Circolo Mario Mieli
10 09 2015
«Nella ricerca affannosa di un compromesso, si è fatto riferimento alla formula “formazione sociale specifica” per segnare una distinzione tra queste coppie e quelle eterossessuali unite in matrimonio.
Ma questo espediente semantico è una forzatura, perché di formazioni sociali parla l’articolo 2 della Costituzione e sotto questa espressione stanno tutte le coppie».
Stefano Rodotà, con un lungo editoriale su Repubblica, scrive così della legge Cirinnà, che questa settimana riprende il suo cammino al Senato.
Martedì 8 torna a riunirsi la commissione Giustizia, gli emendamenti non si contano, con l’immancabile ostruzionismo di Carlo Giovanardi, e non è escluso che comunque si finisca per andare in aula senza relatore – un escamotage parlamentare per non far votare il testo in commissione.
Il compromesso di cui scrive Rodotà è quello che il Pd ha trovato con l’alleato Angelino Alfano. Ncd continuerà a puntare i piedi chiedendo che sia ribadito il divieto alla maternità surrogata – già vietata dalla legge 40 ma possibile in molti Paesi esteri, compresa Inghilterra e California – ma potrà così vantare di aver difeso i matrimoni, sancendo – come se ce ne fosse bisogno – che quella in discussione non è un legge mossa dal principio della piena uguaglianza. Sono unioni civili, semmai, che stabiliscono anche il diritto all’adozione del figlio del partner. Va bene, ma non sono matrimoni egualitari.
E se sui matrimoni gay Rodotà ricorda che il parlamento non è obbligato a riconoscerli (come invece la Corte Europea ci prescrive di fare per le unioni civili), ma farebbe molto bene («Perché aspettare?»), il giudizio sulla mediazione lessicale è duro: «Inventarsi la “formazione sociale specifica” è un travisamento della Costituzione, e la sua vera finalità, dovendo avere il coraggio di chiamare le cose con il loro vero nome, non è quella di introdurre una distinzione, ma di riaffermare una discriminazione». Alcuni costituzionalisti, in questi giorni, hanno avanzano dubbi sulle ripercussioni che questa nuova formulazione potrebbe avere nell’estensione di alcune norme dedicate ai nuclei familiari. «Non è possibile introdurre un riconoscimento delle unioni civili che si presenti come una chiusura, come una concessione basata su una discriminazione», continua il professore, «non cediamo a un realismo regressivo».
Bella, in chiusura, per completare il suo ragionamento non più in punta di diritto ma politico, è la citazione che Rodotà fa di Andrea Pugiotto, professore ordinario di Diritto costituzionale nell’Università di Ferrara: «Che ci ricorda come “il paradigma eterosessuale del matrimonio crea incostituzionalità perché oppone resistenza non a un capriccio, né a un desiderio, né ad una “innaturale pretesa”, ma al diritto individuale alla propria identità personale”».
LinKiesta
10 09 2015
Che la foto del piccolo Aylan sia riuscita a cambiare la percezione del conflitto siriano e del dramma dei profughi laddove anni di reportage, testimonianze e campagne di sensibilizzazione avevano fallito è un fatto. Che ci piaccia o no, una foto scattata al momento giusto e diffusa al momento giusto può cambiare il mondo, o almeno la percezione di una fetta consistente della comunità internazionale.
Se nell’era dell’immagine il click dell’otturatore di una reflex può quindi acquistare un potere enorme, questo potere deve anche vedersela con altre distorsioni del moderno mondo della comunicazione. Ed ecco che il giorno dopo sui giornali italiani e di tutto il mondo gran parte dei commenti (ma non tutti, va riconosciuto) si dividevano in due linee tematiche principali: da una parte chi cercava in maniera ossessiva informazioni biografiche su Aylan, sua madre, suo padre, il fratellino, la casa a Kobane e qualunque cosa potesse aumentare il volume drammatico della vicenda isolandola dal suo macro-contesto, ovvero il conflitto siriano.
Dall’altra, invece, dotti commentatori cercavano di lanciare più o meno profonde riflessioni sulla forza dell’immagine nell’era moderna, il crescente ruolo dell’emotività nella politica e nel giornalismo e altre simili considerazioni intellettuali. Meno chiaro era invece dove si fosse perso il filone forse un po’ più “banale” che dall’immagine che aveva “scosso gli animi” cercasse di risalire alla notizia (o alle notizie) che avevano generato il fenomeno di cui era divenuta simbolo: cosa accade in Siria? E, soprattutto, cosa accade in Siria che spinge milioni a lasciare in fretta e furia il proprio paese in proporzioni (ormai siamo a cinque su una popolazione di 22 milioni) sempre più epocali?
Scartabellando infatti tra i numerosi – e spesso ignorati – materiali giornalistici, report e ricerche di ottima qualità pubblicati sul tema in questi anni emerge infatti un quadro assai più complesso delle spiegazioni standard “scappano dalla guerra” o “fuggono dall’Isis” con cui la questione viene liquidata il più delle volte.
In generale, quello che andrebbe detto e ripetuto in maniera molto più netta è che la guerra in Siria è una guerra che ha visto, molto più di molti conflitti passati, una trasformazione sistematica dei civili in veri e propri obiettivi militari.
Già molto prima che l’Isis si palesasse in tutta la sua forza nel giugno 2014, erano già oltre tre milioni e mezzo i profughi che dalla Siria avevano raggiunto i paesi limitrofi e cominciavano a dirigersi verso l’Europa. Ma se non scappavano dall’Isis da cosa scappavano?
Innanzi tutto dai bombardamenti a tappeto del regime. Dall’inizio del conflitto armato con i ribelli, Assad ha sempre avuto come principale preoccupazione quella di evitare che l’opposizione formasse nelle zone da essa liberate una amministrazione effettivamente funzionante in grado di fornire quei servizi e quelle istituzioni che fino a quel momento erano stati monopolio del suo regime. Non era accettabile che un governo funzionante e una “vita civile” avessero luogo al di fuori del suo controllo rappresentando una pericolosa alternativa per una futura transizione politica.
È successo soprattutto ad Aleppo e a Ghouta, sobborgo fuori Damasco divenuto tristemente noto per l’attacco chimico dell’agosto 2013. Ad Aleppo, già a partire dal 2012, le forze ribelli avevano iniziato a rimettere in funzione servizi come scuole e ospedali, divenuti presto tra gli obiettivi principali dell’aviazione di Damasco. Molte Ngo internazionali come Human Rights Watch hanno documentato l’uso intensivo di armamenti progettati e costruiti esattamente a questo scopo tra cui l’uso di “armi chimiche minori” come il chlorine e, soprattutto, le famigerate “barrel bomb”: veri e propri “barili bomba” che, riempiti di esplosivo mischiato a piccoli pezzi di ferraglia e scagliati a mano dagli elicotteri, si abbattono sulle zone abitate con lo scopo preciso di terrorizzare, ferire e uccidere il maggior numero possibile di persone.
In zone come Aleppo l’uso è stato così intensivo da causare un fenomeno assai raro e paradossale perfino per un conflitto civile: il trasferimento di moltissimi civili in prossimità del fronte dei combattimenti, e non in direzione opposta come normalmente accade. Questo perchè l’uso di queste armi molto imprecise è raro in zone di combattimento visto l’alto rischio di colpire le proprie truppe.
Molti altri invece hanno scelto la fuga. Da Aleppo e dal nord verso la Turchia, dalla zone di Damasco, Homs e dal Qalamoun verso il Libano, mentre nel sud, nella zone di Daraa’ (anch’essa bombardata pesantemente) verso la Giordania. E da lì spesso verso l’Europa.
Ma se il monopolio sull’aviazione militare ha reso il regime di Assad certamente la fazione più efficace nel trasformare i civili in obiettivi militari per i propri scopi politici, la radicalizzazione dell’opposizione ha portato a gravi violazioni dei diritti umani in molte zone contese. Specialmente le minoranze, a cominciare dagli alauiti (la setta a cui appartiene il clan Assad), sono state sottoposte a pesanti attacchi, rapimenti e stragi. In particolare, in molte regioni si è assistita una vera e proprio ridislocazione interna su base settaria. Villaggi misti sono stati spesso abbandonati dai gruppi etnico-religiosi in minoranza ridisegnando, forse in maniera permanente, la mappa etnico-settaria del paese.
A questo fenomeno, e alle violenze che lo hanno accompagnato, hanno partecipato anche le milizie curde del Ypg, divenute molto note in Occidente dopo la battaglia di Kobane e spesso celebrate come eroi, ma che molti testimoni accusano di aver eseguito vere e proprie pulizie etniche nei villaggi misti kurdo-arabi all’interno del Kurdistan siriano, probabilmente in vista di una futura possibile spartizione del paese.
Infine l’Isis. La formula, per quanto banale, “scappano dall’Isis” non è infatti priva di verità. Come è noto, lo Stato Islamico ha reso la persecuzione delle minoranze religiose e l’applicazione rigida e spietata del suo brand di Sharia il proprio marchio di riconoscimento. Esecuzioni e stupri sono purtroppo diventate all’ordine del giorno e, al contrario dei crimini di altre fazioni, hanno trovato molto più spazio sulle pagine dei giornali internazionali.
Quel che è meno noto è il crescente sospetto che l’Isis abbia cominciato a usare anche armi “non convenzionali” per terrorizzare avversari e popolazione civile nelle zone di combattimento. Secondo alcuni esperti, vi sarebbero numerose prove dell’uso di armi chimiche da parte dell’Isis come il mustard gas (gas mostarda o iprite), che nonostante il nome dall’apparenza buffa è uno dei gas più letali in circolazione. L’ipotesi più accreditata su come l’Isis ne sia venuto in possesso è che le abbia sottratte dai depositi del regime caduti nelle sue mani. Già nel 2013, dicono gli esperti, erano forti i sospetti che il regime non avesse dichiarato tutte le armi chimiche di cui era in possesso, e il rispuntare di queste armi a distanza di un anno e mezzo confermerebbe questi sospetti.
Per fermare questo uso intensivo e diffuso dei civili come obiettivi militari nel febbraio 2014 il Consiglio di Sicurezza ha approvato all’unanimità (Russia compresa) la risoluzione 2139 che chiedeva esplicitamente a tutte le fazioni sul terreno (e specialmente al regime di Assad) di interrompere questo genere di operazioni militari indirizzate specificamente contro la popolazione civile. La pressione internazionale ha portato effettivamente a una diminuzione degli attacchi subito dopo l’approvazione. Ma l’avvento della minaccia dell’Isis pochi mesi dopo ha interrotto questo processo. E, mentre il mondo guardava atterrito le bandiere nere, bombardamenti e stragi sono riprese con intensità perfino maggiore di prima nella noncuranza generale. Una noncuranza che oggi, con milioni di profughi che bussano alle nostre porte, ci sta costando molto cara.
Eugenio Dacrema
Cronache di ordinario razzismo
10 09 2015
Le donne e gli uomini che arrivano in Europa cercano un futuro.
Legittimamente, pensano di avere quel diritto all’esistenza che nei loro paesi è negato.
Tutti noi, come singoli e come collettività, abbiamo la responsabilità di fare in modo che questo diritto sia loro garantito.
Noi tutte e tutti, donne e uomini dell’occidente, insegnanti, studenti, lavoratori, pensionati, disoccupati, attivisti, operatori del mondo dell’informazione, intellettuali, esponenti del mondo della cultura, possiamo e dobbiamo scegliere: tra l’egoismo, la disumanità, le diseguaglianze, l’odio, il razzismo e la xenofobia che generano sofferenze, dolore e morte e l’umanità, la pace, l’eguaglianza e la giustizia sociale.
Abbiamo un compito: quello di dissolvere l’ottusità, la cecità e la sordità dei vertici degli Stati europei. Spingendoli una volta per tutte a fermare le stragi che per mare e per terra hanno ucciso migliaia di donne, uomini e bambini.
A offrire a queste donne e a questi uomini un’accoglienza dignitosa.
A sostenere con interventi e mezzi adeguati la costruzione del loro futuro.
A combattere in ogni spazio e in ogni luogo e con tutti gli strumenti possibili il dilagare della xenofobia e del razzismo.
Stare a guardare significa rendersi corresponsabili.
Per questo Lunaria aderisce alla Marcia delle donne e degli uomini scalzi del prossimo 11 settembre e invita ciascuno e ciascuna a partecipare.
Qui è possibile leggere il manifesto della Marcia.
L’appuntamento a Roma è alle ore 17.00, presso la sede del centro Baobab, in via cupa 5 (qui dettagli).
Qui la lista, in continuo aggiornamento, delle altre città in marcia.
Dazebao
10 09 2015
Giovani, sottopagati e sottoinquadrati, precari e ricattati: questa la fotografia dei lavoratori stranieri impiegati nel settore delle costruzioni, presentata oggi da Fillea Cgil e Fondazione Di Vittorio all'Assemblea Nazionale dei lavoratori stranieri, in corso di svolgimento al Centro Congressi Frentani di Roma.
Nelle costruzioni la presenza dei lavoratori stranieri è strutturale e storica, soprattutto nel comparto dell’edilizia: parla straniero il 17% dell’intera forza lavoro del settore, con punte che in alcuni territori superano il 50%: in tutto 250mila lavoratori (50mila in meno del dato pre-crisi) che, insieme agli altri immigrati presenti in Italia – 5 milioni in totale – producono il 9% della ricchezza italiana, 123 mld di Pil, 20 circa solo le costruzioni. Escludendo ovviamente il lavoro nero, stimata dalla Fillea in almeno 300mila “fantasmi", che sfuggono ad ogni statistica e ad ogni tutela, ma non certo a quell'economia sommersa che vale il 12% del Pil nazionale.
Nonostante una presenza così strutturata dei lavoratori stranieri “quello delle costruzioni continua ad essere un mercato del lavoro duale, in cui gli immigrati sono vittime di segregazione occupazionale, discriminazione, ricatto. E poi la dequalificazione ed il sotto-inquadramento, come dimostrano i dati delle Casse Edili” racconta il segretario generale della Fillea Walter Schiavella, che spiega “il 55% dei lavoratori stranieri ha la qualifica di operaio comune, contro il 28% degli italiani; gli specializzati stranieri sono il 13%, a fronte del 36,5% italiano. E’ un andamento che di anno in anno continua a peggiorare, confermando il sotto-inquadramento come uno degli strumenti preferiti dalle imprese per comprimere i costi del lavoro senza eccessivi rischi. Tre lavoratori inquadrati al primo livello corrispondono più o meno al costo di due operai specializzati, se facciamo due conti possiamo dire che ogni anno spariscono centinaia di milioni di euro di contributi. Otto anni di crisi, a cui si sono aggiunti gli interventi dei governi mirati solo alla deregolamentazione, hanno fatto proliferare meccanismi come questo, o come il finto part time o le false partite Iva o i distacchi comunitari.”
In tutto 76mila, nella Fillea i lavoratori stranieri rappresentano il 24% degli iscritti: maggiore la presenza nelle regioni del centro-nord, con punte che raggiungono il 40% nel Lazio ed in Liguria, mentre tra le regioni meridionali svetta l’Abruzzo con il 26,6%.
E parlano straniero anche tanti delegati e funzionari, provenienti soprattutto da est Europa, Africa, Sud America. Tra loro tante storie, da quella di chi è arrivato vent’anni fa per caso o per studiare (ora con nazionalità italiana), a quelli che in Italia ci sono arrivati da clandestini, su barconi o treni della speranza, e poi la fame, il lavoro nero, il ricatto e le violenze dei caporali..e poi quella prima busta paga e quel permesso di soggiorno costati sangue e fatica. Ed infine, l’incontro con il sindacato, che ha cambiato la loro vita. E che sta cambiando la vita del sindacato.
E sono proprio loro, il piccolo drappello di funzionari migranti della Fillea, i protagonisti di un altro Report presentato oggi dal sindacato, focalizzato sul loro ruolo nel sindacato, che sicuramente consegna agli edili della Cgil importanti spunti di riflessione.
Età media 42 anni, in Italia da almeno tre lustri, titoli di studio prevalenti alti e medio-alti: questo il profilo medio dei funzionari coinvolti nell’indagine, illustrata da Emanuele Galossi, della Fondazione DI Vittorio, che racconta "dalle interviste risulta che le maggiori difficoltà incontrate da questi funzionari nel rapporto con il sindacato e con i lavoratori sono stati la poca conoscenza dei temi sindacali, la diffidenza da parte dei lavoratori italiani nei confronti del sindacalista straniero e la difficoltà nella comunicazioni per via della lingua” gap su cui però il sindacato “è intervenuto con un forte impegno in progetti di formazione.”
Da parte degli intervistati c’è soddisfazione del proprio percorso all’interno del sindacato ma "per più della metà di loro occorre che il sindacato faccia di più, ci sia più coraggio. Ad esempio più funzionari immigrati, più coinvolgimento nelle scelte, più contatto diretto con i lavoratori ed i disoccupati, anche sperimentando nuove forme di rappresentanza e di lotta.”
Richieste che trovano conferma e sostegno nelle parole del segretario generale "più giovani e migranti sono i lavoratori, più giovane e migrante deve essere il sindacato che li rappresenta" ma su questo occorre un impegno di tutto il sindacato "servono scelte concrete e coerenti che accompagnino e favoriscano il ricambio generazionale, dobbiamo rinnovare le forme della nostra azione e quelle della nostra comunicazione con i lavoratori. Il contributo dei nuovi funzionari - penso ai migranti, ai giovani, alle donne - in questo sarà determinante" conclude Schiavella.
Melting Pot
09 09 2015
L’associazione Ospiti in Arrivo racconta il viaggio di conoscenza sulla rotta dei migranti Budapest - Belgrado
Articolo di Francesca Carbone, Ospiti in Arrivo
Seconda parte del reportage del viaggio di conoscenza sulla Balkan Route organizzato da un gruppo di volontari della onlus Ospiti in Arrivo (Udine), accompagnata da alcuni simpatizzanti. Il viaggio, pianificato settimane prima, si è svolto proprio durante il momento di massima esposizione mediatica dei paesi balcanici a causa dell’intensificarsi degli arrivi dei migranti provenienti principalmente da Siria, Afghanistan e Pakistan. Da tempo le realtà del volontariato e dei movimenti che da Gorizia a Udine si occupano dei richiedenti asilo afgani e pakistani in arrivo dalla Balkan Route (che restano in strada anche per mesi prima di entrare in accoglienza) hanno in progetto di stringere contatti con realtà affini nei paesi di passaggio.
Terza tappa: Budapest, stazione Déli pályaudvar
Anche a Déli, come nelle altre due stazioni ferroviarie di Budapest, l’autorità locale ha predisposto una “transit zone”, con servizi igienici e docce. Come nel caso di Keleti, anche qui è presente una struttura fissa, messa a disposizione dal Comune all’associazione Migration Aid. Lo spazio è piuttosto buio, non c’è l’energia elettrica, ma a noi e alla volontaria con cui parliamo sembra già una grande conquista aver una stanza in cui lavorare. Il confronto con la realtà udinese risulta inevitabile: quanto si migliorerebbe il servizio offerto se si potesse contare su quattro muri ed un tetto sulla testa? E’ in questo spazio che i volontari ungheresi ripongono i beni che vengono offerti dalla cittadinanza a favore dei migranti (cibo e acqua, prodotti per l’igiene personale, coperte, sacchi a pelo, tende e vestiti) e organizzano le attività ricreative e di informazione. Infatti, oltre alla distribuzione dei beni di prima necessità, l’associazione si occupa anche di fornire indicazioni circa le future tappe del viaggio, come dimostra una bacheca con numerosi volantini in arabo, farsi e pashtu posta all’entrata del magazzino.
Questo è l’intervento organizzato da Migration Aid, un’associazione piuttosto eterogenea che, grazie soprattutto all’apporto dei social media (Facebook in particolare), può contare oggi su circa 700 sostenitori, più o meno coinvolti nelle varie attività. Ci sorprendiamo dell’efficienza, perciò decidiamo di informarci di più circa la collaborazione con le autorità locali. Con il Comune, in effetti, il rapporto è controverso, ma quel che in fondo è necessario all’associazione è avere i mezzi per operare e preparare una “resistenza civica”, al di là delle prese di posizione della politica. Anche la Chiesa Battista sostiene Migration Aid, mentre alcune difficoltà sono emerse con le moschee della capitale, reticenti ad intervenire in favore dei profughi per timore di ritorsioni. In questo caso, come anche scopriremo più avanti nella città di Szeged, l’assistenza umanitaria si attua in un difficile compromesso: è evidente come i volontari siano costantemente posti davanti alla contraddizione tra quanto ufficialmente permesso e quanto umanamente desiderato per il benessere dei profughi. Infatti, oltre a preoccuparsi delle condizioni dei migranti, i volontari si occupano (loro malgrado?) di indirizzare le persone in uno dei campi profughi ungheresi, appena fuori Budapest. Si tratta del campo governativo di Bicske, che insieme a quello di Debrecen e Vamosszabadi, raccoglie oggi in condizioni precarie le numerose persone in arrivo dal confine con la Serbia e non solo. Di questa realtà si sa poco, se non che si tratta di un campo governativo “aperto” - nel senso che i profughi possono entrare e uscire liberamente - e che la polizia ungherese tende a chiudere entrambi gli occhi nel momento in cui qualcuno si appresta ad andar via per continuare il proprio viaggio fuori dall’Ungheria.
Mentre parliamo con la volontaria di Migration Aid, lo sguardo va oltre la porta del magazzino: al bar della stazione ci sono molti clienti, ma l’attenzione si sofferma su alcuni bambini siriani che saltano la corda e giocano insieme ai volontari con le bolle di sapone e i palloncini. Rari attimi condivisi di serenità.
Quarta tappa: Debrecen, campo aperto per richiedenti asilo
Da Budapest decidiamo di muoverci in direzione orientale verso Debrecen, seconda città ungherese per abitanti, e sede del più importante campo governativo per richiedenti asilo del Paese. Giungendo in auto lungo Samsoni Utca, prima di arrivare all’ingresso centrale del campo, al civico 149, notiamo sulla destra il muro perimetrale del centro in tutta la sua desolante estensione. La struttura sorge sui resti di un’ex-base militare sovietica e sembra conservarne ancora lo spirito. Ovviamente non ci è consentito entrare, ma A. ci aspetta fuori dal cancello principale per raccontarci ciò che ha vissuto nel campo nei suoi nove mesi di permanenza. Ci sediamo sul prato antistante l’ingresso, vicino alla fermata dell’autobus e dei taxi.
Quello di Debrecen è un campo gestito dall’Ufficio Nazionale per l’Immigrazione ungherese adibito alla raccolta della maggior parte dei richiedenti asilo provenienti dal confine meridionale del Paese. La maggior parte di essi proviene dalla stazione di Szeged, dove le autorità concedono un documento che attesta l’ingresso illegale in Ungheria e che permette la circolazione gratuita sui treni per 48h. La concessione è limitata alla sola tratta Szeged-Debrecen, naturalmente.
Del campo di Debrecen ben poco è raccontato ai migranti in arrivo dalla Serbia. A. ce ne ha anticipato in qualche modo la ragione. Pensato per accogliere 773 persone, il centro oggi ne ospita quasi 1500, tra donne, uomini e bambini. Le persone hanno origini tra le più varie. Siriani, afghani, pakistani, persone dall’Africa e persino cubani (una decina, tra cui una famiglia) convivono nello stesso spazio, raggruppati informalmente in base alla provenienza. Dalla nazionalità dipende anche il tipo di trattamento ricevuto all’interno campo. I siriani sono senza dubbio i più rispettati, a seguire afghani e pakistani. Diversa è la condizione degli africani, alle quali a volte, a dispetto di quanto la storia ci ha già insegnato, viene anche negato l’accesso agli autobus.
Il campo è “aperto”: questo vuol dire che i profughi sono liberi di uscire senza particolari autorizzazioni e con un’autonomia di quattro giorni al massimo, trascorsi i quali la riammissione è a discrezione degli operatori del campo. In ogni caso, se qualcuno si assenta per più di un giorno è altamente improbabile che ritorni al campo. Mentre chiacchieriamo con A., un gruppo di una decina di persone, tra uomini e bambini, esce dal cancello principale con piccoli bagagli e zainetti sulle spalle, probabilmente diretti verso Budapest. La polizia all’ingresso abbozza perfino un saluto. All’interno e all’esterno del campo i cosiddetti “linkers”, passeurs in contatto con altri agganci ungheresi, indirizzano le rotte dei migranti dietro alto compenso.
Dall’esterno dei cancelli riusciamo a intravedere gli edifici, sono dei capannoni fatiscenti, alcuni con i vetri rotti e ci viene inevitabilmente da pensare all’inverno che verrà. Cerchiamo di captare curiosamente dal nostro testimone quante più informazioni possibili sulla vita nel campo. Quei prefabbricati sono destinati alle famiglie, mentre ci sono altri spazi per le donne sole (misura di protezione peraltro inutile considerando la presenza nota a tutti di traffico di droga e prostituzione). Le condizioni del campo sono in generale molto precarie e sebbene esistano dei servizi di assistenza medico-legale, questi non sono ritenuti sufficienti dai beneficiari. Il campo è gestito da social workers, giovani ungheresi tra i 20 e i 25 anni, alle dipendenze dirette dell’Ufficio per l’Immigrazione. I richiedenti asilo dispongono poi di assistenza psicologica 4 ore a settimana e l’Helsinki Committee si occupa, invece, dell’accompagnamento legale per 3 giorni a settimana. Durante la nostra conversazione ci si avvicina un papà africano con due bambini di un paio d’anni ciascuno. Il maschietto gioca con noi, intraprendente ed irrequieto, nel suo fare la determinazione di chi sa quello che vuole.
Salutiamo A. all’imbrunire, il nostro viaggio lungo la rotta balcanica deve continuare. Siamo sempre più interessati a comprendere quali siano i meccanismi che muovono il sistema, quali le cause che portano i migranti ad accettare di vivere in una costante e precaria situazione di “limbo”, come da loro stessi definita. L’incertezza e l’attesa caratterizzano ogni tappa del loro cammino, in un contesto di compromettente assenso istituzionale che favorisce i guadagni di chi specula sulle loro vite. Questa ambiguità li accompagna lungo i binari che collegano Horgoš a Rőszke sul confine serbo – ungherese, osservati dagli agenti di polizia da un lato e richiamati da qualche passeur nascosto tra i campi di pannocchie dall’altro. Il clima di disorientamento è palpabile alla stazione dei treni di Szeged, dove alcuni migranti si preparano per partire per destinazioni a loro ancora sconosciute, mentre un avvocato e un sociologo attivi sul campo mettono in luce il compromesso tra le disposizioni ufficiali del governo e le pratiche ufficiose dei volontari.
Il nostro viaggio sulla rotta balcanica finisce laddove molti profughi pensano di lasciarsi alle spalle il peggio della loro migrazione. Tra danze e strumenti improvvisati, molti siriani intonano le loro canzoni in un grande parco, ormai adibito ad accampamento d’emergenza, accanto la stazione di Belgrado. I serbi del comitato Food not Bombs, attivissimi in questo spazio di prima accoglienza, denunciano apertamente le vere questioni che sfondano il politically correct: no alla guerra, no all’imperialismo e alla NATO, sì alla libertà di movimento e documenti per tutti. L’importante ora è mantenere i contatti con i militanti e costruire legami di solidarietà e supporto reciproco tra le associazioni oltre i confini. Il viaggio continua.
- Leggi la prima parte del Reportage dalla Balkan Route: le stazioni di Budapest
Connessioni precarie
09 09 2015
di FERRUCCIO GAMBINO
1. Nell’agosto del 2015 a Budapest né autobus né treni erano disponibili per il trasporto dei profughi siriani verso l’Austria. Fatte le debite proporzioni, il loro destino rammentava vagamente la situazione dei profughi eritrei, etiopi e sudanesi che per molto tempo rimanevano appiedati attorno all’oasi di Kufra, nel Sud della Libia. Ma la Mitteleuropa è la Mitteleuropa. Ai primi di settembre, il governo ungherese di Orbàn ha messo a disposizione i mezzi pubblici, una misura analoga a quella del 1989, quando il governo Németh lasciò passare i tedesco-orientali, decisi sì a emigrare all’ovest ma evitando finalmente il tiro al piccione lungo il muro di Berlino.
Nell’ormai lontano agosto del 1989 la questione dei mezzi di trasporto riguardava qualche centinaio di «turisti» della già traballante Repubblica democratica tedesca (Rdt). I «turisti» avevano attraversato l’Ungheria giungendo fino alla frontiera austriaca. La questione era: alla lunga, quel flusso avrebbe ridotto il muro di Berlino a un residuato bellico? In effetti, il 19 agosto 1989, circa 600 tedesco-orientali erano entrati in Baviera, dopo aver passato alla spicciolata il confine ungherese-austriaco sotto lo sguardo benevolo delle guardie di entrambi i Paesi. Il governo della Rdt aveva protestato. Per rabbonirlo, i governanti ungheresi arrestarono e rimpatriarono un gruppo di tedesco-orientali. Poi, nel giro di una ventina di giorni, cambiarono idea e diedero autobus e treni ai partenti. Che cosa era successo in quell’arco di tempo? Semplicemente che il governo conservatore della Repubblica federale tedesca (Rft) aveva oliato le ruote dei mezzi di trasporto ungheresi.
Infatti, Helmut Kohl, il cancelliere della Rft, aveva sganciato segretamente un prestito da un miliardo di marchi all’indebitato governo Németh, aggiungendo poi allettanti promesse per il futuro[1]. Era il 25 agosto 1989, data dell’incontro tedesco-ungherese nei pressi di Colonia. Incassato il pingue assegno, il governo ungherese trovò i mezzi per trasportare verso ovest i «turisti» tedesco-orientali accampati a Budapest. Si dirà: quella del 2015 è una situazione ben diversa. Indubbiamente, soprattutto perché allora tutti i «turisti» erano considerati migranti politici, mentre oggi soltanto i siriani, con l’aggiunta di un gruppo minoritario di irakeni e afghani, sono registrati come tali, mentre «gli altri» sarebbero evidentemente migranti «economici». Ad esempio, oggi i cittadini del Burundi hanno ottime ragioni per emigrare – e infatti fuggono verso il Congo – ma non troverebbero vita facile in Ungheria, così come in molti altri Paesi europei, anche se il presidente-dittatore burundese non lesina le maniere forti contro la crescente opposizione
2. Nei primi otto mesi di questo 2015 si sono contati 310mila profughi in arrivo dalla sponda sud alla sponda nord del Mediterraneo; di questi, circa 200mila sono riparati in Grecia e 100mila in Italia, i due paesi della cosiddetta prima accoglienza. Nello stesso periodo i morti e i dispersi nella traversata del Mediterraneo sono almeno 2.800, per la maggior parte africani, fra cui non si contano, ad esempio, i giovani finiti sulle lame dei muri eretti dal governo spagnolo a Ceuta e Melilla.
Il 25 agosto del 2015, esattamente 26 anni dopo l’accordo sottobanco di Kohl con Németh, il cancellierato tedesco si sporge sul baratro. Fino a quel momento era sotto gli occhi di tutti che la Grecia e l’Italia erano state lasciate sole nell’accoglienza dei rifugiati nell’area dell’UE. Di colpo, il governo Merkel scopre la questione dei profughi siriani e sospende – soltanto per loro e per gli irakeni e gli afghani aggregati – quel notorio sbarramento che è dettato dal patto «Dublino III» dell’Unione europea: da un atteggiamento di rifiuto guardando all’estrema destra tedesca, Berlino passa a una politica di ingressi selettivi guardando soprattutto al mercato del lavoro interno e alla spinta verso un’indiscussa primazia in Europa. Ai siriani che sono riusciti a passare attraverso la ruvida Macedonia e la meno ruvida Serbia si apre la possibilità di trovare rifugio in Germania. I siriani sono generalmente giovani e istruiti (è sottinteso che siano più istruiti degli africani) ed entreranno agevolmente nel sistema d’impiego. Negli stessi giorni, al largo della Libia continuano ad affogare africani sulle carrette del mare (26.8), mentre in Austria si scoprono più di 70 profughi abbandonati e soffocati nel container di un Tir (27.8). In Italia, in un sol giorno sono circa in mille a sbarcare (28.8); tra di loro si contano quattro morti, di cui due bambine di cui non vengono diffuse le fotografie.
Per contro, sei giorni dopo fa il giro del mondo la fotografia del cadavere di un bambino siriano sulla spiaggia turca di Bodrum, morto durante il tentativo della famiglia di raggiungere l’isola greca di Kos. Tutti i mezzi di comunicazione dell’Unione europea sono mobilitati a dare il massimo risalto alla notizia e a discutere della fotografia, mentre il Mediterraneo occidentale viene mediaticamente oscurato. Salvifica, la fotografia del cancelliere Angela Merkel campeggia tra gli striscioni che aprono la marcia dei siriani verso ovest, mentre l’Austria e la Baviera accolgono i primi profughi siriani in provenienza da Budapest. Il premier britannico David Cameron teme di perdere la faccia a fronte dell’universalismo merkeliano e promette di considerare l’accoglienza di qualche migliaio di siriani, quelli particolarmente «bisognosi», ma soltanto a condizione che non siano ancora arrivati in un qualsiasi Paese dell’Unione europea. Dal canto suo, il presidente francese Hollande propone di affrontare la questione siriana alla radice, bombardando selettivamente alcune aree della Siria, una decisione per la quale propende anche il governo britannico.
In breve, l’inquietante oscillazione emotiva provocata prima dal lungo immobilismo e poi dalla repentina decisione del governo tedesco a favore dell’accoglienza dei siriani – e propagata a onda dai media al resto dell’Unione europea – lascia presagire ulteriori e gravi manipolazioni dell’opinione pubblica per il futuro in tema di migrazioni. Il vuoto di una qualsiasi politica migratoria coordinata dell’Unione europea è pneumatico e non da ora. Si tratta del non detto – durato più di 60 anni – di un progetto di unificazione formulato per risolvere i conflitti tra gli Stati prima con il Mec , poi con la Cee e infine con l’Unione europea, mentre la politica estera (a parte gli accordi commerciali ma compresa la politica neocoloniale) è rimasta prerogativa dei singoli Stati. È sintomatico che, per reazione alle traversie patite dai profughi nel tragitto dalla Turchia all’Ungheria, sia in aumento il flusso dei siriani verso la Norvegia: da Beirut a Mosca, da Mosca a Murmansk e poi, con mezzi di fortuna, fino a Oslo. In agosto in Norvegia si contavano circa 100 arrivi al giorno. È un cammino per saltare a piè pari l’Unione europea, un cammino quasi sempre precluso a comuni profughi africani.
Quasi tutti hanno dimenticato che il problema enorme e cruciale di oggi e dei prossimi decenni non è la pur drammatica condizione dei siriani nella tormenta della guerra, bensì il tragico potenziale migratorio in provenienza dalla dimenticata Africa. Da una parte la politica guerrafondaia delle monarchie del Golfo in Libia (oltre che in Iraq, Siria e Yemen), dall’altra la xenofobia diffusa globalmente contro gli africani stanno operando alacremente per l’avanzata della barbarie. Attualmente si contano a decine le città africane – dal Burundi alla Repubblica centro-africana alla Libia – dove il mercato delle armi è l’unico fiorente e dove si spara quotidianamente per le strade, dove le stragi sono moneta corrente – e da dove si tenta di fuggire, senza che il resto del mondo intenda rendersene conto. Ma contrariamente al passato, quello che è successo nel Medio Oriente non è stato contenuto nel Medio Oriente, quello che succede in Africa non potrà più essere contenuto in Africa.
[1] John L. Harper, La guerra fredda. Storia di un mondo in bilico, Bologna, Il Mulino 2013, p. 276 e n. 76, p. 345.
Communianetwork
09 09 2015
Il 25 febbraio 2012 in Val di Susa si svolge una grande manifestazione popolare No Tav. Una delle tante, belle, colorate e partecipate mobilitazioni del Movimento; contro una “grande opera” devastante per il territorio e le popolazioni che lo abitano; un momento tra gli altri di una lotta diventata simbolo e riferimento per tutti e tutte coloro che resistono ai “comitati di affari” che piegano ogni cosa alla logica dei loro interessi privati.
Mobilitazione convocata inoltre in seguito alle grandi operazioni repressive dei mesi precedenti, con svariati arresti in tutta Italia, attuati nel tentativo di colpire giudiziariamente il movimento NoTav mentre cresce e diventa sempre più largo e di massa, in Val Susa e in moltissime città del paese.
Per queste ragioni, come in altre occasioni, quella manifestazione era diventata momento di mobilitazione nazionale.
50.000 persone da tutta Italia, contro la Tav in Val di Susa e contro tutte le “grandi opere” al servizio non delle comunità locali ma degli interessi di parte.
Anche da Milano, dalla Stazione Centrale parte un treno carico di centinaia di manifestanti, giovani e meno giovani, lavoratori, militanti sindacali, appartenenti ad associazioni ambientaliste, centri sociali, comitati di sostegno ai No Tav, studenti.
Si contratta un “prezzo politico” con Trenitalia, allora diretta dal “grande manager” Moretti, per permettere a tutti e tutte di partecipare. E si parte, per tornare tutti insieme allegri e convinti di aver vissuto una giornata di intensa mobilitazione popolare; alla fine di un corteo assolutamente pacifico, un serpentone colorato che si è snodato per ore da Bussoleno a Susa.
Quindi, “si parte e si torna insieme”, come si grida gioiosamente in corteo.
Ma alla stazione di Porta Nuova a Torino - dopo il tragitto dalla stazione di Susa fatto in assoluta tranquillità - ci si trova di fronte ad uno sgradevole “imprevisto”. La polizia e i Carabinieri sono schierati sui binari, impediscono l'accesso al treno di ritorno per Milano centrale.
La ragione? Trenitalia rivendica una specie di “sovrapprezzo” rispetto a quanto concordato alla partenza. D'altra parte da tempo Moretti e i vertici dell'Azienda non riconoscono più alcuna “ragione sociale” nella partecipazione alle grandi manifestazioni nazionali dei movimenti sociali.
Quindi, nessuno sconto. O si paga tutto - e caro - oppure si resta a piedi.
La delegazione milanese non accetta l'arroganza e il voltafaccia meschino - e strumentale - di Trenitalia. Si rivendica di partire al prezzo concordato; si comprende che dietro quell'atteggiamento c'è, forse, la rabbia dei “padroni del vapore” per una grande e riuscita manifestazione a sostegno di quei testardi, resistenti valsusini che così dimostrano di non essere affatto isolati in questo Paese.
Tutto da quel momento in poi avviene, certo, in un clima di tensione, con una contestazione dell'atteggiamento di Azienda e forze di polizia vissuto come provocatorio, ma in modo assolutamente pacifico. Si gridano slogan, ci si addensa di fronte ai cordoni di polizia che bloccano il binario; ma contemporaneamente si tratta con la Digos di Torino e con funzionari di Trenitalia, provando in qualche modo a “convincere”, a forzare pacificamente, a “sciogliere” quel blocco che impedisce di tornare a casa.
Finché, all'improvviso partono due, tre cariche molto violente, sia davanti che lateralmente ai cordoni dei manifestanti; cariche prolungate che coinvolgono anche semplici passanti e viaggiatori inconsapevoli.
Alcuni ragazzi cadono a terra, vengono picchiati, alcuni agenti lanciano lacrimogeni in stazione e anche dentro al treno pronto sui binari per Milano.
A testimoniare della brutalità improvvisa di quelle cariche resta la denuncia contro l'operato delle forze di polizia, fatta allora da due dei ragazzi finiti a terra e picchiati. Denuncia che verrà archiviata - per caso? -, ma che a nostro giudizio indica quali furono effettivamente le “violenze” e chi ne fu protagonista.
In questa confusione,cresce la rabbia, si fugge e si lanciano slogan; ma si cerca anche di non disperdersi. Dobbiamo tornare insieme, nessuno va lasciato indietro, bisogna prendersi cura dei feriti e dei contusi, verificare che nessuno venga fermato.
Molti reagiscono, si riformano cordoni, c'è un brevissimo lancio di oggetti verso le forze di polizia.
C'è sempre molta rabbia e si reagisce anche disordinatamente ed emotivamente. Nulla di simile ad una reazione preparata ed organizzata. Esattamente il contrario.
Alla fine si torna a discutere, si riesce a contrattare la partenza, in cambio di una “sottoscrizione volante” tra i presenti e che dà agli “esattori” di Trenitalia parte di quanto richiesto.
Cioè, se alla fine prevale un “senso di responsabilità” è quello dei manifestanti. Non quello dell'Azienda diretta da Moretti né quella della direzione in piazza delle forze di polizia.
Si torna, insieme, con molta tensione e qualche preoccupazione sulle possibili conseguenze di quanto accaduto a Milano e nelle settimane successive; ma anche con la soddisfazione non solo per la partecipazione alla giornata di lotta in Val di Susa, ma anche per essere riusciti a garantire il rientro collettivo dei manifestanti milanesi.
Ed oggi che accade? Qualche mese fa a due compagni di Milano, presenti a quella manifestazione, Dario del collettivo Ri-Make/Communia Network e Franco del collettivo Sos Rosarno viene notificata una comunicazione giudiziaria da parte della Procura torinese per i “fatti di porta Nuova”, con imputazioni piuttosto pesanti: resistenza aggravata, lesioni personali e interruzione di pubblico servizio.
Dimostrando come il “teorema” che vede i “cattivi” tra i sostenitori del movimento valsusino continui. Con una iniziativa giudiziaria che stravolge la realtà di quanto avvenuto in quella stazione, in cui praticamente agli imputati - e di fatto a tutti quelli che erano lì - viene addebitato un comportamento violento quasi “costruito”, preparato e pregiudiziale che non corrisponde né alle loro intenzioni né alla dinamica dei fatti.
I due compagni dovranno sostenere un processo. La prima udienza è convocata presso il Tribunale di Torino il 22 ottobre prossimo.
Ci sentiamo impegnati a sostenerli, come abbiamo sostenuto le ragioni del grande movimento di lotta in Val di Susa.
Ci impegniamo a far circolare informazioni e documentazione su quanto effettivamente avvenuto quel giorno. Vogliamo lavorare insieme a tutti i soggetti protagonisti di quella giornata, perchè vengano scagionati dalle accuse loro imputate nelle aule di quel Tribunale e possano continuare a partecipare liberamente insieme a tutti noi alle lotte e ai movimenti sociali che ci sono dinanzi.
Ancora oggi per noi si parte e si torna insieme.
Dalla Val di Susa a tutti i luoghi in cui si lotta e si resiste contro le ingiustizie e l'esclusione sociale, contro lo sfruttamento e tutte le oppressioni., contro la devastazione dell'ambiente e dei territori nei quali viviamo.
Abbatto i muri
09 09 2015
Stereotipi duri a morire. Lo dico da figlia di una coppia separata.
1] i figli devono restare con le madri perché sono le uniche a poter salvaguardare il loro benessere.
Non sempre è così. Io, per esempio, non volevo proprio stare con mia madre che urlava dalla mattina alla sera e sfogava le sue frustrazioni su di me.
2] le nuove compagne dei padri sono delle matrigne brutte e cattive.
Stronzata stratosferica. La nuova compagna di mio padre è una persona meravigliosa. Non dico che tutte debbano esserlo ma è sessista pensare che tutte siano pessime persone. La mia “matrigna” è un’amica, una supporter, una straordinaria ed empatica mediatrice nei conflitti con mio padre. Mi vuole bene e io ne voglio a lei. Mia madre ne è stata gelosa, ha parlato malissimo di lei e poi ha reclamato il suo diritto di sangue nei miei confronti. Il sangue non la fa madre più di quanto non faccia me sua figlia. Sono io che scelgo e io ho scelto di non stare con lei.
3] le madri separate sono sempre povere e sono trattate male dagli ex mariti.
Anche questa è una generalizzazione sessista. Mia madre non naviga nell’oro ma lavora. Mio padre l’ha lasciata vivere nella sua casa, fintanto che c’ero io, dopodiché l’ha affittata e a lei dà la metà dell’affitto. Di tanto in tanto lui le offre aiuto economico e io lo so non perché me l’abbia detto lui ma perché me l’ha detto mia madre pur disprezzandolo moltissimo.
4] i padri separati vogliono che i figli restino con loro perché sono abusatori o perché vogliono fare un dispetto alle ex mogli.
Ci saranno volte in cui è così e volte in cui invece non lo è. Non si può pensare che le madri siano tutte assolvibili in quanto donne e i padri tutti carnefici in quanto uomini. Sono rimasta con mia madre fino all’età di 12 anni. Poi, un giorno, non ce l’ho fatta più, sono scappata e sono andata da mio padre. Gli ho chiesto aiuto, perché altrimenti lui mi avrebbe rimandata da lei. Hanno lottato un po’ e poi lui è riuscito a convincerla che era meglio così. Ero un’adolescente che si ritrovava a scontrarsi con una madre priva di equilibrio e di forza. Umanamente potevo anche capire ma da figlia invece no.
5] i padri sono capaci di istigare odio nei figli nei confronti delle madri.
Non è stato vero per me. Mia madre mi ha parlato di lui in modo pessimo. Lei, mia zia, mia nonna, non hanno fatto altro che dirmi che lui era una merda. Non ho creduto a quello che mi dicevano e in ogni caso volevo verificarlo. Alla fine mi sono resa conto che quel che mia madre riteneva di merda era il comportamento di un uomo che non sopportava di essere trattato come una pezza da piedi. Non ce la faceva più.
6] i padri non vogliono che le ex mogli abbiano una nuova storia altrimenti le scatenano contro un inferno.
Non è vero. Nel mio caso è stata lei a diventare insopportabile quando ha saputo che lui si era messo con un’altra. Dopo ogni appuntamento tra me e mio padre lei mi tartassava di domande, voleva sapere tutto, la nuova compagna di mio padre per lei era una zoccola che voleva togliergli soldi che sarebbero dovuti spettare a me. Quando mia madre ebbe una storia per lui fu tutto normale. Acconsentì a facilitarla per farla stare con lui la sera, i sabati e le domeniche o in estate restando con me il più possibile.
7] i padri odiano che le ex mogli facciano dormire i fidanzati in casa.
Non è vero. Mio padre non ha mai avuto problemi. Si è informato su chi fosse e che faceva per rassicurarsi del fatto che non mi rendesse la vita difficile ma in realtà fu mia madre che pretese da lui che allontanasse la sua nuova compagna ogni volta che andavo da lui. Non voleva che io li vedessi dormire insieme, mano nella mano, a farsi le coccole. Non voleva che lei provasse a rivolgermi la parola. Dopo qualche mese di urla e atteggiamenti osceni (di mia madre) alla fine mio padre la mandò a quel paese e disse che era così e non poteva farci niente. Mia madre disse che voleva rivolgersi al tribunale dei minori per appurare che la nuova compagna di mio padre fosse una persona “limpida”. Poi ci ripensò e incassò il colpo, per fortuna.
8] se i figli non restano con le madri è perché i padri glieli mettono contro. È innaturale che i figli non amino la madre (sarebbe invece molto naturale vederli odiare i padri?). La loro psiche ne soffrirebbe e bla bla bla.
Sciocchezze. Io non odio né mia madre né mio padre. Non ho risentimento nei confronti di nessuno. A mia madre non ho nulla di brutto da dire. Non riesco a stare con lei. Non mi piace come persona. Voglio stare con mio padre e la sua nuova compagna. E tra un po’ andrò a vivere da sola. La mia psiche è a posto e trovo molto sessista questo modo di vedere le relazioni tra figli e genitori.
9] i figli di una famiglia separata subiscono un trauma indelebile e si rifletterà su tutte le relazioni future. La famiglia dovrebbe restare unita perché è così che deve essere.
Falso. Per me. Mi è dispiaciuto, all’inizio, poi però ho capito e soprattutto non ho vissuto questa cosa come la fine delle mie relazioni con i genitori. I miei punti di riferimento erano tutti lì e ho scoperto che se un amore finisce può iniziarne un altro e che essere consapevoli del fatto che un amore non è “per sempre” non è brutta cosa. Attualmente ho un ragazzo e sto con lui da due anni. Non è un rapporto malato, dipendente, infelice, squilibrato. Stiamo bene. Non so quanto durerà ma stiamo bene così.
10] i figli di una famiglia separata che non restano a vivere con le madri finiranno male, saranno sbandati, potenzialmente depressi, pensano al suicidio, si drogano e vivono relazioni sessuali senza sentimento e bla bla bla. Perché spezzare il legame madre/figlio sarebbe una cosa dagli effetti apocalittici.
Se dopo tutto quello che ho già raccontato pensate che io sia diventata quella cosa lì allora è stato inutile spiegare. Ma per chiarire, in conclusione, io sto bene. Il cordone ombelicale si spezza alla nascita e non mi risulta che i figli che restano sotto sorveglianza di una mamma chioccia siano mostri di equilibrio. Ho i miei alti e bassi, come tutti, ma preferirei autodefinirmi senza essere descritta per stereotipi da chi non sa vedere oltre il proprio naso. Posso raccontarmi, senza essere cavia di definizioni generalizzate, ed essendo protagonista della mia storia. Volete speculare sul dolore della gente? Fatelo con qualcun altro. Anzi. Non fatelo affatto.
Ps: è una storia vera. Grazie a chi l’ha raccontata.
Produzioni dal Basso
09 09 2015
Un libro, un video, un blog, una mostra fotografica, solidarietà diretta e il supporto ad un progetto d'appoggio alla resistenza curda in Rojava.
La situazione politica e sociale generata dall’attacco del governo Turco al Rojava negli ultimi mesi ha trasformato il nostro progetto e le tempiste del progetto. Non produrremo tutto il materiale narrativo/informativo in una unico blocco. Divideremo il progetto in due turni.
Il primo viaggio (5-15 ottobre) darà il via al progetto, sarà aperto il blog che giornalmente racconterà l'esperienza. Al ritorno realizzeremo la mostra fotografica, che poi sarà ampliata, e un breve ebook. Il secondo viaggio, con tempi da definire, completerà il materiale necessario per il libro ed il video.
Metà del ricavato di questa raccolta fondi verrà devoluto direttamente alla comunità curda a sostegno di un progetto d’appoggio alla Resistenza nel Rojava. Il progetto verrà individuato sul campo insieme alla comunità curda durante il primo viaggio. L'altra metà dei fondi serviranno a finanziare la produzione di materiale artistico e informativo, il cui ricavato finale andrà poi anch’esso a sostegno del progetto scelto.
Dopo queste precisazioni ecco il testo completo del progetto:
Siamo stati a lungo in silenzio. È tempo di muoversi, di avvicinarci gli uni agli altri, di parlare tra noi, di agire insieme. Accettiamo la sfida dei curdi, accettiamo il loro invito, troviamoci alle loro manifestazioni e raduni nelle nostre città, muoviamoci e rompiamo questa stretta mortale politica.
Così hanno scritto alcuni compagni tedeschi oltre un anno fa, quando non solo la resistenza ma anche l’esperimento rivoluzionario del Rojava siriano e delle comunità curde in Turchia si è mostrato con tutta la sua forza storica e politica. E noi non possiamo che condividere questo punto di partenza.
La resistenza del Rojava rivoluzionario e del popolo curdo è una delle storie di lotta più interessanti degli ultimi anni. Alla decennale offensiva dello Stato turco e alla più recente guerra civile in Siria, si è aggiunta anche la resistenza contro l’esercito fascista dell’Isis.
La guerra alle porte (perché il Vicino e Medio Oriente è profondamente intrecciato con i destini europei, ci piaccia o meno) non riguarda però solo la sfera militare: aumentano i fronti e si moltiplicano i nemici, in un’area dove il sistema statale imposto quasi cent’anni fa ha cominciato a crollare, tra le rivolte e guerre civili scoppiate nel 2010/11; all’interno di questo caos, le comunità curde hanno iniziato a costruire una società diversa alternativa a tutti i sistemi di dominio finora conosciuti.
Quello che sta succedendo in Rojava infatti ci sembra tremendamente innovativo, politicamente potente e, soprattutto, parla un linguaggio che sentiamo a noi vicino.
Lontano dalle pagine dei giornali e dai clamori televisivi questa vicenda continua a stupire per la sua capacità di ottenere inaspettati risultati militari e successi politici che ci danno speranza.
Staffette internazionali continuano a supportare materialmente il Rojava e il Kurdistan occidentale. Anche da Milano nasce l’idea di formare una carovana che mescoli artisti e attivisti, capace di portare solidarietà concreta e che sappia riportare informazione e comunicazione su quel che sta accadendo vicino e lontano dal fronte del combattimento.
I metri guadagnati dal Ypg e dal Ypj contro l’Isis sono importanti così come l’avanzata del Partito democratico dei popoli (Hdp), organizzazione ispirata alle teorie del confederalismo democratico, vicina alle formazioni del popolo curdo, rappresentante delle istanze più radicali della società turca, alle ultime elezioni generali in Turchia. Le line del fronte hanno forme e dimensioni diverse, si combattono in maniera differente, e si vincono sapendo modificare anche “se stessi” e la stessa società.
L’emancipazione delle donne curde, così come la trasformazione del Pkk, e le forme di autogoverno e autogestione che il Rojava sperimenta, sono solo alcuni degli esempi che ci dicono con chiarezza e forza i successi che, tra i deserti e le montagne del sud-est turco, al confine siriano, si stanno vivendo in questi anni.
Cercheremo di raccontare tutto questo con sensibilità, occhi e intelligenze diverse. A fine viaggio scriveremo un libro e produremo un documentario, entrambi pagati con questo crowdfounding. La vendita di libro e documentario andranno poi a finanziare un progetto, il progetto che sceglieremo in viaggio e che inizieremo a finanziare con una parte importante della raccolta fondi.
Uiki Onlus
09 09 2015
Centinaia di civili curdi feriti e molti assassinati. La polizia ha partecipato agli attacchi contro i civili curdi.
Il Presidente turco Erdogan e l’Akp hanno provocato gruppi di fascisti, nazionalisti e razzisti a protestare e formare squadre per linciare e terrorizzare i civili curdi attaccando case in diversi quartieri di Istanbul, Ankara, Kirsehir, Kocaeli, Smirne, Balikesir, Malatya, Mulga, Mersin, Keçiören, Tuzluçayır, Beypazarı, Balgat, Isparta, Konya, Antalya e molte altre città.
A seguito di provocazioni continue da parte del Governo di Recep Tayip Erdogan, gruppi razzisti dell’AKP e gruppi fascisti si sono lanciati in attacchi coordinati contro civili curdi, hanno attaccati negozi curdi, case, aziende e uffici dell’HDP. Questi attacchi sono in corso dalle ultime 48 ore.
Centinaia di civili curdi in Turchia occidentale sono stati feriti durante gli attacchi di questi fascisti, e un numero imprecisato di persone sono state assassinate. Centinaia di curdi in varie città turche sono attualmente bloccati negli uffici HDP, dove hanno cercato riparo dal linciaggio di questi gruppi. Le squadre di fascisti hanno rotto le finestre, hanno scandito slogan anti-curdi e anti-HDP, mentre la polizia locale non è intervenuta per fermare questo terrorismo di massa.
Dall’inizio della guerra turca contro i curdi 32 anni fa, questa è la prima volta che tali violenze si sono verificate su così larga scala. Erdogan e l’AKP stanno direttamente, in modo esplicito, e volutamente provocando scontri razziali e attacchi da parte dei nazionalisti. Due giorni fa Erdogan ha dato l’ordine ufficiale alle forze di polizia di sparare a vista ai civili se ritenuti una “minaccia”. Egli ha anche invitato l’opinione pubblica a informare di compagni civili che avessero ritenuto agire in maniera “sospetta”. Questo è un tentativo di dividere la società e promuovere conflitto interno tra gruppi etnici, e stimolare il razzismo anti-curdo.
Le folle si stanno organizzando attraverso i social media, formando gruppi e attaccando case note per appartenere alle famiglie curde. Si sono verificati attacchi contro 128 uffici dell’HDP dove il simbolo del partito e i suoi slogan sono stati strappati e sostituiti con la bandiera turca. Altri uffici sono stati dati alle fiamme. I gruppi fermano gli autobus locali che viaggiano tra le città e controllano le carte di identità della gente per determinare chi è curdo o meno. Quando i conducenti di autobus hanno tentato di scappare per sfuggire alla folle inferocite, la polizia è intervenuta e ha fermato gli autobus causando ulteriori attacchi contro gli autobus, i conducenti e i passeggeri. In alcuni casi, la polizia ha partecipato agli attacchi con i gruppi fascisti contro i civili curdi.
Gli attacchi a case, civili e quartieri curdi sono ancora in corso e centinaia di migliaia di curdi in queste grandi città sono attualmente in grave pericolo.
Chiediamo alla comunità internazionale di stare con i curdi alla luce di questi attacchi inquietanti e chiaramente coordinati, e di agire immediatamente per chiedere al governo Erdogan di porre fine alle sue politiche violente, razziste e di divisione.
Il Congresso Nazionale del Kurdistan – KNK
Melting Pot
08 09 2015
Ayaz Morad. Giovane ragazzo curdo, politicamente con l’YPG. I suoi fratelli stanno ancora combattendo in Rojava. È in viaggio con la sorella minore dal 13 agosto. È passato dalla Turchia, naufrago nella traversata in gommone verso Kos e recuperato dagli elicotteri dopo 12 ore in mare. Ha bucato quasi tutti i confini dell’Europa balcanica, compresa la Macedonia. È arrivato a Budapest. Per tre giorni si è scontrato per ottenere un viaggio verso la Germania.
Con lui l’altro ieri siamo stati in cordone a difendere i bambini dalle frange nazionaliste ungheresi.
Con lui abbiamo riso e scherzato durante la marcia, ci ha chiesto che giorno era, oramai aveva perso il conto.
Noi dopo oltre venti chilometri desistiamo per recuperare le attrezzature, lui no, cammina fino a notte fonda. Fino a quando un autobus militare lo carica portandolo fino al confine austriaco. Identificato, poi portato nel primo paese dell’Austria, dove un altro autobus lo porta a Vienna.
Si dice che chi è sempre in cammino non si perde mai, ed è vero.
Oggi alle 07:30, alla stazione Westbanhof di Vienna, tra la stanchezza per il viaggio e la felicità alla notizia dei treni che li porteranno in Germania, abbiamo sentito una voce calma e sicura che ci chiama fratermamente.
Era Ayaz, che stremato, sta ancora aspettando la sorella bloccata a Budapest.
Oggi dovrebbe arrivare e assieme partiranno verso le lande tedesche.
Per noi è stato un colpo al cuore ritrovarlo.
Questa foto e questa storia romantica e brutale, allo stesso tempo, ci commuove e ci indigna.
Perché la forza di Ayaz è straordinaria, ma sottolinea come sia necessario ridiscutere le politiche migratorie non adeguate alla fase contingente.
Sottolinea come sia necessaria l’apertura di un canale umanitario.
La nostra Europa non ha confini, con Ayaz e tutti gli altri, per la dignità di tutti e tutte.
Momo, Nando, Marco,
Attivisti dei centri sociali del nord est