Flash news

AIED
25 11 2012

Il 25 novembre è la giornata internazionale contro la violenza sulle donne e l'AIED (Associazione Italiana per l'Educazione Demografica) esprime pieno supporto all'iniziativa.

Nel mondo oltre 600 milioni di donne subiscono violenze fisiche e sessuali. Nel nostro Paese sono sette milioni le italiane, che almeno una volta nella vita, sono state vittime di violenze, per non parlare poi del fenomeno del femminicidio.

Si calcola, a questo proposito, che dall’inizio del corrente anno siano state uccise per mano del marito o ex marito, o dal partner o ex partner, oltre 100 donne.

La violenza sulle donne è un problema complesso, che ha radici profonde, e non c’è epoca nella vita femminile che possa dirsi esente da questo rischio.

L'AIED crede sia fondamentale intervenire nell'educazione fin dalla giovane età, insegnare il rispetto di genere, sensibilizzare e creare consapevolezza.

L'obiettivo dell'AIED è smontare gli stereotipi, ridiscutere l'immagine maschile e femminile così come oggi proposta, avviare appropriati programmi di educazione sessuale nelle scuole.

Infatti, se non si lavora con i giovani, sarà difficile smontare le dinamiche distruttive interne ed esterne che minano la possibilità di vivere la propria dimensione sessuale con soddisfazione e serenità, e creando una relazione costruttiva tra uomo e donna.

L’AIED di Roma invita le donne e gli uomini che afferiscono ai propri consultori ad aderire alla giornata internazionale contro la violenza sulle donne e dare la propria adesione all’APPELLO lanciato da NO MORE!, inviando un messaggio all’indirizzo Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. e partecipare al Blog nomoreviolenza.it.
26 11 2012


I bambini continuano a giocare all'aperto, nonostante la pioggia torrenziale. Sono stati chiusi in casa durante otto giorni di bombardamenti israeliani senza sosta, terminati con oltre 160 morti, tra cui più di 30 bambini e decine di altri civili privi di armi.

Per la durata dell'attacco, sono rimasti chiusi tra quattro mura, cercando riparo nelle case dei parenti oppure nelle scuole che l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati ha reso disponibili come rifugi temporanei per migliaia di famiglie costrette dai bombardamenti ad abbandonare le loro abitazioni.

Non che stare in un ambiente chiuso sia stato necessariamente più sicuro. Molte persone sono morte o sono rimaste ferite nelle loro case o in quelle dei vicini quando sono cadute le bombe.

A Gaza City ho incontrato alcuni membri della famiglia al-Dalu. Pieni di dolore, scavavano tra le macerie della loro casa per trovare i corpi dei parenti uccisi quattro giorni prima da un attacco aereo israeliano. Nessuno di quelli che erano nell'abitazione si è salvato: sono stati uccisi in 12, tra cui 10 membri della famiglia al-Dalu: cinque bambini, quattro donne e il padre di quattro dei bambini.

Il proprietario della casa, un cinquantenne stravolto dal dolore ma dalla voce lieve, mi ha dato la lista delle persone che ha perso per sempre.
"Mia moglie, Tahani; le mie due figlie, Ranin di 25 anni e Yara di 12; mio figlio Mohamed, 29 anni, sua moglie Samah, di 25 e i loro quattro figli: Sara, sette anni, Jamal, cinque anni, Yousef, quattro anni, Ibrahim, nove mesi: e mia sorella, Suhaila, 75 anni, che viveva su una sedia a rotelle".

"Quella mattina ero uscito con mio figlio Abdallah per andare al supermercato, avevamo terminato il cibo. Mia moglie mi ha telefonato chiedendomi di prendere anche dei giocattoli per i bambini, per distrarli dai bombardamenti".

"Nelle prime ore del pomeriggio terminata la preghiera, stavo facendo ritorno a casa quando mi è venuto incontro mio figlio in lacrime. I vicini l'avevano chiamato avvertendolo che casa nostra era stata bombardata. Abbiamo corso fino a quando ci siamo trovati di fronte a una pila di macerie".
"Non era sopravvissuto nessuno. Ho perso tutto ciò che avevo di più caro. Mia moglie, i miei figli e i miei nipoti, mia sorella paralizzata erano terroristi? Avevano fatto del male a Israele? Voglio che sia fatta giustizia, nient'altro voglio se non giustizia. La Corte penale internazionale dovrebbe fare il suo dovere e processare i responsabili di questi crimini".

La casa accanto è crollata con quella degli al-Dalu. Una donna di 79 anni e suo nipote sono morti, altri parenti sono rimasti feriti.
Da un'altra parte di Gaza City, Mohammed Abu Zur, 5 anni, e due delle sue zie sono morti e altre 25 persone, tra cui 15 bambini, sono rimasti feriti nel crollo della casa dei vicini, colpita da un bombardamento israeliano. Sono le vittime dei cosiddetti "danni collaterali" causati dagli sconsiderati attacchi lanciati dall'esercito israeliano contro aree densamente popolate.

Sapevano che quasi sicuramente avrebbero ucciso e ferito civili inermi che non stavano prendendo parte al conflitto e avrebbero causato distruzione e danni ben al di là del loro effettivo bersaglio.
Questi casi non sono l'eccezione. Nei pochi giorni che ho trascorso qui a Gaza ho indagato su molti altri casi in cui, nei bombardamenti israeliani dal 14 al 21 novembre, sono stati uccisi e feriti bambini e altri civili privi di armi.

Ancora una volta i civili pagano il prezzo. L'impunità concessa ai responsabili di precedenti attacchi come questi ha senza alcun dubbio contribuito al loro ripetersi in quest'ultima escalation del conflitto.
Ora c'è bisogno di un'inchiesta indipendente per garantire che le vittime non siano private per l'ennesima volta della giustizia e della riparazione.

25 11 2012

Oggi, 25 novembre si celebra la Giornata Internazionale per l'eliminazione della violenza sulle donne. La violenza ha molte facce, può essere sessuale, economica, psicologica; violenza perpetuata all'interno delle mura domestiche e del luogo di lavoro, e spesso per mano di uomini: mariti, amanti, padri. Ogni anno si contano le vittime di questa violenza, sono 115 le donne uccise nel 2012, ma questo numero non basta per obbligare il parlamento a legiferare in tal senso.

Tra pochi giorni dovrà essere ratificata la Convenzione di Instanbul, il trattato internazionale che affronta il fenomeno e ha tra gli obiettivi la prevenzione della violenza, la protezione delle vittime e la perseguibilità penale degli aggressori, ma dai dibattiti durante i lavori parlamentari emerge che alcuni uomini ritengono anticostituzionale parlare di violenza sulle donne. Sicuramente questo ci gratifica e ci rende orgogliosi della classe politica che abbiamo espresso. Ma nessuno parla della presenza di una violenza più subdola e sottile, per questo più difficile da sconfiggere, ma la colpevole poi di tutte le altre; mi riferisco alla violenza della politica, mondo maschile e maschilista per eccellenza. Come assessora alle pari opportunità vorrei, quindi, sottolineare questa triste realtà; riflessione stimolata da alcune colleghe del Veneto.

Sicuramente ci chiediamo qual è la violenza della politica nei confronti delle donne, vi riporto di seguito alcuni esempi. Innanzitutto il continuo taglio di fondi su quei progetti, come le case-rifugio o i centri anti-violenza, che quotidianamente combattono in prima linea per la tutela delle donne e dei loro figli; così come il continuo smantellamento del welfare, nato intorno agli anni Settata, per facilitare la conciliazione dei tempi lavoro-famiglia, che cade sulle spalle del genere femminile.

La politica, soprattutto negli ultimi anni, si è totalmente dimenticata del lavoro femminile: non si è legiferato contro le dimissioni in bianco, non ci sono stati interventi per limare il gap salariale tra uomini e donne, non sono state prese misure per ridurre la disoccupazione femminile, arrivata oggi al 50%. I diritti che sono strettamente connessi al genere femminile sono continuamente messi sotto attacco; pensiamo alla legge 194, legge dello Stato, ostacolata dall'elevato numero di medici obiettori, condannato dall'Unione Europa, e dall'emanazione di alcune leggi regionali che permettono ai movimenti pro-life di entrare nei consultori e all'interno dei presidi ospedalieri.

Non voglio poi dimenticare le lotte per le "quote rosa", inserite negli statuti delle amministrazione e cda, che però, poi, i partiti candidano e sostengono solo ed esclusivamente nomi maschili, come se la presenza di genere dovesse garantirla qualcun altro, ma non loro. Gli elementi per un'analisi della continua violenza della politica sulle donne sono molti, quindi mi sono limitata a citarne solo alcuni. Ma l'ultimo elemento più rilevante, per ordine di tempo, è l'idea di fare le primarie proprio oggi, oscurando così questa giornata, già poco attrattiva per i media. Nessuno dei candidati si è espresso in tal senso, nessuno si è posto il problema di spostare la data. Chiediamo ai nostri politici fatti. Uno di questi poteva essere quello di evitare la concomitanza di un evento, più appetibile a livello mediatico, con una giornata così piena di significato come questa. Staremo a vedere, ma già si parte con il piede sbagliato.

Erica Rampini

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26 11 2012

La carriera del generale Bruno Pelliccia, prescritto per le violenze a Bolzaneto
 
E’ uno degli agenti e funzionari prescritti in appello per le violenze all’interno della Caserma di Bolzaneto, durante il G8 di Genova del 2001 l’attuale direttore dell’Ufficio per la Sicurezza Personale e della Vigilanza dell’Amministrazione penitenziaria presso il Ministero della Giustizia a Roma.

Si tratta del generale della polizia penitenziaria Bruno Pelliccia, 51 anni, il cui nome è balzato alla cronache in questi giorni, dopo un video pubblicato da Repubblica.it ha ipotizzato che sul corteo degli studenti romani di mercoledì scorso fossero stati tirati lacrimogeni direttamente dalle finestre del Ministero di Giustizia, ipotesi che ha provocato sgomento ma anche una buona dose di ironia come si vede dai finti cartelli stradali “Piovono lacrimogeni”, attaccati in tutta via Arenula da un gruppo di artisti.

Ma se, sul punto, sia il generale Pelliccia (che in pratica comanda gli agenti della penitenziaria a guardia del Ministero) sia le indagini affidate dal ministro Severino al Racis dei Carabinieri, sembrano escludere che i lacrimogeni siano davvero stati lanciati dall’alto, la vera notizia è che, ancora una volta, un ufficiale condannato (prescritto) per le violenze al G8 di Genova, ha fatto nel frattempo carriera.

Pelliccia era infatti capitano del disciolto corpo degli agenti di custodia nelle giornate del G8 del 2001. E’ stato assolto in primo grado, ma dichiarato in secondo grado responsabile civilmente in quanto i reati per i quali è finito a processo (abuso d’ufficio e abuso d’autorità contro persone arrestate e detenute) sono stati nel frattempo dichiarati prescritti. Stessa (buona) sorte per il collega di pari grado Ernesto Cimino, anche lui condannato (prescritto) in appello e anche lui nominato generale lo stesso giorno, il 26 gennaio 2011.

La sentenza emessa dalla Corte di Appello di Genova il 5 marzo 2010 contiene 44 condanne (in primo grado erano 15) a carico di medici infermieri, poliziotti e agenti di polizia penintenziaria, anche se i reati sono caduti quasi tutti in prescrizione.

Condanne che devono passare ancora al vaglio della Cassazione, che si pronuncerà il prossimo maggio. La promozione a generale risale al gennaio 2011 e il nuovo prestigioso incarico a Direttore dell’Ufficio per la Sicurezza Personale e della Vigilanza dell’Amministrazione penitenziaria presso il Ministero della Giustizia è del 22 febbraio di quest’anno, dopo quindi la sentenza della Corte di appello di Genova che sancisce, anche se non in via definitiva, la responsabilità civile dell’attuale generale.

“Sono allibito da questa notizia – dice l’avvocato Riccardo Passeggi, che difende alcune dell vittime di Bolzaneto – perché prescrizione non significa assoluzione: se queste condanne, come ci auguriamo, saranno confermate in Cassazione queste persone dovranno risarcire le vittime, e nel frattempo fanno carriera”.

“Mentre gli ufficiali condannati a risarcire le vittime vengono promossi – aggiunge Emanuele Tambuscio anche lui legale di parte civile – il Ministero della Giustizia e quello degli Interni non hanno ancora versato un euro per risarcire le vittime, come stabilito già nel 2008 dalla sentenza di primo grado” .

Katia Bonchi
26 11 2012

Continua l’iniziativa a partire dalla pagina FaS “Scrivi cos’è la violenza sulle donne”. La frase di apertura è “violenza sulle donne è…” e tu aggiungi il resto. Manda cartelli, frasi, foto, qualunque cosa a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Perché non sono gli altri che devono stabilire cosa per noi è violenza. Siamo noi a deciderlo. Poi troverete tutto pubblicato qui: http://femminismoasud.tumblr.com/
Lipperatura
26 11 2012

Non so se la storia proceda per salti o scelga percorsi sotterranei, se sia abbia le molle o le ali degli angeli che guardano alle proprie spalle. Credo però che sia giusto l’ammonimento che sabato pomeriggio, durante la discussione su Donne, media e società a Lugano, la storica Nelly Valsangiacomo ci ha rivolto: leviamoci dalla testa l’idea secondo la quale stiamo procedendo in modo lineare, seguendo  sorti magnifiche, progressive ed evolutive. Le donne, per esempio, credevano di aver raggiunto i propri obiettivi già altre volte, dalla Rivoluzione francese in poi: invece, si torna indietro e di nuovo si procede e di nuovo si torna indietro.

Mentre si discuteva nell’Auditorium dell’Università, in decine di città italiane si preparavano le manifestazioni contro il femminicidio che si sono svolte ieri: e sono state tante, e sono state importanti, e i giornali hanno pubblicato fotoracconti e inchieste e statistiche, e speriamo che non sia solo per un giorno.

Ma mentre si discuteva, a me sono venuti in mente alcuni passaggi del libro di Guido Crainz, Il paese reale, che vi invito a leggere. Raccontando l’inizio degli anni Ottanta, e quello scivolamento dal noi all’io che oggi gli psicoanalisti chiamano - con giusta preoccupazione - narcisismo di massa,  e che il Censis, guarda caso, aveva predetto fin nel 1968 registrando una “intensificazione degli egoismi soggettivi”, Crainz riporta, semplicemente, brani di articoli. “Sposarsi in bianco torna ad essere felicità”, titola il Corriere della Sera nel 1982. Un anno prima, Adriana Mulassano firma sullo stesso quotidiano un articolo che si chiama “Perché il raso è rivoluzionario”, dove spiega che “grazie al femminismo le donne si sono talmente liberate da non aver più bisogno di travestirsi da uomini e da suffraggette per avere una credibilità”. Peccato, le risponderà Marina Luraghi, caposervizio moda di Annabella, che il rilancio del raso sia “frutto di una perfetta operazione commerciale”.

Sembrano discorsi dell’altro ieri, e invece risalgono a una trentina d’anni fa (basterebbe sostituire l’incolpevole raso con la copertina di un romanzo della James e il gioco di specchi sarebbe perfetto). A volte ritornano, certo: ma l’enfasi sui ritorni non è sempre spontanea. Sempre Crainz riporta parte di un documento della Rizzoli riservato allo staff direttivo del gruppo. Il testo era del 1977, si chiamava Scenario e diceva:
“Dal 1979 al 1981 crescerà la disaffezione per la politica e per i partiti, con i suoi contorni di calo della partecipazione e di ritorno al privato. Questi fenomeni hanno e avranno molte cause: un normale tracollo di pressione dopo anni di effervescenza collettiva; la frequente contestazione delle leadership esistenti…I partiti ne usciranno indeboliti: specie il partito comunista, verso il quale maggiori e più recenti erano state le attese”.

Ognun sa com’è andata. Però la storia dovrebbe essere letta e studiata, anche per cercare di non infilarsi nello stesso errore.
E vengo al secondo ammonimento, ancor più prezioso, ricevuto da Nelly Valsangiacomo. Pensare di isolare la questione della disuguglianza femminile dalle altre disuguaglianze non porta lontano. “Siamo tutti d’accordo nel condannare la disparità di genere”, ha detto (d’accordo a parole, ho pensato io). “Ma sicuramente se pronunciassi il termine “classi” cominceremmo a litigare”.

Allora, all’indomani di una giornata importante, sarebbe altrettanto importante - anzi, vitale - riflettere su questo punto: la questione femminile spalanca le porte su altre disuguaglianze, non solo di genere. Pensare di affrontare la prima mettendo da parte le altre condanna, a mio parere, alla sconfitta.

Buon lunedì.
26 11 2012

Arrestato ex assessore, indagato Ferrante

Tra i destinatari dei provvedimenti di custodia cautelare, anche Emilio e Fabio Riva, al momento irreperibile. In manette l'ex responsabile delle relazioni esterne del gruppo Archinà e l'ex assessore all'Ambiente Conserva. Indagato Bruno Ferrante e il nuovo direttore dello stabilimento. Bloccata di fatto l'attività nella fabbrica da dodicimila posti di lavoro

Sette arresti, due avvisi di garanzia ed una pioggia di sequestri. Sono gli ingredienti della nuova burrasca giudiziaria che ha investito l'ilva di Taranto. Tra i destinatari dei provvedimenti restrittivi anche Emilio Riva e suo figlio Fabio (al momento irreperibile), che è ricercato dai finanzieri, mentre al presidente Bruno Ferrante, e al nuovo direttore dello stabilimento di Taranto, è stato notificata una informazione di garanzia. In arresto anche l'ex assessore all'Ambiente della Provincia di Taranto, Michele Conserva (che si era dimesso lo scorso settembre) tra le persone destinatarie di provvedimenti cautelari nell'ambito delle inchieste sull'Ilva di Taranto. Conserva è agli arresti domiciliari e si è dimesso circa due mesi fa dall'incarico. Le accuse sono a vario titolo di associazione per delinquere, disastro ambientale e concussione.

Contestualmente agli arresti, nel siderurgico è stato eseguito un sequestro preventivo dei prodotti finiti e semilavorati destinati alla vendita e al trasferimento negli altri stabilimenti del gruppo Riva. Di fatto un blocco dell'attività nella fabbrica da dodicimila posti di lavoro. Sigilli a tutto il prodotto finito sulle banchine del porto di Taranto utilizzate dall'Ilva, in questo modo la merce non potrà essere commercializzata. La misura sarebbe stata adottata perché Ilva avrebbe violato le prescrizioni del sequestro adottato dall'Autorità Giudiziaria, nel luglio scorso, sugli impianti dell'area a caldo. Sequestro che non prevede la facoltà d'uso a fini produttivi degli impianti del siderurgico.

Il nuovo terremoto scaturisce dall'inchiesta denominata "environment sold out", ambiente svenduto, avviata dalla finanza nel 2009. Tra gli episodi fotografati c'è la presunta corruzione di un perito della procura incaricato di svolgere una consulenza sulle fonti dell'inquinamento killer. Per quella vicenda ai domiciliari il perito Lorenzo Liberti, mentre il carcere è scattato per  Girolamo Archinà l'ex potentissimo responsabile delle relazioni istituzionlai del gruppo, licenziato nei mesi scorsi. Ma il picco dell'indagine riguarda anche il mancato rispetto del provvedimento di sequestro scattato lo scorso 26 luglio per gli impianti le l'area a caldo, ritenuti la fonte dell'inquinamento killer che fa ammalare e uccide i tarantini.

La vicenda è legata anche al presunto giro di mazzette che negli anni sarebbero servite ad 'ammorbidire' l'impatto inquinante dello stabilimento. Di lì è già saltata fuori la storia di Liberti, il perito della procura incaricato dai pm di individuare la fonte dell'inquinamento dei terreni in cui pascolavano capre e pecore risultate contaminate da diossina e pcb, che sarebbe stato corrotto da Archinà. L'Ilva ha sempre smentito che si trattava di una tangente a Liberti ma ha affermato che quei soldi Archinà avrebbe dovuto versarli come donazione alla Diocesi di Taranto. Gli arresti vengono eseguiti dalla Guardia di Finanza sulla base di due ordinanze di custodia cautelare firmate dai Gip Patrizia Todisco e Vilma Gilli.

FOTO Le mazzette al perito all'Autogrill

LEGGI Corruzione Ilva, tredici indagati. "Così i vertici eludevano i controlli"

Il filone d'indagine denominato 'Ambiente svenduto' consiste nella seconda fase dell'inchiesta della Guardia di Finanza sull'Ilva di Taranto punta su chi doveva controllare e invece non lo ha fatto. Al centro dell' inchiesta c'era l'ipotesi di corruzione in atti giudiziari del perito della procura Liberti, allora preside della facoltà di Ingegneria di Taranto. Secondo quanto ricostruito e ipotizzato dagli investigatori, Liberti avrebbe ricevuto da Archinà una mazzetta di diecimila euro nel parcheggio dell'autogrill lungo l'autostrada tra Bari e Taranto. Quei soldi, secondo la Finanza, servivano ad "aggiustare" la perizia che il professore avrebbe di lì a poco depositato.

ll faccia a faccia avviene il 26 marzo del 2010 nella stazione di servizio Le Fonti est, nei pressi di Acquaviva lungo l'autostrada A14. Archinà consegna al perito una busta bianca. Secondo gli inquirenti, in quella busta ci sono diecimila euro in contanti che il dirigente dello stabilimento avrebbe pagato per ammorbidire il giudizio di Liberti sulle emissioni inquinanti dello stabilimento.
25 11 2012

Un gruppo di delegate ed iscritte USB Lavoro Privato scrive una lettera aperta a Luciana Littizzetto, testimonial della Coop, nella quale vengono rappresentate le condizioni vissute dalle donne che ci lavorano.

La lettera intende far emergere la condizione di disagio vissuta dalle donne del commercio e la determinazione ad uscire dall’invisibilità con la prospettiva di migliorare la condizione femminile all’interno di queste nuove fabbriche metropolitane attraverso l’organizzazione e la lotta.

Lettera aperta di un gruppo di lavoratrici Coop a Luciana Littizzetto testimonial del marchio Coop

Cara Luciana, lo sai cosa si nasconde dietro il sorriso di una cassiera che ti chiede di quante buste hai bisogno?  Una busta paga che non arriva a 700 euro mensili dopo aver lavorato sei giorni su sette comprese tutte le domeniche del mese. Le nostre famiglie fanno una grande fatica a tirare avanti e in questi tempi di crisi noi ci siamo abituate ad accontentarci anche di questi pochi soldi che portiamo a casa. Abbiamo un’alternativa secondo te?

Nei tuoi spot spiritosi descrivi la Coop come un mondo accattivante e un ambiente simpatico dove noi, quelle che la mandano avanti, non ci siamo mai. Sembra tutto così attrattivo e sereno che parlarti della nostra sofferenza quotidiana rischia di sporcare quella bella fotografia che tu racconti tutti i giorni. Ma in questa storia noi ci siamo, eccome se ci siamo, e non siamo contente.

Si guadagna poco e si lavora tanto. Ma non finisce qui. Noi donne  siamo la grande maggioranza di chi lavora in Coop, siamo circa l’80%. Prova a chiedere quante sono le dirigenti donna dell’azienda e capirai qual è la nostra condizione. A comandare sono tutti uomini e non vige certo lo spirito cooperativo. Ti facciamo un esempio: per andare in bagno bisogna chiedere il permesso e siccome il personale è sempre poco possiamo anche aspettare ore prima di poter andare.

Il lavoro precario è una condizione molto diffusa alla Coop e può capitare di essere mandate a casa anche dopo 10 anni di attività più o meno ininterrotta. Viviamo in condizioni di quotidiana ricattabilità, sempre con la paura di perdere il posto e perciò sempre in condizioni di dover accettare tutte le decisioni che continuamente vengono prese sulla nostra pelle. Prendi il caso dei turni: te li possono cambiare anche all’ultimo momento con una semplice telefonata e tu devi inghiottire. E chi se ne frega se la famiglia va a rotoli, gli affetti passano all’ultimo posto e i figli non riesci più a gestirli.

Denunciare, protestare o anche solo discutere decisioni che ti riguardano non è affatto facile nel nostro ambiente. Ci è capitato di essere costrette a subire in silenzio finanche le molestie da parte dei capi dell’altro sesso per salvare il posto o non veder peggiorare la nostra situazione.

Tutte queste cose tu probabilmente non le sai, come non le sanno le migliaia di clienti dei negozi Coop in tutta Italia. Non te le hanno fatte vedere né te le hanno raccontate. Ed anche a noi ci impediscono di parlarne con il ricatto che se colpiamo l’immagine della Coop rompiamo il rapporto di fiducia che ci lega per contratto e possiamo essere licenziate. Ma noi non vogliamo colpire il marchio e l’immagine della Coop, vogliamo solo uscire dall’invisibilità e ricordare a te e a tutti che ci siamo anche noi.

Noi siamo la Coop, e questo non è uno spot. Siamo donne lavoratrici e madri che facciamo la Coop tutti i giorni. Siamo sorridenti alla cassa ma anche terribilmente incazzate. Abbiamo paura ma sappiamo che mettendoci insieme possiamo essere più forti e per questo ci siamo organizzate. La Coop è il nostro posto di lavoro, non può essere la nostra prigione. Crediamo nella libertà e nella dignità delle persone.

Cara Luciana ci auguriamo che queste parole ti raggiungano e ti facciano pensare. Ci piacerebbe incontrarti e proporti un altro spot in difesa delle donne e per la dignità del lavoro.

Con simpatia, un gruppo di lavoratrici Coop
Micromega
25 11 12

Davvero un balzo felino quello delle deputate Bongiorno-Carfagna, invocare una Legge che punisca con l’ergastolo gli uomini che uccidono le donne per “femminicidio aggravato”. D’altro canto perché non approfittare del 25 novembre per ingrossare la confusione e l’inutilità di una legislatura ormai sul viale del tramonto?

In particolare la ex Ministra per le Pari Opportunità Carfagna, colta da amnesia galoppante, dovrebbe rispondere piuttosto della mancata verifica delle misure già previste dalla Legge sullo Stalking che porta il suo nome, visto che non ha impedito dal 2009 ad oggi a 7 donne su 10 che avevano denunciato maltrattamenti di essere uccise.

Questa proposta è inaccettabile, perché non ci si approfitta delle vita e della morte delle donne, come degli uomini per cui si invoca l’ergastolo. E come hanno intenzione di procedere le due deputate con gli uomini (molti) che dopo aver ucciso le loro mogli o ex si tolgono la vita, con un ergastolo in contumacia?

Molti uomini politici di centro destra e di centro sinistra sono stati pubblicamente e più volte denunciati negli ultimi anni per aver strumentalizzato la violenza sulle donne a loro esclusivi fini elettorali, aizzando il popolo contro gli “extracomunitari”. Pare quindi che l’unica parità ottenuta al momento sia quella che anche delle donne delle istituzioni si siano liberate dal complesso di poter imbracciare quello stesso maschilismo che intendono combattere.. che progresso!

Ormai anche i busti di Montecitorio sanno che il femminicidio è una questione che nasce dalla complessità delle dinamiche familiari, dalle relazioni intime tra uomini e donne. Certamente aggravata -116 donne, molte giovanissime, uccise dall’inizio del 2012- da una crisi profonda dello Stato e del mondo adulto, con un welfare che mortifica e destabilizza le persone in maniera sempre più crudele. E non sarà certo il giustizialismo forcaiolo di un parlamento scadente ad aiutare le donne ad avere la forza di denunciare senza indugi la violenza e di trovare le risposte* che lo Stato ha l’obbligo di dare a tutti: diritti, prevenzione, lavoro, servizi.

Ci vuole Educazione affettiva e sessuale nelle scuole, Formazione permanente delle Forze dell’Ordine e del personale Medico, un Centro antiviolenza in ogni Comune, lavoro per tutti, giovani, donne e uomini, che dia loro il senso della dignità dell’esistenza e la possibilità del cambiamento, anticipando la spirale della violenza. Perchè nessuna e nessuno deve morire d’ “amore”, così come non si deve morire di discriminazione sessuale, a qualsiasi età.

* Letture consigliate alle due Onorevoli dal piglio tatcheriano: l’intervista “Violenza e Maternità. Quali conseguenze” a Antonio Di Ciaccia, psicoanalista lacaniano e presidente dell’Istituto freudiano su Zeroviolenzadonne.it e ovviamente la Convenzione NO MORE! delle maggiori Associazioni nazionali che da anni si occupano di violenza sulle donne.
La Repubblica
19 11 2012


"La tendenza è in crescita e se fino a qualche anno fa il maggior numero di mamme teen era in Sicilia e Campania, ora il trend è in crescita soprattutto in Lombardia, una regione che dovrebbe essere all'avanguardia e che mostra un'evidente carenza: i consultori non riescono ad orientare verso una sessualità consapevole", dice la Società di Ginecologia e ostetricia
ROMA - "Non feci nessun test, la paura era troppa. Il 17 giugno 2009 accompagnata da mia mamma andai a fare la mia prima visita ginecologica e la verità arrivò aspra e secca come una sberla che non ammette repliche. Ero proprio incinta. Avevo 17 anni e da 7 settimane nella mia pancia vagava un fagiolino di 0,89 cm. Ero ancora stesa sul lettino quando ho sentito qualcuno dire queste parole: Milena, il termine della gravidanza è il 24 gennaio ma non preoccuparti c'è sempre la soluzione dell'aborto". Altra sberla, dall'altra parte del viso. Milena però, nonostante i 17 anni e le pressioni subite dai genitori del suo compagno ha scelto la vita per sua figlia e dopo altri 7 mesi, il 29 gennaio è nata Giulia che oggi ha 3 anni. "Rifarei tutto perché anche se la mia vita è cambiata, è stato un grande dono e Giulia oggi è la mia gioia". Milena Ferrari che racconta la sua storia anche su un blog (io mamma teenager) è una delle tante mamme adolescenti nel nostro paese. Un paio di jeans, una felpa con il cappuccio e un bimbo nella pancia. E i minori a rischio, sono due.

In Italia, ogni anno, quasi diecimila bambini nascono da mamme tra i 14 ed i 19 anni, rappresentano il 2,1 % delle gravidanze italiane, e potrebbero essere molti di più perché molte adolescenti, 6 su 10, decidono di non far crescere la pancia e scelgono l'interruzione, volontaria. Il 95% delle gravidanze avviene tra i 16 ed i 17 anni e nel 68% dei casi i padri abbandonano la situazione e le neo mamme rimangono a crescere il bimbo nel seno della loro famiglia di origine. Su tutti colpisce un dato Istat relativo al 2010: su 10mila gravidanze "teen", 7.088 sono state di adolescenti italiane, e 2.495 di immigrate. E poi un altro, solo a Napoli sono mille le mamme teen tra i 15 e i 19 anni, quanto in tutta la Lombardia.

Sara 16 anni, romana di Tor Bella Monaca, 15 mesi fa ha portato a sua mamma direttamente il flaconcino del test di gravidanza: "Tanto anche lei era rimasta incinta a 17 anni, doveva capirmi, per forza". Poi dopo nove mesi è nata Cristal. Alba 16 anni invece racconta: "erano giorni che me lo tenevo dentro ma a qualcuno dovevo dirlo, ho aspettato che mia mamma fosse nella vasca, bella rilassata e solo allora gliel'ho detto. Lei mi ha risposto che mi avrebbe aiutato ma che era delusa da me". Un fenomeno quello delle mamme adolescenti che secondo gli esperti della SIGO (Società Italiana Ginecologia ed Ostetricia) è destinato a crescere: "La tendenza è in crescita e colpisce un dato: indica che se fino a qualche anno fa il maggior numero di mamme teen era in Sicilia e Campania, ora il trend è in crescita soprattutto in Lombardia, una regione che dovrebbe essere all'avanguardia in campo sanitario e che invece mostra questa evidente carenza nella rete dei servizi dei consultori che non riescono ad orientare verso una sessualità consapevole. Così come non riescono a farlo le famiglie che dovrebbero spiegare ai loro figli quanto sesso e sentimento debbano viaggiare insieme". L'ètà media della prima volta? 15 anni. E oltretutto, continua il professor Surico "c'è scarsa informazione sulla sessualità, gli adolescenti vogliono far sembrare di sapere tutto in materia ma ci sono molte leggende popolari da sfatare, ad esempio molti credono ancora che nei primi rapporti sia impossibile rimanere incinta".

Ma chi sono queste mamme teen, hanno delle caratteristiche comuni? Fotografate dall'Istat, dall'Oms, da Save The Children, dalla SIGO, dagli esperti dei progetti a loro dedicati, e raccontate anche dai media come MTV e Babel Tv che gli hanno dedicato delle serie televisive di successo, emerge un profilo appena abbozzato che evidenzia degli elementi comuni nel magma delle storie personali. "Le baby mamme - spiega Raffaella Scalise, psicologa, coordinatrice del progetto Accogliere la nascita per l'Associazione Il Melograno di Roma, che ha partecipato all'indagine di Save The Children - hanno un'età compresa tra i 13 ed i 19 anni, spesso provengono da realtà socioeconomiche a rischio, nel 90% dei casi sono a loro volta figlie di mamme adolescenti e vengono da famiglie dove non c'è un padre perché è morto o perché è assente come figura genitoriale. Spesso, hanno una bassa scolarità, non hanno un progetto di vita e cercano di affermare la loro identità proprio con la gravidanza, senza sapere che gravidanza e maternità sono due cose molto diverse". I rischi che andranno ad affrontare sono diversi. Dai parti che per l'immaturità delle giovani mamme, spesso sono più a rischio e più dolorosi, alla maggiore probabilità di depressione port partum che colpisce il 50% delle piccole mamme, il doppio delle donne adulte. Senza dimenticare i rischi sociali, di inserimento e di crescita. C'è il rischio di rimanere sole, perché il 68% dei padri abbandona la neofamiglia, quello di dover interrompere un percorso scolastico e una crescita con i coetanei e di avere difficoltà economiche perché trovare un lavoro con un bambino diventa ancora più complicato. "A questo - spiega la professoressa Cristina Riva Crugnola, responsabile scientifico del progetto per le mamme adolescenti dell'Ospedale San Paolo di Milano, si aggiungono i rischi per i neonati che potrebbero avere ritardi cognitivi, crescere molto aggressivi o con due mamme, la mamma/sorella e la nonna/mamma." Per questo, nei progetti per le piccole Juno in quello dell'Ospedale San Paolo di Milano ("Due minori a rischio" tel 0281841) e in quello del Melograno di Roma ("Accogliere la nascita" 0679475606) è prevista un assistenza multidisciplinare alla mamma e al bambino per almeno un anno dal parto.

"Le piccole mamme, dicono sempre che sono contente e che va tutto bene ma poi parlandoci approfonditamente - racconta Maura Bartolo, assistente sociale del Cav ambrosiano (centro di aiuto alla vita) che collabora al progetto del San Paolo - emerge un forte senso di solitudine, fanno molta fatica ad ammetterlo ma alla fine confessano che il loro mondo gli manca. E' molto importante che riescano a chiedere aiuto e che siano consapevoli che ne hanno bisogno. Sono in gioco due vite, due fragilità profonde, la mamma e il bambino appena nato".
La Repubblica
19 11 2012


Parla Nicola Surico, Presidente della SIGO, Società italiana Ginecologia e Ostetricia. "E' necessario un controllo da parte dei genitori, le famiglie devono essere più forti nei ruoli di guida e informazione sulla sessualità perché questo non è un compito che può essere lasciato solo alla scuola"
"Internet, la televisione, alcune pubblicità sono tanti i media che parlano e diffondono sesso nella società di oggi e gli adolescenti, per sentirsi già adulti fanno finta di sapere tutto ma non è così, molti di loro a esempio pensano che nei primi rapporti sessuali sia impossibile che si rimanga incinte. Per questo usano poco le precauzioni e ciò induce ad un aumento delle gravidanze indesiderate e porta alla diffusione di malattie sessualmente trasmissibili". Il professor Nicola Surico, presidente della Sigo, Società italiana Ginecologia e Ostetricia lancia l'allarme contro i messaggi sessuali diffusi dai media e non filtrati dagli adulti.

Che ruolo hanno i media nella sessualità dei giovani?
"Internet è uno dei mezzi da tenere più sotto controllo, il 14% degli adolescenti italiani come emerge da una nostra ricerca, manda proprie foto senza vestiti su Internet o per sms per ottenere regali, il 22% ha rapporti con qualcuno conosciuto sul web e la soglia del pericolo gravidanza si abbassa nei giovani che trascorrono più di tre ore sulla rete guardando siti ad alto contenuto erotico".

Cosa fare?
"Innanzitutto è necessario un controllo da parte dei genitori, le famiglie devono essere più forti nei ruoli di guida e informazione sulla sessualità perché questo non è un compito che può essere lasciato solo alla scuola. Io credo sia importante educare i ragazzi a una sessualità consapevole dove il sesso non può essere slegato dal sentimento e da un impegno reciproco. Se fosse così i ragazzi sarebbero più responsabili nella scelta del partner e darebbero più valore ad un'azione che fanno con molta leggerezza. E poi ci vuole più informazione. Noi della Sigo abbiamo un numero verde 800555323 dove cerchiamo di dare informazioni alle tante richieste che ci arrivano ma anche la rete dei consultori andrebbe rafforzata".
15 05 2012

Sono lo stesso numero degli abitanti della Svezia. I recenti casi violenza e sfruttamento riaprono il dibattito sul mercato del sesso a pagamento. Che viene regolamentato in Germania, Olanda e in parte anche in Spagna. E proibito a Stoccolma. L'Italia sceglie l’ipocrita via di mezzo: chiudere un occhio.

Donne obbligate a prostituirsi, schiave contro la propria volontà, oggetti di proprietà da vendere o mettere in palio. Ragazze minorenni gettate nel mondo del sesso a pagamento e costrette ad abortire quando capita “l’incidente”. Due casi di cronaca riportano l’attenzione sul tema della violenza nel mondo della prostituzione.

A Roma sono stati arrestati dai carabinieri otto rumeni, tre donne e cinque uomini, accusati di aver creato un’associazione criminale per la tratta degli esseri umani e lo sfruttamento della prostituzione. La banda convinceva giovani connazionali a venire in Italia con la promessa di un lavoro, salvo poi privarle dei documenti e obbligarle a prostituirsi. Alcune donne sono state marchiate a fuoco, come il bestiame, con le iniziali del “proprietario”. Venivano anche usate come “posta” nel gioco d’azzardo. A Licata, in provincia di Agrigento, i militari dell’Arma hanno chiuso un night club dove, questa è l’accusa, veniva gestito un giro di prostitute rumene, anche minorenni. Una di loro sarebbe stata costretta ad abortire.

Il mercato del sesso in Italia si trova in un limbo tra legalità e proibizione. La legge non punisce penalmente la prostituzione, ma condanna il favoreggiamento, l’induzione, lo sfruttamento, la prostituzione minorile. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Delle 50-70 mila prostitute presenti in Italia (dati del 2010 forniti dalla commissione affari sociali della Camera), il 65% esercita in strada, una percentuale che oscilla tra il 5 e il 10% è vittima dello sfruttamento e le minorenni sarebbero addirittura tra il 10 e il 20% (dati del Gruppo Abele di don Ciotti). Il numero dei reati subiti dalle prostitute, al netto di sfruttamento e violenze da parte dei “papponi”, è impressionante: furti, rapine, pestaggi, stupri, omicidi.

Non esiste un dato aggregato, ma anche solo guardando le notizie di cronaca nera – e molti reati non vengono denunciati e quindi scoperti - emerge una situazione preoccupante. Anche da un punto di vista sanitario la mancanza di controlli crea numerosi problemi: su nove milioni di clienti, un’ampia maggioranza chiede di non usare il preservativo (addirittura l’80% secondo i dati del Gruppo Abele). E tra le prostitute, specie a seguito dell’ingresso nel mercato di moltissime stranieri irregolari, aumentano i casi di Hiv, senza contare le malattie sessualmente trasmissibili meno gravi ma più diffuse.

Per far fronte ai problemi di sfruttamento, criminalità, degrado urbano e allarme sanitario, altri Stati europei hanno adottato un modello “regolamentari sta” della prostituzione. Il caso più noto è quello dell’Olanda. Qui la prostituzione non è mai stata penalmente perseguibile, ma dal 2000 è divenuta un’attività perfettamente legalizzata ed è diventato legale anche aprire “case di tolleranza”. Le prostitute devono aver compiuto i 18 anni di età e devono essere residenti regolarmente in Olanda. L’attività viene controllata dalla polizia, dal fisco e dai servizi sanitari. I comuni decidono quali zone adibire all’esercizio della prostituzione e la polizia le presidia per evitare episodi di microcriminalità. Ad esercitare in strada è una esigua minoranza (meno del 5%). Non tutto funziona perfettamente, l’attività per sua natura è difficile da regolamentare, specie ai fini fiscali. Sacche di sfruttamento permangono, ma potendosi concentrare su queste l’attività di polizia è più efficace.

Anche la Spagna, paese di tradizione cattolica come l’Italia, ha regolamentato il mercato del sesso, anche se con qualche ripensamento. Nel 1995 il governo socialista di Felipe Gonzalez Marquez decise la depenalizzazione delle attività collaterali alla prostituzione, creando di fatto una situazione di tolleranza anche per i bordelli. Nel 2003 il governo popolare di Felipe Aznar cancellò la depenalizzazione, ma molte autonomie locali decisero di proseguire il percorso iniziato nel 1995 provvedendo a regolamentare lo svolgimento dell’attività al chiuso.

Oggi in Spagna da un lato si cerca di contrastare la prostituzione su strada (una recente legge catalana in materia ha sollevato un aspro dibattito), dall’altro si vanno diffondendo locali a luci rosse, noti come “casas de alterne” o “club”. A Valencia, notizia recente, una scuola per prostitute (l’Academia del placer) ha lanciato lo slogan “Se sei giovane e non trovi lavoro, diventa prostituta”, facendo nascere una polemica. In ogni caso, nei “club” l’uso del preservativo è obbligatorio e sono garantiti controlli di ordine pubblico e di carattere sanitario. Rimangono però dei problemi di evasione fiscale e sporadici fenomeni di “tratta” di esseri umani.

Il paese con il maggior numero di prostitute in Europa, secondo le stime, è la Germania dove sono circa 400mila. Nel 2002 è stato depenalizzato il favoreggiamento, e la prostituzione è stata equiparata a un qualsiasi altro lavoro. Chi si prostituisce può scegliere un inquadramento da lavoratore autonomo o dipendente, deve pagare le imposte sul reddito e l’Iva, e le case di appuntamenti sono imprese registrate. Sono obbligatori i controlli sanitari e l’uso del preservativo. Visto il numero elevato di soggetti coinvolti nel mondo della prostituzione rimangono problemi di attuazione della legge, e i pagamenti in contanti favoriscono l’evasione. Per questo alcune amministrazioni locali chiedono come tassa una somma forfettaria. I comuni hanno inoltre la facoltà di vietare la prostituzione in specifiche aree.

Oltre a questi, altri Stati in Europa (Ungheria, Austria, Grecia, Lettonia, Svizzera e – in parte – l’Inghilterra) hanno adottato diverse forme di regolamentazione. Diametralmente opposto l’approccio alla prostituzione nei paesi scandinavi, noto anche come modello “neo-proibizionista”. Nato in Svezia nel 1999, e successivamente adottato da Islanda prima e Norvegia poi (2009), si fonda sull’idea che la prostituzione è sempre una violenza dell’uomo sulla donna, anche quando questa afferma di essere consenziente.

La conseguenza è la criminalizzazione del cliente e non della prostituta (come invece accade in molti Stati dell’est Europa), anche attraverso un forte stigma sociale: chi viene sorpreso a ricercare sesso a pagamento viene pedinato e fotografato, gli viene spedita una lettera a casa e al processo viene fatto sedere al fianco degli eventuali sfruttatori, per fargli capire da che parte ha deciso di stare. Questa politica repressiva sembra funzionare, anche perché gode dell’appoggio di quasi l’80% dei cittadini (che a proposito si sono espressi in ben 5 referendum): il fenomeno della prostituzione è praticamente scomparso, spostandosi negli Stati vicini.

Quale che sia il modello che si decide di scegliere, regolamentarista o neo-proibizionista, di sicuro va accantonato quello attualmente in vigore in Italia (chiamato “abolizionista”). Il prezzo che viene pagato alla criminalità, alla violenza, al degrado e alla diffusione delle malattie è molto più alto che non dove si è deciso di operare una scelta netta. Certo, da un lato il modello regolamentarista trova un ostacolo quasi insormontabile nell’opposizione della Chiesa e nella “morale pubblica” italiana. Dall’altro il modello neo-proibizionista si scontra col fatto che i paesi scandinavi hanno una cultura e un tessuto sociale non comparabili all’Italia. Senza contare che il numero di italiani che hanno rapporti sessuali regolari con prostitute (per passare alla “morale privata”) è uguale al numero degli svedesi. Di tutti gli svedesi: 9 milioni.

Tommaso Canetta

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