Internazionale
17.03.2015
Mercoledì 11 marzo un internato dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto si è tolto la vita impiccandosi nel bagno. Nello stesso giorno, appena più in là, un detenuto del carcere di Sciacca ha preso la stessa decisione.
Sono solo gli ultimi due componenti della lunga teoria di morti che attraversa le strutture detentive del nostro paese. Terminare la propria esistenza in carcere non costituisce un fatto episodico, bensì rappresenta un vero e proprio parametro e un asse portante dell’attuale sistema della reclusione.
Se non esiste la pena di morte, esiste la morte per pena. Nel corso del 2014, i suicidi sono stati 44, e 88 i decessi per “cause naturali”; nei primi mesi del 2015, nove i suicidi e nove i morti per altre ragioni. Proprio per questo occorre pensare (e finalmente realizzare) il superamento del regime carcere. Anche se nella mentalità collettiva non è immaginabile una pena che prescinda dalla reclusione, non è sempre stato così.
Sono state le leggi ordinarie, modificabili da qualsiasi maggioranza parlamentare, a introdurre l’idea che la risposta sanzionatoria dello stato alla violazione delle leggi penali debba consistere nella privazione della libertà, all’interno di un perimetro chiuso e di una cella serrata, per un determinato periodo di tempo. E un simile concetto non lo si trova da nessun’altra parte e tanto meno nella costituzione italiana.
È diventato senso comune e norma di legge, per una inveterata abitudine, che risale a qualche secolo fa e che è stata legittimata dall’autorità di Cesare Beccaria, preoccupato delle pene efferate che incrudelivano sui corpi nell’ancien régime. In quel contesto, dunque, il carcere era il male minore: una pena la cui “dolcezza” avrebbe fatto decadere le punizioni più atroci.
La nostra carta, all’articolo 27, dice che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La pena detentiva troppo frequentemente corrisponde di per sé a un trattamento contrario al senso di umanità, al punto di indurre il sospetto che essa sia – in sostanza – una pena inumana. E d’altra parte è incontestabile che la pena detentiva – nella grande maggioranza dei casi – non tende alla “rieducazione” del condannato, ma costituisce una sua degradazione fino a segnarne tragicamente il destino.
Inoltre, la costituzione non parla mai di carcere, né di pena detentiva. Anche se i costituenti conoscevano solo il carcere (per averne fatto esperienza direttamente durante il fascismo) e la pena capitale, furono lungimiranti: saggiamente non aggettivarono le pene, lasciando campo libero a un legislatore che volesse cambiare radicalmente la fisionomia delle sanzioni penali.
E quel legislatore dovrebbe sapere, innanzitutto, come sia inequivocabilmente provato che il carcere non costituisce un efficace strumento di punizione. In primo luogo perché quanti vi sono reclusi si troveranno a commettere nuovi delitti in una percentuale elevatissima, più del 68 per cento. Il sistema penitenziario, pertanto, produce l’effetto opposto a quello a cui dovrebbe mirare – ridurre il tasso generale di criminalità – e finisce con l’affinare le capacità delinquenziali dei detenuti, insediandoli più profondamente nel tessuto della illegalità e negando loro ogni alternativa di vita.
Allo stato attuale, le diverse finalità della carcerazione, inoltre, tendono a ridursi via via a una sola e a concentrarsi, alla prova dei fatti, nell’esclusiva funzione di affliggere il condannato per il reato commesso. Così, la pena si mostra nella sua essenzialità come vera e propria vendetta. In quanto tale, essa risulta priva di qualunque effetto razionale e totalmente estranea – direi: indifferente – a quel fine che la costituzione indica nella “rieducazione del condannato”.
Se la pena, infatti, viene considerata esclusivamente per la sua finalità “retributiva” – ovvero compensare la colpevolezza del reo – saremmo in presenza di una misura che ha il solo obiettivo di arrecare dolore, ovvero affliggere il detenuto. E ciò la renderebbe iniqua e sostanzialmente immorale.
All’opposto, il fondamento di una possibile moralità risiede proprio in quello che consideriamo come il più rigoroso e radicale habeas corpus: cioè l’incondizionata tutela dell’integrità e della incolumità del corpo e della personalità del condannato. In caso contrario non c’è dubbio che è la violenza istituzionale, fino all’esecuzione capitale, la forma di sanzione più equa. Nel caso estremo, solo la pena di morte rappresenta effettivamente la retribuzione più “proporzionata”: morte per morte.
Non c’è il minimo dubbio, infatti, che la pena capitale – sotto il profilo della massima utilità – risulti più incisiva di lunghe e costose carcerazioni, meno capaci di bloccare la diffusione del delitto e la sua perpetuazione.
A conferma della maggiore “ragionevolezza” che avrebbe, in un simile contesto, la pena di morte, si può far riferimento a quanto accaduto nei primi giorni del 2015, quando un ergastolano belga ha chiesto di poter accedere al protocollo per l’eutanasia, ricevendo inizialmente una risposta positiva da parte del ministero della giustizia. L’uomo, Frank Van den Bleeken, avrebbe voluto esser curato in una clinica specializzata per la sua patologia – si definisce uno “stupratore seriale” – ma, nonostante ripetute richieste, non gli è stato concesso. Lo stato, di fatto, avrebbe preferito la sua morte, con l’ipocrisia di un atto giustificato come rispondente alla sua volontà. Così l’ergastolo, la pena senza speranza, ridiventa, anche in senso materiale, pena di morte.
Al di là di questo esito estremo, la contraddizione strutturale dello strumento-carcere manifesta la sua evidenza anche sotto altri aspetti. Il primo. La sua rozzezza: la prigione è uno strumento palesemente non sensibile e non intelligente. Esso può essere applicato solo indistintamente e grossolanamente senza alcuna duttilità e flessibilità. In estrema sintesi: il carcere è lo stesso per chi vi finisce per aver rubato un pacco di wafer e per Bernardo Provenzano.
In altre parole, la qualità della pena comminata per la gran parte delle fattispecie penali del nostro ordinamento è essenzialmente sempre la stessa: la reclusione. Ovvero la misura che, nel nostro codice, è prevista per i delitti e che può avere una durata compresa tra 15 giorni e 30 anni. Se poi si tiene conto che per le contravvenzioni la pena detentiva è denominata arresto ma può comportare le stesse conseguenze di restrizione della libertà, è facile dedurre che la prigione costituisce il cuore stesso dell’idea e della pratica della punizione per come il codice e la prassi giudiziaria l’hanno definita.
D’altra parte, non va dimenticato mai che il carcere è un prodotto umano e come tale va sottoposto a un test di validità. E il criterio fondamentale è quello relativo alla quantità di bene e alla quantità di male che ne derivano. Ovvero: il carcere produce bene se risponde allo scopo per il quale è stato creato. Produce male se non raggiunge il fine al quale è destinato e se determina danni che superino i benefici ottenuti.
Si prenda un anno qualsiasi, il 1998, per esempio: un anno come tanti nella recente storia italiana. Nel corso di quell’anno 5.772 persone già condannate in via definitiva vengono scarcerate dopo aver finito di scontare la propria pena. Sette anni dopo, nel 2005, 3.951 di loro saranno di nuovo in carcere, accusate o condannate per aver commesso nuovi reati. Si tratta esattamente del 68,4 per cento di quanti erano stati scarcerati nel 1998. Una percentuale enorme che costituisce, necessariamente, il punto di partenza di qualunque discorso sul sistema penitenziario. Ripetiamo, a scanso di equivoci: il 1998 fu un anno come tutti gli altri. Parto da lì solo perché è l’unico anno su cui l’amministrazione penitenziaria ci ha fatto conoscere, incidentalmente, questo piccolo e incontrovertibile dato sull’efficacia “rieducativa” della pena detentiva: una bocciatura senza appello.
Certo, sull’altro piatto della bilancia ci sono alcune decine, forse alcune centinaia (non certo alcune migliaia) di detenuti che attraverso un corso di formazione, il lavoro all’interno del carcere, poi quello fuori e, magari, una misura alternativa alla detenzione, in galera non ci sono rientrati, ma il bilancio resta clamorosamente negativo e insistere sulle ammirevoli “buone prassi” rischia di farle apparire come foglie di fico sulla vergogna di un carcere insensato. Possiamo continuare a invocare, minacciare, eseguire pene detentive sempre più dure per qualsiasi violazione della legge: ma se il loro risultato è questo, il realismo e la misura ci impongono di trovare delle alternative.
Huffington Post
11.03.2015
Ornella Gemini è una donna che non può darsi pace. Suo figlio Niki Aprile Gatti è morto nel 2008 nel carcere di Solliciano: suicidio secondo gli inquirenti, suicidio simulato secondo lei. Ornella Gemini l'ho conosciuta lo scorso giugno ad Avezzano (ne ho parlato qui) e qualche giorno fa mi ha scritto e mi ha segnalato che nell'udienza preliminare che si è tenuta i primi di marzo (a sette anni e passa dagli arresti preventivi si parla ancora di udienza preliminare!) è emerso che la procura di Firenze che condusse l'operazione Premium su una presunta associazione a delinquere finalizzata alle truffe telematiche - inchiesta da cui scaturì l'arresto di 17 persone, tra le quali suo figlio - non aveva competenza sul caso e che il caso spettava invece alla procura di Arezzo.
Un dolore in più per Ornella Gemini: da anni lotta perché emerga la verità sulla morte di suo figlio, ora scopre che il pubblico ministero che aveva ordinato il suo arresto non aveva titolo per farlo... Ma soprattutto scopre "che se quel pm non avesse indagato sul caso Premium (non potendolo fare) Niki non sarebbe stato arrestato e sarebbe ancora vivo". Intervistata da Il Garantista ha detto: "Cosa devo pensare? Che ho perso un figlio che era la mia vita per errore? Sono pronta ad azzerare tutto, fatemi tornare a casa mio figlio, una casa in cui dal 24 giugno 2008 non si vive più".
"Se non avesse indagato...non potendolo fare". Leggo e rileggo queste parole. Perché mi fanno pensare che l'errore di base sta proprio qui: nella pratica dell'indagine giudiziaria che sbatte la gente in galera per farla parlare, una pratica che da Mani pulite in poi, ma certo anche da prima, avvolge e controlla ogni momento della nostra vita. Indagine che diventa battaglia personale del bene contro il male dove la vittoria è sempre e soltanto l'arresto preventivo e il carcere. Ha detto bene poche settimane fa il presidente della Repubblica Mattarella all'inaugurazione dei corsi della Scuola superiore della magistratura a Scandicci: "Al magistrato si richiede profonda coscienza del ruolo e dell'etica della professione...un compito né di protagonista assoluto nel processo né di burocratico amministratore di giustizia". E per essere più chiaro Mattarella ha aggiunto: "Vale sempre il monito di Calamandrei: "Il pericolo maggiore che in una democrazia minaccia i giudici è quello dell'assuefazione, dell'indifferenza burocratica, dell'irresponsabilità anonima".
Un'irresponsabilità anonima che, come appare, ha permesso nel 2008 l'arresto di Niki Aprile Gatti in base a una indagine che gli inquirenti fiorentini non potevano fare. Un errore certo... può capitare... ma che capita proprio per "assuefazione, indifferenza burocratica, irresponsabilità anonima", per quella guerra personale messa in atto da certi pm-sceriffi che si credono padroni e domini della vita degli uomini. "La giustizia - diceva Josè Saramago - non serve a niente se non si pone al servizio dell'uomo. Perché altrimenti ci possono essere leggi ingiuste e una giustizia corrotta".
Radio Onda d’Urto
04 03 2015
UN ALTRO CASO BASCO A ROMA: KARLOS ASKATU! UDIENZA IL 12 MARZO
Si terrà l’udienza a Roma il prossimo 12 marzo sul caso di Carlos García Preciado , militante basco arrestato il 25 febbraio nella capitale dove vive da 14 anni con la sua famiglia.
Il giudice deciderà se revocare o meno la detenzione in carcere, così come richiesto dai suoi avvocati, in attesa che giungano dalla Spagna nei prossimi 40 giorni gli atti che spiegano la condanna a 16 anni di carcere inflitta dai tribunali spagnoli per reati di lotta di strada di quasi vent’anni fa.
Intanto si trova sempre in regime di isolamento nel carcere di Rebibbia. Noi ne parliamo con una dei suoi avvocati, Marialuisa D’Addabbo.Ascolta o scarica
La rete “un caso basco a Roma” invita nel frattempo ad inviare a Karlos telegrammi e lettere di solidarietà.
Per scrivere:
Carlos García Preciado
casa circondariale di Roma – Rebibbia
via Raffaele Majetti 70 00156
La 27ora
04 03 2015
Oggi è il primo anniversario della morte di Riccardo Magherini, deceduto nelle prime ore del 3 marzo 2014 a Firenze. I suoi familiari e gli amici lo ricorderanno a partire dalle 18 con una funzione religiosa e una fiaccolata a piazza Santo Spirito.
È l’1.20 della notte tra il 2 e il 3 marzo dello scorso anno. A seguito di ripetute segnalazioni circa un uomo che grida aiuto, i carabinieri arrivano a Borgo San Frediano.
Riccardo Magherini ha avuto un attacco di panico. Non è una cosa banale. Chi ne soffre sa di cosa si tratta.
Cosa lo abbia provocato resta oscuro. È a cena in un ristorante di San Frediano, poi si reca in un hotel di piazza Ognissanti. Chiama un taxi, ma qui si impaurisce e scende. Chiede un passaggio a un automobilista, dice che lo stanno inseguendo e vogliono sparargli. Qualcuno lo ha visto litigare con una persona su Ponte Vespucci. Il cellulare che si perde, un bossolo calibro nove di una pistola a salve che viene ritrovato qualche giorno dopo.
Un mese fa, il giudice dell’udienza preliminare del tribunale fiorentino ha accolto la richiesta del pubblico ministero responsabile delle indagini e ha disposto il rinvio a giudizio di sette persone, quattro carabinieri e tre operatori volontari della Croce rossa, con l’accusa di omicidio colposo.
Secondo il pm, Riccardo Magherini morì per arresto cardio-respiratorio e intossicazione acuta da cocaina “associata a un meccanismo asfittico”: i carabinieri intervenuti per eseguire il fermo avrebbero bloccato Magherini a terra premendo con forza eccessiva sulla regione scapolare e sulle gambe. Un’azione non necessaria, eseguita quando l’uomo era già immobilizzato e in manette. Uno dei quattro militari rinviati a giudizio è anche accusato di percosse, avendo in quel frangente preso a calci Riccardo Magherini.
Gli operatori sanitari giunsero 13 minuti dopo e, secondo l’accusa, non valutarono in modo corretto la situazione, non controllarono i parametri vitali e non aiutarono Riccardo Magherini a riprendere una normale respirazione.
Più volte, in quei momenti, Riccardo Magherini chiese aiuto e implorò ”Non ammazzatemi!“.
Il processo inizierà l’11 giugno.