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Osservatorio Afghanistan
25 02 2014

Intervista a Debora Scolart, docente di diritto islamico
Di Stefano Lamorgese, 20 febbraio 2014, Rainews.

All’inizio del mese di Febbraio il Parlamento di Kabul ha approvato una controversa modifica del Codice di Procedura penale con la quale si vieta ai parenti delle persone accusate di testimoniare nei processi a loro carico. Il divieto riguarda non solo i familiari, ma anche bambini e medici.
L’idea iniziale, in realtà, era quella di eliminare l’obbligo di testimonianza per i parenti che non fossero intenzionati a farlo. Ma il parlamento ha deciso di introdurre un divieto più radicale.
E c’è chi ha interpretato tale svolta come un tentativo per permettere agli uomini che commettono abusi o violenze domestiche di restare impuniti, grazie al silenzio imposto sia alle vittime della violenza che alla maggior parte dei potenziali testimoni.
Il 17 Febbraio il Presidente Karzai – al quale a questo proposito sono pervenute le proteste di molte organizzazioni afgane e internazionali, attive nel campo dei diritti delle donne – ha deciso di bloccare la modifica introdotta dal Parlamento, imponendo una riformulazione dell’articolo 26 del nuovo Codice di Procedura Penale.
Sul tema del rapporto tra legge islamica e identità femminile Rainews ha intervistato la studiosa Deborah Scolart, che da anni si occupa di diritto penale islamico e dell’evoluzione dei costumi giuridici nel mondo musulmano.
Dottoressa Scolart, a Kabul si discute del nuovo assetto istituzionale, delle leggi e delle procedure, che ovviamente riguardano tutti, uomini e donne. Da dove possiamo partire per farci un’idea della situazione?
La nuova costituzione parla di parità di genere, ma lo fa pur sempre con la clausola del rispetto della sharia. Il punto è, allora, qui come altrove stabilire cosa sia la sharia, quale parte di essa sia eterna e immutabile, cosa invece possa essere nel tempo oggetto di revisione.
E quale atteggiamento si riscontra, a tale proposito, in Afghanistan?
L’Afganistan è paese a larga maggioranza sunnita di scuola hanafita. Si tratta di una scuola giuridica che fa un uso molto liberale delle fonti, vale a dire che mentre la conservatrice scuola hanbalita (per intenderci, quella seguita in Arabia Saudita) è fortemente ancorata al Corano e alla Sunna, la scuola hanafita ammette che il giurista, nella sua attività di interpretazione del diritto, possa avvalersi anche di criteri quali il ragionamento individuale, l’utilità pubblica, la necessità, l’equità… Sono concetti utilizzabili per giungere a dare una qualificazione sciaraitica delle azioni umane in termini di “vietato”, “obbligatorio”, “consigliato”, “sconsigliato”, “libero”.
Significa che non c’è uniformità nell’interpretazione della legge?
Certo. Dato questo approccio, i giuristi hanafiti, nei secoli, hanno adottato posizioni anche molto lontane tra loro, dai più accesi conservatori ai “liberali”, il che spiega anche la fortuna di questa scuola, adottata come rito ufficiale dell’Impero ottomano ma diffusasi anche fuori dei suoi confini… appunto in Afghanistan, Pakistan e India.
Ma come si possono tutelare – nella legge di oggi – i diritti delle donne?
È un dato di fatto che il diritto musulmano classico ammette – in tutte le scuole – che il contenuto del celebre versetto coranico (http://www.corano.it/corano_testo/4.htm) IV,34 vada interpretato nel senso che l’uomo può, a certe condizioni, picchiare la moglie. Ma è anche vero che oggi in molti luoghi si discute sul significato del vocabolo Idhribuhunna (letteralmente: “battetele”): alcuni ritengono che il vocabolo abbia un significato assai meno violento e che vada collegato alla nozione di esilio (idhribuhunna diventerebbe così: “allontanatele”)… ma è, appunto, un nuovo filone interpretativo che sposa una nuova lettura linguistica.
Questa nuova interpretazione è una novità assoluta?
No. Sarebbe perfino coerente con l’insegnamento del Profeta, del quale nessuna cronaca riporta che abbia mai picchiato le sue mogli o le sue figlie; però bisogna tener conto del fatto che da 1400 anni le società islamiche, tutte patriarcali, leggono e interpretano quel vocabolo come una esplicita autorizzazione all’uso della forza.
C’è dibattito, dunque, tra i musulmani.
Certo. Anche se in internet si trovano discussioni demenziali ospitate da canali come al-jazira e al-arabiyya in cui uomini del Golfo discettano su dove picchiare la moglie (mai sul volto perché si vede!!!), si incontrano anche interventi autorevoli in favore della nuova interpretazione.
Un punto di vista accettabile per la cultura afgana?
Difficile rispondere. L’Afghanistan è paese da sempre conservatore; esce (forse) da decenni di guerra; è oggetto di interventi spesso assai poco diplomatici da parte di paesi che, siccome vi spendono denaro, pensano di poter dire agli altri come vivere la propria vita… e neanche lo fanno in modo diplomatico. Possiamo davvero stupirci che gli ulama (i dotti religiosi, i “teologi” che quasi sempre si formano in Pakistan e Arabia Saudita, paesi non proprio campioni di modernità) spingano per un recupero della tradizione islamica più conservatrice?
Ma che ruolo possono svolgere le donne afgane per contribuire alla modernizzazione del diritto?
È chiaro che potrebbero svolgere un ruolo enorme, ma se – nonostante gli indubbi passi avanti compiuti negli ultimissimi anni – in Afghanistan è loro negato l’accesso all’istruzione e alla partecipazione politica è anche chiaro che le loro voci sono destinate a rimanere molto al di sotto di un volume udibile, con tutte le conseguenze del caso.
***
Deborah Scolart è ricercatrice di diritto musulmano all’università di Tor Vergata e docente della stessa materia presso l’Università di Roma Tre.

Atlas web
18 02 2014

Il presidente afghano Hamid Karzai ha dato ordine di apportare modifiche a un disegno di legge che secondo gli attivisti non tutela le donne nei casi di violenza domestica.

“La nuova legge non sarà approvata fino a quando non saranno apportate le giuste modifiche”, ha scritto ieri su Twitter il portavoce di Karzai, Aimal Faizi.afghanistandonne

La legge vieta alle autorità giudiziarie di interrogare i parenti di un imputato per violenza domestica, ostacolando così il processo contro di lui e la sua eventuale pena, sostiene Human Rights Watch (Hrw).

La nuova legislazione è già stata approvata dalle due camere afghane e manca solo la ratifica di Karzai, che ha rispedito il disegno di legge al ministero della Giustizia affinché venga modificato.

La decisione del presidente afghano di non ratificare la legge arriva dopo un’accesa polemica generata dal contenuto della nuova normativa, sia all’interno che fuori dai confini nazionali.

Secondo un rapporto pubblicato lo scorso dicembre dall’Onu a Kabul, la polizia e i pubblici ministeri hanno risolto la maggior parte dei casi di violenza di genere in modo “informale”, senza applicare la legge, non tutelando le donne.

Lo studio precisa che dei 16.669 casi di violenza contro le donne registrati in sedici province afghane nel 2013, solo 109 (il 7 per cento) sono stati risolti attraverso i parametri del sistema giudiziario.

 

Secondo il nuovo codice penale, è vietato ai membri di una stessa famiglia di testimoniare in tribunale nei casi penali, clausola che renderà sempre più difficile perseguire i casi di violenza domestica e i matrimoni precoci. ...

Spozhmay, la bambina afgana diventata kamikaze

Il Corriere della Sera
07 01 2014

Si chiama Spozhmay la bambina di 10 anni che qualche giorno fa si è volontariamente consegnata alle forze di polizia cui ha raccontato di essere stata convinta dal fratello talebano a farsi esplodere in un attacco suicida. Secondo quanto ha raccontato il portavoce del ministero dell’Interno, Sediq Sediqi, la piccola è stata notata proprio dagli agenti che avrebbe dovuto attaccare nel distretto di Khanishin, nella provincia meridionale di Helmand. Evidentemente stressata e impaurita da quello che stava per fare Spozhmay ha iniziato a piangere e a gridare fino all’arrivo della polizia.

La bambina è stata arrestata e trasferita nella capitale provinciale dove ha raccontato come suo fratello Zahir, comandante talebano operante nel distretto con il nome di Hameed Sahib, l’ha convinta a compiere l’attentato:

“Mi ha detto di prendere un giubbotto esplosivo nero, di andare al checkpoint della polizia e di spingere sul bottone. Diceva che non mi sarebbe successo nulla. Mi ha accompagnato fino al luogo stabilito e poi mi ha lasciato lì”.

Da questo punto in poi le versioni divergono. Secondo alcune fonti la ragazzina avrebbe deciso di buttar via il giubbotto esplosivo mentre, secondo la Tolo Tv, non sarebbe riuscita ad attivare il meccanismo esplosivo ed avrebbe cominciato a piangere.

Quale che sia la verità, la notizia è la prova del coinvolgimento di minori negli attacchi talebani, cosa che i ribelli islamici avevano sempre negato anche se sono già stati molti i baby kamikaze. Spozhmay è una delle più giovani. Per fortuna si è fermata prima di premere il grilletto.

Nel 2011 il presidente Hamid Karzai aveva graziato alcuni teenager che avevano compiuto attentati suicidi.

 
di Ugo Panella *
 
La casa di Laila è circondata da un muro coperto di fango, al centro una porta di ferro azzurra che si apre su di un piccolo giardino ombreggiato da un pergolato di uva mentre cespugli di rose si riflettono sui vetri di una casa di mattoni e argilla. Laila ci viene incontro con un sorriso disarmante. È il 2010, un giorno di ottobre a Kabul.Vento, sole e traffico assordante sono il panorama che accompagna la vista di una città che confonde centro e periferia in un vortice di polvere, edifici fatiscenti, mercati improvvisati, blindati militari, grida e colori. Sto andando a conoscere una donna speciale. La sua storia me l’ha raccontata Luca Lo Presti, presidente di Fondazione Pangea.

Dieci anni prima, in pieno regime talebano, Laila – abbandonata da un marito brutale e con tre bambini da crescere – era stata costretta dai parenti di lui a prostituirsi per sopravvivere. Le avevano scavato una buca nel terreno, chiusa da una grata di ferro per impedirle la fuga. Una prigione improvvisata, dove lei doveva vivere in attesa degli uomini che venivano a stuprarla. Qualcuno, dopo, le gettava pochi “afgani” ( la moneta locale).
 
Per Laila nessuna denuncia era possibile: la polizia della morale l’avrebbe condannata a morte per lapidazione e il fanatismo di una cultura allenata nelle madrasse trasformata da vittima a colpevole.
La sua storia tragica, ancora incisa nella mia mente, svanisce in quel sorriso, in quel corpo minuto ed elegante, nell’armonia di gesti così distanti dal suo passato quella mattina di ottobre a Kabul nel suo giardino dove coltiva le rose..

Le chiedo il permesso di scattarle qualche foto e lei acconsente.
Rivedo ancora il gesto della sua mano che solleva il burqa, metafora di una liberazione da una prigione inventata dal potere degli uomini.
Attraverso l’obiettivo vedo le sue rughe, minuscoli insulti del tempo, che ne segnano la vita; vedo i suoi occhi sorridere senza più paura, come se il suo passato non avesse vinto sul futuro.

Quel passato è ormai lontano, sconfitto da un gesto di solidarietà che Luca le offrì tanto tempo fa: entrare a far parte del programma di Pangea per le donne più povere ed emarginate di Kabul.
«Non ho paura di morire se i talebani mi vengono a cercare» gli disse quando lui le spiegò che avrebbe corso dei rischi «sono già morta mille volte, ma tu mi stai dando un’opportunità di tornare a vivere e io non la voglio sprecare».
Oggi Laila ha circa 40 anni. Vive nalla sua casa col piccolo giardino insieme ai suoi tre figli. Loro studiano e lei lavora: coordina il programma di microcredito di Pangea destinato alle donne di Kabul.
In un paese perennemente in guerra, Laila ha vinto e ogni giorno semina pace.
Le donne, la loro condizione di vita nelle tante realtà del mondo, hanno ispirato spesso il mio lavoro di fotogiornalista: protagoniste coraggiose di vite diverse, poiché la forza di reazione alle condizioni sfavorevoli ne fanno l’anello forte della società, soprattutto là dove l’arroganza e il potere dell’uomo tenta di sottometterle e togliere voce ai loro diritti.
Le ho viste combattere, alla fine degli anni ’70, in Nicaragua e Salvador nelle lotte di liberazione da dittature feroci. Nelle barricate, a fronteggiare eserciti addestrati o ai margini delle fosse comuni a piangere mariti e figli torturati e uccisi.
Ho documentato in Africa la capacità di sopravvivere a carestie e condizioni estreme nelle quali trovavano la forza di crescere i figli e proteggerli da un futuro senza futuro.
In Bangladesh, il mio obiettivo si è fermato sulla tragedia di bambine e donne distrutte nel corpo e nell’anima da uomini che gettano loro acido solforico in faccia per vendicarsi di un rifiuto. Vite distrutte, negate. Eppure molte di loro hanno trovato la forza di affrontare quel futuro che nelle intenzioni dei carnefici avrebbe dovuto spegnersi in quel gesto tragico e violento.
Il privilegio della mia professione è entrare in tante storie diverse, testimoniare il dolore o la felicità, a volte, il lato oscuro di un’umanità che si fa feroce e dimentica la pietà.

In questa geografia della sofferenza e della condizione sottomessa delle donna, occupa un posto speciale l’Afghanistan. Un paese costretto da una lunga guerra inventata da pochi e sofferta da molti, dove la donna paga il prezzo più alto.
Tradizioni secolari le impongono il silenzio, l’obbedienza, la rassegnazione. Nascoste nelle case e nei burqa, schiave di padri e mariti subiscono le violenze di sempre, quelle che la cultura tribale ha loro assegnato per tradizione tramandata.
Un universo difficilmente penetrabile, visto attraverso una lente deformata da una guerra che cambia i contorni e li confonde in una nuvola nera.
Per me l’Afghanistan conosciuto era quel mondo militare di cui seguivo spostamenti e strategie.
Poi, un incontro inaspettato mi ha permesso un nuovo punto di vista e ho guardato la realtà di quel territorio con occhi nuovi.
Un’occasione che Luca Lo Presti mi ha regalato proponendomi di documentare il loro progetto di microcredito alle donne di Kabul.
Il mondo intorno a me ha cambiato sembianze e, con esso, anche le certezze.
Ho capito che nella guerra può esserci la pace, la voglia di riscatto, la forza che tanta umanità s’inventa per proseguire il cammino verso una speranza più giusta del rombo degli elicotteri o dei bombardamenti intelligenti.
Sono entrato con le donne nelle loro case, ho visto i sorrisi imbarazzati dei bambini che servivano il thè speziato, ho condiviso la semplicità dell’accoglienza.

Famiglie che mi hanno accolto nel poco che hanno e spartito senza chiedere in cambio.
Questa è l’anima autentica di questo popolo che chiede giustizia e il necessario per una vita dignitosa. Non cercano spartizioni d’interesse e di potere, non vogliono il male di nessuno. Chiedono semplicemente di vivere nella loro terra e della loro terra, crescere i figli e non vederli morire o saltare sulle mine per le strategie geopolitiche del potente di turno.
Le storie personali nascono dagli incontri e si nutrono di emozioni. Sono grato a Laila, alle molte “Laila” incontrate nel mio percorso di vita, alle impronte che hanno lasciato nella mia memoria e che ho cercato di tradurre in immagini capaci di fermare un frammento di realtà.

 

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