Osservatorio Balcani e Caucaso
28 10 2014
A pochi mesi dalla commemorazione del centenario del genocidio del popolo armeno, in Europa diverse iniziative in campo politico e giudiziario si confrontano sul tema del negazionismo
È un crimine negare il genocidio armeno? Sì, secondo il parlamento greco, che il 9 settembre scorso ha approvato un disegno di legge che renderà illegale il disconoscimento di diversi genocidi, incluso quello subito a partire dal 1915 dagli armeni nell’allora Impero ottomano. Il nuovo provvedimento, che mira in aggiunta a inasprire le sanzioni per l'incitamento all'odio, alla discriminazione e agli atti di violenza, nonché il negazionismo dei crimini di guerra e di quelli contro l'umanità, è stato adottato dal parlamento in sessione estiva con una maggioranza di 54 voti a favore, 42 contrari e 3 astenuti.
Quanti violeranno la nuova legge potranno così essere puniti con un’ammenda di un massimo di 30.000 euro e con pena detentiva fino a tre anni di carcere. Inoltre, partiti e associazioni che sostengano apertamente il negazionismo o il razzismo – e qui il pensiero non può che andare ai neonazisti greci di Alba Dorata – vedranno sospesi i finanziamenti governativi per un periodo dagli uno ai sei mesi, e rischieranno multe fino a 100.000 euro.
2015: il centenario
L'incriminazione di quanti negano il genocidio armeno è stata accolta con grande favore in una Yerevan che si appresta a commemorarne l’anno prossimo il centenario, e segue analoghi provvedimenti intrapresi in precedenza dalla Svizzera e dalla Slovacchia. Da parte sua, la Francia – stando a quanto affermato dal presidente del gruppo socialista all'Assemblea nazionale Bruno Le Roux durante una recente visita in Armenia – potrebbe adottare da qui all’anno prossimo un analogo disegno di legge, dopo aver visto due anni or sono bocciare dalla propria Corte Costituzionale una norma atta a reprimere i fenomeni di negazionismo. Pur senza prevedere nella maggioranza dei casi sanzioni, è bene ricordare come sino ad oggi i parlamenti di 21 stati abbiano riconosciuto formalmente che quanto avvenuto a danno degli armeni negli anni della grande guerra debba essere definito genocidio.
Eppure, non si tratta solo di una questione morale e storica. In ballo ci sono anche alcuni importanti nodi della politica internazionale e gli interessi di diversi attori. E così sia la Turchia, erede di quell’Impero ottomano ormai in disfacimento che commise i crimini in questione, sia l’Azerbaijan, paese impegnato in un conflitto cosiddetto congelato con l’Armenia per il territorio del Nagorno Karabakh, si impegnano attivamente per scongiurare il riconoscimento del genocidio armeno da parte di diversi stati e organizzazioni. Per farlo, l’Azerbaijan e la Turchia sono più volte ricorsi a lobby e gruppi di pressione, con ingenti finanziamenti, e anche a pressioni diplomatiche molto forti, a testimonianza dell’importanza da loro attribuita alla questione.
Libertà di espressione e negazionismo
Oltre a ciò, il tema rientra in un problema legislativo più ampio e a tratti insidioso: quello del difficile bilanciamento tra l'esigenza di reprimere il negazionismo dei crimini di genocidio e il diritto alla libertà di espressione. Così, la Francia – che pur ha formalmente riconosciuto il genocidio armeno con la legge n. 70 del 29 gennaio 2001 – ha recentemente visto dichiarare da parte della Corte Costituzionale l'illegittimità degli artt. 1 e 2 della legge n. 647 del 23 gennaio 2012, che esplicitamente reprimevano la pubblica apologia, negazione o grossolana minimizzazione dei crimini di genocidio (fra cui si includeva quello armeno), dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra. La legge, proposta dalla deputata Valérie Boyer, che pur aveva ottenuto l’approvazione sia dall’Assemblea nazionale che dal Senato, veniva così respinta in quanto si riteneva rappresentasse “una violazione incostituzionale del diritto alla libertà di parola e di espressione”.
Sulla scorta di tale verdetto, e richiamandosi esplicitamente all’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dedicato appunto alla libertà d’espressione, anche la Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata il 17 dicembre scorso sulla questione. L’occasione è stata fornita dalla sentenza per il caso Perinçek contro Svizzera. Doğu Perinçek, presidente del Partito dei lavoratori della Turchia, invitato per una serie di conferenze in Svizzera, aveva negato pubblicamente l'esistenza del genocidio armeno, definendolo tra l'altro una “menzogna internazionale”. Affermazioni che avevano spinto l'Associazione Svizzera-Armenia a sporgere denuncia per razzismo, facendo appello all'articolo 261 bis del Codice penale svizzero. Nel marzo del 2007, Doğu Perinçek era stato condannato dal Tribunale di polizia di Losanna a una pena pecuniaria di 9.000 franchi, sospesa con la condizionale per due anni, più una multa di 3.000 franchi.
Il caso Perinçek a Strasburgo
Interpellata dallo stesso Perinçek, la Corte europea dei diritti umani ha però sconfessato i giudici elvetici, rimettendo in causa l'applicazione stessa della norma antirazzismo. Strasburgo ha ricordato che “il diritto di dibattere apertamente di questioni sensibili e suscettibili di non piacere è uno dei diritti fondamentali della libertà d’espressione”. Un diritto, prosegue la Corte, che “distingue una società democratica, tollerante e pluralista da un regime totalitario o dittatoriale”.
La sentenza, che rischia di rimettere in discussione la stessa norma elvetica che si oppone al negazionismo, ha suscitato le ire dell’Associazione Svizzera-Armenia, che si è detta “profondamente delusa e indignata”. Non è da escludersi, inoltre, che questa abbia un’influenza negativa sugli analoghi provvedimenti approvati da altri paesi europei, inibendo in aggiunta l’iniziativa di quanti possano volerne proporre in futuro. Data l’importanza della questione, l’Armenia ha richiesto e ottenuto di costituirsi parte civile, in seguito alla domanda della Svizzera di riesaminare il caso, accettata dalla Grande Camera della Corte europea.
La sentenza Perinçek contro Svizzera risulta di particolare interesse, in quanto la soluzione si discosta nettamente da quella del processo Francia contro Garaudy del 2003, nella quale la stessa Corte europea dei diritti umani aveva affermato la legittimità dell'incriminazione della negazione dell’olocausto del popolo ebraico. Si può forse stabilire una gerarchia fra i due maggiori genocidi del XX secolo, applicandovi soluzioni così diverse? Si tratta di un terreno evidentemente impervio, nel quale la politica rischia di giocare un ruolo determinante.
Internazionale
14 10 2014
È partita il 13 ottobre l’operazione Mos maiorum (letteralmente “costume degli antenati”) voluta dai 25 paesi europei dell’area Schengen per combattere l’immigrazione clandestina. Ventimila poliziotti saranno impegnati fino al 26 ottobre a identificare, fermare ed espellere decine di migliaia di immigrati irregolari.
Gli agenti saranno concentrati nei luoghi di frontiera, stazioni, depositi di autobus e autostrade in tutta Europa alla ricerca di migranti privi di regolare permesso di soggiorno.
Secondo il Consiglio dell’Unione europea l’operazione è finalizzata a combattere la tratta di esseri umani e a raccogliere informazioni sulle rotte dei trafficanti, ma alcune associazioni in difesa dei diritti umani la ritengono disumana. L’operazione è oggetto di critiche da parte delle organizzazioni in difesa dei migranti: “Alimenta il fantasma di un’invasione criminale in Europa e utilizza Frontex (l’agenzia incaricata del coordinamento della sicurezza delle frontiere esterne dell’Ue) per condurre una politica discriminatoria e per violare i diritti dei migranti e dei rifugiati”, ha denunciato l’organizzazione Frontex exit. Secondo la fondazione tedesca non profit ProAsyl i migranti sono in gran parte persone in fuga da paesi pericolosi e in cerca di sicurezza e condizioni di vita più umane. “Mos maiorum è di atto un’operazione contro i rifugiati”, denuncia il direttore Karl Kopp.
Non esistono dati ufficiali sui migranti irregolari presenti in Europa, ma si stima che siano tra i 150mila e i 450mila. Secondo i piani di Mos maiorum gli immigrati irregolari saranno trasferiti nei loro paesi di provenienza se questi hanno firmato la convenzione di riammissione con l’Ue. In caso contrario, saranno trattenuti per un periodo variabile a seconda dei paesi o lasciati in libertà con un avviso di espulsione.
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10 10 2014
La rivolta populista, anti immigrati ed anti-europea di Nigel Farage non si ferma. Anzi: a un anno dalle elezioni generali lo UK indipendence party riesce nel risultato storico di portare un parlamentare alla Camera dei Comuni e incalza da vicino conservatori e laburisti nei loro bastioni.
“La gente vuole cambiare e si interessa all'Ukip e al primo ministro capita di usare spesso un linguaggio da Ukip”. A parlare è Douglas Carwell, già parlamentare conservatore che ha scelto di lasciare il partito, dimettersi e farsi rieleggere con la formazione di Nigel Farage. La scelta ha determinato la necessità di tornare al voto nel suo collegio (nel Regno Unito funziona così) producendo la enorme novità di un parlamentare eletto in Inghilterra che non appartiene a nessuna delle due grandi famiglie e mezzo (Conservatori, laburisti e Liberal-democratici) che occupano i banchi di Westminster.
A oggi ai Comuni siedono indipendentisti scozzesi e gallesi, rappresentanti del Nord Irlanda, ma nessun inglese che venga da un partito diverso. Si tratta di una notizia dirompente? Probabilmente si: da oggi l'Ukip avrà uno stage nazionale e potrà intervenire nel dibattito politico da dentro le istituzioni. E siccome ha dimostrato di avere una notevole forze elettorale potenziale alle europee, che si svolgono con un sistema elettorale diverso, si aprono scenari complicati.
I conservatori si troveranno incalzati a destra, costringendo il premier Cameron ad adottare un tono del discorso più radicale specie su Europa e immigrazione. La defezione del deputato Carwell segnala un vero smottamento: il rieletto parlamentare del distretto di Clacton non è un estremista anti-immigrati, ma piuttosto uno che spiega la propria scelta con l'idea che l'Ukip rappresenti il partito del cambiamento: "E' come Uber che mette in discussione il monopolio dei taxi troppo cari, noi lavoriamo per i cittadini per fare avere loro un'offerta migliore e gli interessi costituiti criticano l'Ukip rappresentandolo per come non è". Niente toni eccessivi nella campagna elettorale condotta in Essex, anzi, la necessità di spiegare agli elettori che la rivolta guidata da Farage è tutto sommato moderata ed è, soprattutto, anti-establishement. Farage, che siede nello stesso gruppo dell'M5s di Grillo all'europarlamento, è bonario e ridanciano, non truce e cupo come altri leader anti-immigrati.
La verità non è proprio questa, il partito di Farage e molti dei suoi esponenti si sono spesso lasciati andare a toni eccessivi e irrispettosi parlando di immigrati, omosessuali e dell'Europa in generale. Ma tant'è, la loro capacità di non essere visti come estremisti di destra li rende appetibili per un elettorato conservatore in fuga.
Cosa cambia per lo scenario politico nazionale? Molto. Ieri l'Ukip non ha solo vinto a Clacton ma è arrivato secondo per poche centinaia di voti in un altra elezione suppletiva a Manchester, nel nord inglese che è uno dei bastioni del Labour. Alle ultime elezioni avevano vinto per seimila voti. I laburisti hanno perso anche loro una percentuale piuttosto alta a destra. E i Liberaldemocratici di Clegg, che hanno compiuto la scelta suicida di entrare in coalizione con Cameron sembrano scomparsi dalla mappa elettorale - ma mantengono probabilmente dei bastioni nei quali continueranno ad eleggere qualche parlamentare o, comunque a condizionare il risultato del voto con le loro percentuali.
Datablog, il blog di dati di The Guardian riporta i calcoli fatti dalla Fabian Society segnalando come l'aumento percentuale dell'Ukip sia tale da renderlo competitivo in un numero che oscilla tra i 13 e i 35 seggi e possa rimettere in ballo o condizionare potenzialmente il risultato nei 200 seggi marginali di Westminster (i seggi dove lo scarto tra il vincitore e il secondo è inferiore ai 20 punti). La tabella qui sotto mostra i numeri: nella prima colonna i seggi a rischio per i Tories, nella seconda quelli a rischio per il Labour e nella terza quella dove l'UKip non dovrebbe recare danno a nessuno.
Il 2015 si presenta quindi potenzialmente come la prima campagna multipartitica britannica: non solo corrono con buone potenzialità i tre partiti principali, ma l'Ukip (e anche lo Scottish National Party in Scozia) possono scombinare le carte non poco. Persino i Verdi viaggiano su intenzioni di voto intorno al 5-6%, che significa la quasi impossibilità di entrare in parlamento ma un peso tale da poter far perdere seggi ai Laburisti e ai Lib-dem. Già la formazione del governo cameron in coalizione con Clegg rappresentava una piccola rivoluzione nella ingessata politica britannica. Il prossimo anno scopriremo se la Old England demolita prima da Thatcher e poi da Blair è finita anche in politica. L'aula di Westminster è divisa in due perché prevede una maggioranza e una opposizione che si confrontano una di fronte all'altra. Dal 2015 i britannici potrebbero avere bisogno di un aula circolare.