergenza sono il banco di prova per una nuova costituzione europea. Il punto di partenza che dobbiamo assumere è che in questo momento i migranti sono i veri avversari del sovranismo. Sono loro a imporre la polarizzazione tra gli Stati europei che vogliono blindare le frontiere e quelli che invece le considerano dei dispositivi politici che si possono utilizzare in maniera diversificata nelle differenti contingenze. Siamo di fronte a continue e terribili oscillazioni. Per anni abbiamo lottato contro l’Europa di Schengen e i suoi vincoli, ora ci troviamo a pretenderne il rispetto quando sono sospesi e reintrodotti per prendere tempo, nel tentativo di arginare una marea di corpi in movimento. In tutti i casi, sarebbe sbagliato figurarsi un’Europa completamente incapace di organizzare una risposta. Ciò non significa che le risposte in gestazione ci piacciano, ma delle risposte ci sono.

Già a maggio, quando in occasione della discussione della prima agenda europea sulle migrazioni si è iniziato trionfalmente a parlare di relocation system, venivano invocati «unità» e «sforzi congiunti», mostrando che l’agenda va oltre il suo oggetto immediato e comprende un tentativo, nemmeno tanto nascosto, di accentramento delle politiche di governo della mobilità. Come di fronte alla crisi dei debiti sovrani, anche ora il progetto è quello di imporre una cessione di sovranità da parte dei singoli Stati. Per questo quel progetto ha incontrato e tuttora incontra l’opposizione di molti Stati dell’Unione, impegnati a tutelare i propri fragili equilibri interni tra debito e welfare, precarizzazione e PIL, impegni verso l’Europa e posizioni nazionaliste. Se a maggio ogni singolo Stato avrebbe dovuto accettare o rifiutare la quota di rifugiati «redistribuiti» dall’Unione, ora la nuova agenda europea propone di applicare una sanzione economica pari a una percentuale del PIL ai paesi che rifiutino di fare la loro parte nel relocation system. Il passaggio da un modello basato sulla «volontarietà» a uno obbligatorio sarebbe decisivo nel processo di definizione della nuova costituzione europea. La posta in gioco di questa sfida, il cui esito non è per nulla scontato, è tale che a essere evocato non è più soltanto il freddo rispetto dei trattati, ma un principio di umanità. Il problema non è qui l’ennesimo attacco sferrato dalla governance sovranazionale alle procedure democratiche che – come dimostrano le posizioni dei paesi baltici nel caso della vicenda greca – di per sé non garantiscono una politica dei governati e un rifiuto del comando finanziario dell’Unione. Il problema, semmai, è che l’unità politica dell’Europa, perseguita evocandone i presunti valori fondanti, è conseguita precisamente attraverso il comando finanziario, che esce dai confini dei patti di stabilità economica dotandosi di strumenti sanzionatori per governare efficacemente quei movimenti capaci di mettere in crisi la tenuta dell’assetto neoliberale dell’Unione. Una crisi i cui effetti istituzionali sono dimostrati dalla diffusa informalizzazione delle operazioni di «transito» dei migranti che arrivano in Europa e dalla messa in scacco pratica degli accordi di Dublino. Per molti versi, la loro sospensione da parte della Lady di ferro tedesca non è altro che la registrazione di un dato di fatto, vista la «liberalità» con cui gli Stati dell’Unione, a partire dall’Italia e dalla Grecia, hanno gestito il rigido sistema di registrazione e fingerprinting che impediva ai migranti di uscire dal paese di prima accoglienza. Allo stesso modo, l’improvvisa sospensione degli accordi di Schengen e la reintroduzione dei controlli alle frontiere da parte del governo di Berlino sembra un estremo tentativo di mostrare la possibilità di governare la continua sfida che i migranti pongono praticamente alle norme dell’Unione e dei singoli Stati. L’ennesima strage di bambini nel Mediterraneo è passata stavolta in secondo piano rispetto alla necessità di condizionare la riunione della Commissione del 14 settembre e spingere anche gli Stati più recalcitranti ad accettare l’accentramento necessario a garantire il nuovo governo della mobilità. L’operazione di forzatura, per il momento, non è riuscita: la politica del relocation system e delle quote rimane in sospeso, mentre le operazioni militari contro gli scafisti e l’ipotesi di costruire nuovi campi dentro e fuori i confini d’Europa sembrano il tentativo estremo di contenere e decomprimere, certamente a costo di nuove vite, un movimento inarrestabile. Al di là delle effettive decisioni e dei loro tempi, rimane il fatto fondamentale che nella tempesta politica scatenata dai migranti si sta ristrutturando la geografia dei poteri all’interno dell’Europa nel suo complesso.

È un processo in atto da tempo, che può fallire o ricevere un’accelerazione decisiva. Per noi non si tratta di scegliere tra l’Europa di Merkel o lo Stato di Orban. Si tratta di comprendere che i migranti stanno imponendo l’Europa come terreno minimo di lotta. Si tratta di comprendere che, se non ci si limita a contemplare la politica dei selfie, i migranti non sono le vittime di questa situazione, ma i soggetti attivi di una lotta dentro gli assetti di potere europei.

La conclusione di questa lotta non è in alcun modo scontata. Come dicevamo è certamente vero che molti stanno facendo i loro calcoli per capire quanto profitto si possa cavare dai migranti, quanto valga un siriano rispetto a un africano, quanto possano contribuire i migranti al salvataggio dei regimi europei di welfare. Se la Germania è oggi ancora «cattiva», lo è soprattutto perché nell’aprire le frontiere ai siriani vuole tenere per sé i migranti più istruiti e qualificati. La virulenta rincorsa sul piano della xenofobia cui partecipano le destre continentali, occupando spesso la scena, nasconde un futuro di competizione per accaparrarsi forza lavoro fresca, con le giuste caratteristiche e tenuta a bada da un buon impianto di razzismo istituzionale continentale. Eppure, i migranti sono riusciti a produrre una rottura significativa anche su questo terreno. Per decenni si è detto che l’Europa non doveva essere solo economia. Ora che i migranti vengono accolti nelle stazioni, ora che centinaia di persone vanno prenderli con le loro auto, ora che moltissimi stanno dicendo ad alta voce «Refugees welcome», non si possono riscoprire e affermare solo le regole dell’economia. Fino a qualche tempo fa era quasi impensabile che l’ambiente politico europeo potesse dare questi segni di apertura. L’ambiente europeo è perciò migliorato. Le piazze da Vienna a Londra mostrano il segno di un’Europa in movimento non soltanto sul piano istituzionale e della governance, ma anche sul piano ideologico che legittima la presenza e il movimento all’interno dell’Europa. Sono piazze sulle quali puntare per rovesciare il segno delle pretese del governo finanziario dell’Unione.

L’affermazione del diritto a non morire e il rifiuto assoluto delle chiusure dei confini e della retorica xenofoba che si sono espressi dietro lo slogan «Refugees welcome», però, non possono rimanere fermi sulla soglia dell’accoglienza, ma ci obbligano a raccogliere la sfida lanciata dai migranti. Dobbiamo porci il problema di smontare i dispositivi di gerarchizzazione costruiti intorno alle distinzioni prodotte dal governo delle migrazioni, a partire dalla stessa divisione tra «migranti economici» e «rifugiati». Questa distinzione, che già oggi separa i migranti buoni da quelli cattivi, le vere vittime dagli impostori, va respinta perché, in primo luogo, essa diventerà essenziale per decidere delle politiche di proiezione dell’Europa al di fuori dei propri confini. La gerarchia tra «paesi sicuri» e «non sicuri» – che oggi garantisce ai migranti siriani e a quanti provengono dalle zone minacciate dallo Stato Islamico l’accoglienza, mentre permette di dimenticare le diaspore africane – è solo il primo passo per sdoganare nuove guerre e nuove politiche di acquisizione commerciale di quote extraterritoriali di sovranità. In questa direzione vanno le misure – già previste dall’agenda europea sulle migrazioni – di stabilizzazione e sviluppo dei paesi di provenienza, come pure gli «aiuti economici» offerti dagli Stati Uniti all’Europa per far fronte all’«emergenza». In secondo luogo, la distinzione tra «migranti economici» e «rifugiati» è essenziale per garantire un’uscita dalla crisi economica nel segno della normalizzazione dell’austerity, per garantirsi una quota di forza lavoro composta tanto da uomini e donne inserite all’interno dei regimi di workfare chiamati accoglienza, quanto da lavoratori sottoposti al ricatto del permesso di soggiorno o da consegnare al lavoro irregolare. Sarebbe sufficiente registrare le innumerevoli proposte di messa al lavoro gratuita dei migranti «generosamente» accolti in questi mesi in Europa per capire in che direzione vada l’accomodamento tra business e umanità. Il dato di fatto è che le migliaia di uomini e donne che hanno sfidato i confini d’Europa e che l’Europa si prepara ad «accogliere» come rifugiati o come migranti economici più o meno irregolari saranno una massa proletarizzata che dovrà lavorare per mantenersi. Nuove gerarchie e nuove divisioni saranno ovunque alimentate per sostenere il governo della mobilità.

Per questo, nel momento in cui i migranti fanno traballare l’immensa sovrastruttura ideologica sulla quale si è retto e si sta reggendo quel governo, dobbiamo avere il coraggio di andare oltre l’accoglienza. Sappiamo che non c’è nessuna «questione migrante» da risolvere, perché sappiamo che i migranti indicano con maggior forza un problema che è anche nostro. La presenza dei migranti significa una trasformazione radicale della composizione del lavoro vivo contemporaneo, una trasformazione che investe i comportamenti, le necessità, i metodi di lotta. Proprio per questo oggi è più che mai necessario rivendicare la centralità politica del lavoro migrante. Parlare di centralità politica del lavoro migrante non significa voler valorizzare la condizione diversa e specifica di chi lavora con un permesso di soggiorno in tasca, ma individuare una condizione che sempre più è il destino di tutto il lavoro. La presenza dei migranti in Europa ha modificato radicalmente le modalità di erogazione del lavoro nel suo complesso, divenendo una leva per sostenere un processo generale di precarizzazione. A causa delle condizioni d’incertezza, instabilità e mobilità slegate da riferimenti nazionali in cui hanno luogo le migrazioni di massa, è divenuto impossibile tenere fermo il quadro generale di garanzia giuridica del lavoro. In questo modo, il lavoro migrante è elemento essenziale di un più vasto processo che rende il lavoro sempre più informale, perché esso perde ogni forma prestabilita, effetto di una contrattazione più o meno allargata, ed è interamente assoggettato a quel rapporto di domino che abbiamo chiamato regime del salario. Per questo, la risposta politica dei movimenti deve necessariamente andare oltre l’umanitarismo dell’accoglienza, che rischia paradossalmente di diventare il puntello su cui fa presa il comando finanziario della nuova Europa unita. Politiche dell’apertura e dell’empatia verso i migranti, come la proposta di una rete europea di città-rifugio lanciata dalla neosindaca di Barcellona, possono essere una risposta immediata ai bisogni dei nuovi arrivati e un grimaldello attraverso il quale mostrare la possibilità di interessi comuni per rovesciare le retoriche razziste. Tuttavia, il problema che la tempesta migrante pone è come organizzare il lavoro migrante e come connetterlo con il lavoro informale, sapendo che si tratta di una prospettiva sempre più complessa perché gli strumenti organizzativi di cui disponiamo non sono all’altezza di una sfida che può essere giocata solo sul piano transnazionale.

Dopo l’importante mobilitazione contro l’austerity e il governo finanziario dell’Unione organizzata dal coordinamento di Blockupy, il meeting per uno sciopero sociale transnazionale che si terrà a Poznan all’inizio di ottobre può essere un passo decisivo per dare corpo a un progetto di ampio respiro, prima di tutto perché sposta lo sguardo a est, punto centrale non solo della tempesta dei migranti in atto, ma anche della battaglia per la centralizzazione politica della costituzione europea. Quello dello sciopero sociale transnazionale è un processo appena cominciato, che tuttavia offre la possibilità di attaccare il nesso quotidiano tra il rigore monetario e la precarietà, tra il governo della mobilità e lo sfruttamento, tra le politiche del debito e quelle dei confini, e di pensare pratiche efficaci per rovesciare di segno la nuova costituzione europea. Pensare insieme l’OXI greco e la tempesta dei migranti è la sfida che abbiamo di fronte, senza nasconderci la debolezza della risposta messa in campo dai movimenti europei durante i mesi di trattativa sul nuovo memorandum imposto al governo di Tsipras. Gli eventi di quest’estate mostrano come, ben al di là della solidarietà tra popoli lacerati da interessi divergenti, sia necessario costruire una prospettiva transnazionale capace di unire precarie, migranti e operai intorno a interessi comuni. Il processo di costruzione di uno sciopero transnazionale può essere l’occasione per ripensare i percorsi dell’organizzazione di classe. Dobbiamo ricordare che l’Europa è una grande macchina che, mentre condanna alcuni alla povertà, produce sfruttamento e immane ricchezza. Ciò di cui abbiamo bisogno è una prospettiva che non punti alla sopravvivenza, ma a un rovesciamento dei rapporti di forza che permettono questo stato di cose.

Da tempo dentro la rete internazionale di Blockupy – come pure nel percorso italiano dello sciopero sociale – si discutono alcune parole d’ordine che faticosamente cerchiamo di mettere alla prova sul piano europeo. L’individuazione di rivendicazioni condivise, che devono circolare ed essere messe a verifica tra coloro che quotidianamente lottano dentro e contro il regime del salario e il governo della mobilità, è un passaggio obbligato che non può essere misurato a partire dalla loro adeguatezza ai diversi contesti nazionali. In alcuni Stati dell’Unione il salario minimo è già in vigore e ciò non pone di per sé un limite alla precarizzazione del lavoro; il reddito minimo in diversi paesi ha già la forma del workfare, mentre un permesso di soggiorno minimo di due anni può non rispondere a tutte le legittime pretese dei migranti. E tuttavia, queste rivendicazioni acquistano una forza nuova se sono sistematicamente connesse: la richiesta di un reddito minimo può infatti essere produttiva solo se posta contemporaneamente e insieme a quella di un salario minimo europeo e della libertà di movimento, a partire da un permesso di soggiorno europeo di due anni. Soprattutto, queste rivendicazioni acquistano un peso politico del tutto inedito nella misura in cui sono finalmente poste su un piano europeo, nella prospettiva di innescare processi di comunicazione e organizzazione che travalicano i confini e si oppongono alla frammentazione, alla divisione e alle gerarchie. Le trappole speculari degli interessi superiori dell’Unione e delle sovranità nazionali non devono più poter essere usate contro di noi. Lo sciopero sociale transnazionale può rendere un OXI europeo reale e forte, può dare senso politico alla solidarietà superando la differenza tra il «noi» che la elargisce e i «loro» che ne beneficiano. Lo sciopero sociale transnazionale non è ancora nulla, ma può diventare tutto, se comincia a essere l’indicazione che orienta i movimenti europei nei processi di opposizione alla costituzione neoliberale dell’Unione. Ogni coalizione dovrà misurarsi sulla sua capacità di condividere questo piano politico transnazionale, sulla sua tensione ad affermare percorsi organizzativi di classe che riconoscano la centralità politica del lavoro migrante. Ogni coalizione esisterà solo se sarà uno strumento che ci consente di vivere la tempesta, invece di essere solo gli spettatori appassionati ma non paganti delle tempeste scatenate dai migranti.

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