Osservatorio Afghanistan
10 12 2013
La donna che non teme i signori della guerra, Malalai Joya, l’attivista coraggiosa costretta in Afghanistan alla clandestinità dopo gli attentati cui è fortunatamente scampata, sta portando la sua voce in varie città italiane. L’abbiamo intervistata su un treno che viaggiava verso il meridione.
Malalai, lei in questo mese si è recata in alcune nazioni europee, quanto servono al suo progetto politico simili incontri?
Servono per denunciare quanto sta accadendo nel mio Paese. In dodici anni d’occupazione abbiamo assistito a una guerra militare e a una di propaganda. La seconda non è meno pericolosa perché ha alleati ovunque. Purtroppo non riusciamo a far conoscere la reale situazione perché dell’Afghanistan parlano soprattutto figure ufficiali come Karzai che dipendono dall’Occidente. Io denuncio da tempo ciò che vedo e quello che raccogliamo tramite una crescente rete di attivisti democratici, però abbiamo difficoltà nel diffondere le verità scomode. I miei viaggi servono a raccontarle.
E’ in contatto con associazioni di volontariato o con partiti?
In Italia e negli Stati Uniti ci rapportiamo a organismi che si occupano di condizione femminile e diritti umani, egualmente in Germania dove sono stata accolta anche nel Bundestag. La linea comune con queste associazioni è la difesa delle donne, l’unico partito che ha accettato d’incontrare il mio staff è l’Spd tedesco. In Italia abbiamo rapporti con singoli parlamentari, in genere sono della sinistra. Una volta un giornalista tedesco mi chiese perché mai io che non mi proclamo di sinistra fossi invitata dai gruppi lì collocati. Gli risposi che la domanda avrebbe dovuta farla a loro.
Gran parte delle forze politiche dei Paesi dell’Unione Europea sostiene la cosiddetta “missione di pace” Isaf, lei cosa ne pensa?
La missione contrabbanda per pace un’ingerenza nella vita geopolitica ed economica del mio Paese. E’ un’azione inaccettabile. Gli alleati occidentali degli Usa mettono le proprie truppe al servizio dei comandi Nato che sono statunitensi. Purtroppo non fanno altro che duplicare quanto l’esercito americano fa già in maniera indipendente e posso assicurarvi che non è quello che noi afghani auspichiamo. L’occupazione occidentale appare speculare a quella sovietica, ogni “liberatore” è arrivato con propri slogan: i russi con pane e lavoro, una casa per tutti, parità di diritti; gli americani hanno contrabbandato la guerra al terrorismo, l’attacco al fondamentalismo per liberazione delle donne. Falsità. Di entrambi abbiamo visto gli effetti sul terreno, cosicché i miei concittadini non vogliono saperne né del socialismo reale né d’una democrazia che sa di dittatura.
A Farah, da dove lei proviene, cosa dice la gente delle truppe italiane lì dislocate?
I soldati italiani obbediscono agli ordini dei superiori e quest’ultimi recepiscono le direttive imposte dall’Isaf guidata dall’Us Army. Questa, piaccia o meno, è la realtà. Se guardiamo agli effetti catastrofici di bombardamenti statunitensi e tedeschi anche sui civili possiamo dire che i vostri militari non si sono macchiati di crimini simili. Se però consideriamo la strategia politica dell’Enduring Freedom essa non è mai stata contestata dal contingente italiano e dal governo di Roma. Un esempio chiarifica la connivenza e la subordinazione: a Farah c’è stato fino a poco tempo fa (ora è morto) un famoso mullah filo talebano che aveva un rapporto assai confidenziale con gli statunitensi, i generali italiani non hanno mai sollevato obiezioni sulla vicenda. La propaganda sostiene che a Farah l’Isaf non dà tregua ai Taliban. Chi vive in quei luoghi sa che le vicende sono diverse. Un altro episodio: nel corso di una conferenza in Germania una persona interruppe un mio intervento rigettando le accuse sui massacri di civili. “Non può accusarci, le nostre truppe sono differenti” diceva il cittadino di Berlino. Poco tempo dopo ci fu la strage di Kunduz che coinvolgeva anche il contingente germanico. Il problema non è solo chi sgancia la bomba oppure raffica, tutte le componenti Isaf appoggiano questa linea d’occupazione incarnata anche dai massacri. Invece di continuare a spargere il nostro sangue e anche quello dei propri soldati, a dilapidare un’infinità di denaro dei contribuenti i governi occidentali potrebbero occuparsi d’altro, di tutto ciò che manca alla loro convivenza civile.
Quale opinione s’è fatta della cooperazione presente in Afghanistan?
Ho visto progetti di cooperazione spacciati per aiuto alla popolazione che risultavano una maschera per garantire una più articolata occupazione militare. Se tutto il denaro raccolto fosse davvero servito alla costruzione di scuole e ospedali non saremmo in una situazione di così smaccato bisogno. Il problema sta anche nell’entità delle Ong che operano sul territorio afghano, la maggior parte si relazionano a personaggi corrotti. Vorrei ricordare un episodio collegato alla figura di Bashardost (politico indipendente che nel 2004 ricoprì la carica di ministro per la pianificazione battendosi contro la corruzione, ndr). Fu lui a scoprire i legami di politici locali e signori della guerra con strutture della cooperazione internazionale. Chiese al neonominato presidente Karzai d’intervenire per sanare l’illegalità ma non venne ascoltato. Magari si fosse realizzata una moralizzazione del sistema, non accadde e la situazione è tuttora altamente inquinata. La filiera disperde risorse sia per autosostenersi, sia perché ogni passaggio di denaro prevede regalìe a chi gestisce frammenti di potere. Esistono anche organismi seri di cui si può verificare l’operato (Hawca, Opwac), purtroppo accedono a pochissimi fondi.
Ritiene che l’occupazione occidentale proseguirà sotto altre forme nonostante lo sbandierato ritiro delle truppe Nato?
La presenza di nove basi militari statunitensi anche per gli anni a venire è il segnale lampante di come quest’occupazione proseguirà nonostante tutti i propositi e le sbandierate dichiarazioni di ritiro delle truppe. Tutto ciò ha una ricaduta politica: è la chiara prosecuzione del piano imperialista che priva l’Afghanistan di autodeterminazione e indipendenza, complici gli attuali governanti del nostro Paese. I luoghi del mondo dove simili basi esistono registrano un’ingerenza politica, economica, strategica di varia levatura. Anche in Italia ne sapete qualcosa. Prendiamo l’ultimo atto della subordinazione di Karzai ai voleri di Washington, l’accordo denominato Bilateral Security Agreement. Tutto il balletto messo in scena dopo il patto già deciso, la ratifica dell’assemblea della Loya Jirga, cerca nei rappresentanti del popolo l’alibi per pianificazioni precostituite. In quell’assise solo la voce di Belquis Roshan (la senatrice che ha protestato innalzando anche un cartello, ndr) ha denunciato l’ennesima svendita della nazione. Mi ha fatto piacere constatare che il suo voto contrario è stato affiancato da qualche altro dissenso.
Qualche analista occidentale sostiene che dopo la strategia del ritiro l’Afghanistan rischia la guerra civile e la frantumazione in aree tribali
E il magnifico alibi con cui l’imperialismo vuole giustificare la sua presenza a oltranza nel nostro Paese. La divisione in aree d’influenza c’è. E’ stata avallata in tutti questi anni di presìdi Isaf, le cui truppe tessono accordi con talune bande armate locali. Il popolo è già vittima di vari soggetti oppressori: occupanti, signori della guerra, talebani, ciascuno egualmente sprezzante e violento. La guerra civile del quadriennio 1992-96 è, ahinoi, un ricordo vivo, ha portato lutti in ogni famiglia, è un fantasma che desta paura perciò i cantori dell’occupazione a oltranza lo agitano.
Cosa pensa del dopo Karzai e degli 11 candidati alle presidenziali di aprile?
Non mi sembrano persone che lasciano speranze al popolo, di chi dovremmo parlare? dell’ennesimo fratello di Karzai, di Abdullah che è stato sodale e poi avversario del presidente uscente, di criminali fondamentalisti come Sayyaf o Khan? Né desta speranza un tecnocrate filo americano come Ghani o l’outsider tardo monarchico Naim. Nella breve tradizione elettorale afghana non conta il presidente bensì chi conta i voti delle presidenziali. E con la conta intuite bene di cosa si tratta: manovre truffaldine con cui si manipolano le schede.
Un nome noto come il suo avrebbe potuto candidarsi? se sì perché non l’ha fatto?
Non l’ho fatto perché non avevo l’età per farlo: occorrono quarant’anni d’età e manco del titolo di studio richiesto: la laurea. Il tempo lavorerebbe in mio favore: a un certo punto sarò anch’io quarantenne e accanto all’impegno politico, che negli anni giovanili mi ha impedito di terminare gli studi, ho riavviato il corso di laurea. Molte persone mi chiedono quest’impegno futuro, io sono titubante. E’ un ruolo prestigioso ma ambivalente, non voglio perdere la credibilità politica prestando il fianco ad accordi cui necessariamente bisogna sottoporsi.
Lei ha dichiarato di vedere spazi politici sempre più ridotti per i democratici del suo Paese e teme che la clandestinità incomba su un numero crescente di oppositori. In simili condizioni come si potrà offrire sostegno a orfanotrofi, rifugi per donne perseguitate, familiari delle vittime?
In Afghanistan è sempre più difficile impegnarsi pubblicamente nell’azione di denuncia e nello stesso sostegno sociale. La gente comunque osserva gli scenari e medita. Non tutti hanno paura, abbiamo avuto riscontri favorevoli nelle adesioni a varie iniziative, fossero pure i cortei di strada organizzati ad aprile. L’ampliamento delle coscienze conforta il nostro lavoro e rappresenta la migliore garanzia per non perdere spazi pubblici. In città e nelle campagne parecchi afghani vedono che si stanno avverando gli scenari che noi prospettavamo. Certo repressione e regressione sono sempre dietro l’angolo, potrebbero costringerci a una clandestinità armata. Io appartengo a quelle generazioni nate e cresciute sotto le bombe, odio la violenza, non ho mai imbracciato un kalashnikov né mi auguro di farlo, ma sono attorniata da guardie del corpo armate. Per difendermi sono stata costretta a farlo. Non demordiamo, useremo ogni spiraglio a disposizione poiché quello che temiamo maggiormente in questa lotta è il silenzio.
Frontiere news
04 12 2013
di Nicole Valentini
Conoscevo da tempo la storia e la situazione dei rifugiati e richiedenti asilo, ma quando attraverso gli amici Soheila e Razi Mohebi, registi rifugiati in Trentino, sono venuta a conoscenza che tre ragazzi afghani dormivano per strada da alcuni mesi, è emerso il mio atteggiamento naïf. Come è possibile, mi sono chiesta, che in una piccola e moderatamente ricca città come Trento, dei richiedenti asilo dormano per strada? All’ingenuità è susseguito lo sdegno. La rabbia, la tristezza e l’indignazione sono sentimenti umani, ma lasciano tutti il tempo che trovano.
Nur, Amir e Hadi (nomi di fantasia che utilizzerò per tutelare la loro privacy) sono tre ragazzi provenienti dall’Afghanistan; appartengono tutti all’etnia Hazara, una delle etnie maggiormente discriminate e perseguitate di questo Paese. Poco più che adolescenti hanno abbandonato il loro paese ed hanno iniziato il viaggio. A piedi e con mezzi di fortuna hanno attraversato il Pakistan, l’Iran, per arrivare in Turchia ed infine in Europa. Un viaggio che avrebbe fatto impallidire Ulisse, in cui la possibilità di morire è molto alta.
Incontro Nur lunedì, fuori dalla biblioteca comunale di via Roma, dove ogni tanto i ragazzi vanno il pomeriggio per scaldarsi un poco. Ho tentato di aiutarli a trovare una sistemazione per la notte, ma tutte le associazioni hanno risposto all’unisono: “non c’è posto mi dispiace, siamo pieni”.
Nur appare il più serio, ti guarda con quello sguardo dolce ma grave di chi sta lentamente abbandonando ogni speranza. “Sei molto giovane” gli dico, mi guarda negli occhi e risponde: “sì, ma sai tutto quello che ho visto e che ho vissuto…” si poggia una mano sul cuore ma non termina la frase, io annuisco, so già cosa vuole dirmi.
Mi dice che se l’Europa e l’Italia non vogliono o non possono accoglierli, allora che chiudano definitivamente le frontiere, che non permettano loro di entrare per poi rimabalzarli da un Paese all’altro come palline da ping pong o abbandonarli in mezzo ad una strada. Sarà la decima volta che sento questo discorso, ed è un discorso freddo, razionale di una persona che non ha più fiducia ed aspettative nei confronti di quest’Europa, terra di miraggi e false promesse.
Loro non vogliono carità, non vogliono compassione, vogliono dignità e la possibilità di iniziare a vivere. La prima forma di dignità è quella che si ottiene con il soddisfacimento dei propri bisogni primari in modo autonomo, senza mendicare di continuo aiuto, cibo e vestiti alle varie associazioni e cooperative, che per fortuna comunque esistono. Il primo passo verso l’inizio della loro vita da adulti invece, lo vorrebbero costruire giorno per giorno, intraprendendo un percorso unico e individuale che li porti all’autonomia e al perseguimento dei propri sogni.
Passo con loro il pomeriggio e poi li saluto per lasciarli andare a mangiare alla Caritas. Ci ritroviamo dopo qualche ora alla stazione dei treni per andare a Rovereto dove ogni giorno alle 19 in punto devono andare a mettere la loro firma al dormitorio in attesa che un posto si liberi, ma anche quando ciò avviene, sono poche le notti che possono trascorrere all’interno della struttura. Uno di loro mi chiede se ho fame e mi offre un frutto, l’unica cosa che ha.
Gli chiedo se le loro famiglie sanno che sono qui e che stanno bene. Tutti mi rispondono di no. Nur mi dice che la sua famiglia abita in una zona dell’Afghanistan, Ghazni, circondata dai talebani e per lo più priva di connessioni telefoniche, Hadi sottovoce mi dice di aver perso tutta la sua famiglia, massacrata qualche anno fa dai kuchi talebani, non riesco nemmeno a dirgli che mi dispiace, ogni parola mi sembra superflua, ogni parola mi sembra troppo poco.
Quanti ragazzi come loro vivono per le nostre strade? Nascosti alla nostra vista, cacciati dalle stazioni e persino dai parchi, affinché Trento assomigli al migliore dei mondi possibili, affinché non si gridi al degrado. L’unico degrado che vedo io è quello delle nostre coscienze, afflitte da una rinuncia a priori, da un fatalismo pessimista, per il quale tanto alla fine non cambia nulla e comunque non è nostro compito fare in modo che qualcosa cambi. Se per cento persone che si indignano ce ne fossero cinquanta disposte ad agire, di persone che dormono per strada non ce ne sarebbero quasi più. Anche il semplice parlarne è fare qualcosa. Qualcuno potrebbe venire a conoscenza della situazione e decidere di portare dei vestiti o del cibo a queste persone, o semplicemente andare a parlare con loro, ad ascoltare la loro storia, per fargli capire che non sono abbandonati a loro stessi, che esistono ancora. Qualcun altro potrebbe scrivere degli articoli o una lettera al giornale. Non è solo un dovere delle istituzioni, è un dovere di tutti coloro che sanno portare alla luce queste problematiche ed intervenire ognuno nel proprio piccolo e secondo le proprie possibilità.
La sera arriva ed è molto freddo, il vento mi gela le mani. Li guardo e porgo loro le mie scuse, “ho fallito, mi dispiace. Ero sicura che sarei riuscita a trovarvi un posto per dormire”, “non preoccuparti per noi, siamo abituati”, dice Nur. “Questa è la vita” mi dice Amir. Vorrei dirgli che no, questa non è vita e che no, non smetterò di preoccuparmi per loro, perché dopo averli conosciuti, lo sdegno si è trasformato in tristezza e frustazione, ma anche in ammirazione per questi ragazzi così dolci e gentili che mi hanno dato tanto pur non avendo nulla.