Il Fatto Quotidiano
05 09 2013
L’Italia è tra i Paesi con il più alto tasso di discriminazione in Europa in termini di politiche dei diritti Lgbt, ma è anche quello che rileva il maggiore aumento di tolleranza nei confronti degli omosessuali. In merito al primo aspetto, a sostenerlo è Europe Annual Review 2013, l’ultimo studio dell’associazione Ilga Europe, che su 49 Paesi presi in analisi riserva all’Italia il 36esimo posto.
La classifica misura la tolleranza dei Paesi combinando variabili che rientrano in sei categorie: eguaglianza, famiglia, leggi contro i reati a sfondo omofobico, libertà di espressione e associazione, diritto di asilo.
Ai primi posti appaiono Regno Unito (77%), Belgio (67%) e Norvegia (66%), mentre l’Italia, al 19%, si posiziona tra Bosnia (20%) e Bulgaria (18%) e a soli 5 punti al di sopra della Turchia (14%).
Per spiegare il punteggio del nostro Paese, l’associazione riporta numerosi episodi e rilevamenti. Tra questi anche lo studio della Fondazione Rodolfo De Benedetti, che indaga la discriminazione in ambito lavorativo e dimostra, ad esempio, come un gay dichiarato abbia il 30% in meno delle possibilità di essere assunto rispetto a chi, a parità di curriculum, nasconde la sua omosessualità. Oppure il caso di Andrea, lo studente romano di quindici anni che lo scorso novembre si è tolto la vita a seguito delle vessazioni subite per il proprio orientamento sessuale.
Ma se nei fatti il Paese fatica a cambiare, è l’opinione pubblica che sembra muoversi più rapidamente.
L’ultima ricerca del Pew Research Center (“The Global Divide on Homosexuality”) ha chiesto attraverso un sondaggio in 39 paesi del mondo quanto l’omosessualità debba essere accettata e l’Italia, sebbene non appaia tra i paesi più accoglienti, è quello il cui tasso di tolleranza cresce più rapidamente tra i nove analizzati in Europa.
Per il Pew Research Center nel nostro Paese persiste una larga fetta di popolazione apertamente anti-gay (in Italia il 18% ha dichiarato l’omosessualità inaccettabile, contro l’11% di Spagna e Germania). Tuttavia, in sei anni la popolazione tollerante è passata dal 65% del 2007 al 74% del 2013. Una crescita del 9% che porta l’opinione pubblica italiana a essere quella che in Europa vive il cambiamento più rapido, e siamo quarti nel mondo dopo Corea del Sud (+21%), Stati Uniti (+11%) e Canada (+10%). Record negativo invece per Francia (-6%), Palestina (-5%), Turchia (-5%) e Russia (-4%).
Analizzando l’età degli intervistati emergono differenze sostanziali, con i giovani generalmente più tolleranti di adulti e anziani.
Gli italiani dai 18 ai 29 anni che accettano l’omosessualità sono l’86%, in terza posizione dopo Spagna (90%) e Germania (87%). Diversa la situazione tra gli adulti dai 30 ai 49 anni, che portano l’Italia al quinto posto con l’80%. Peggio ancora gli ultra-cinquantenni italiani, col 67% (sesto posto in Europa).
Per quanto riguarda la situazione interna all’Italia, infine, rimane considerevole la differenza tra Sud e Centro-Nord. Nelle regioni meridionali del Paese, secondo gli ultimi dati Istat, meno della metà della popolazione dai 18 ai 74 anni ritiene accettabile una relazione affettiva tra persone dello stesso sesso (49,2%), mentre nelle regioni centro-settentrionali ad accettarla è il 65,4%.
Jacopo Ottaviani
Huffington Post
01 08 2013
Articolo originariamente apparso sulla rivista letteraria statunitense Warscapes
L'escalation senza fine degli attacchi al ministro Cécile Kyenge comincia ad avere dei contorni profondamente inquietanti, ad una prima profonda indignazione bisogna far seguito con un'analisi più ampia e senza compromessi.
Prima constatazione da cui partire: l'Italia semplicemente non ha un linguaggio per parlare di diversità. Parole come "negro" e "mulatto" sono costantemente usate dagli italiani in riferimento a persone nere o bi-razziali e non per una conoscenza dell'etimologia delle parole, ma perché le implicazioni sociali e storiche sono semplicemente ignorate, considerate aliene alla storia italiana.
Il legame tra identità culturali e personali nel contesto post-coloniale non è mai fatto. In questo senso la persistente negazione della violenza sulle colonie africane trova una continuità negli ultimi episodi razzisti contro il ministro Kyenge.
In una conversazione pubblicata l'anno scorso tra le scrittrici Nadifa Mohamed and Maaza Mengiste, i cui lavori roteano intorno alla storia del colonialismo italiano in Somalia e Eritrea, queste domande vengono a galla con eloquenza quando le scrittrici descrivono come gli italiani hanno risposto ai loro libri, "ci sono stati due tipi di reazioni comuni: la prima è arrivata dagli italiani più progressisti, in genere più giovani o con un interesse specifico per l'Africa che volevano essere critici verso l'occupazione italiana dell'Africa orientale e che conoscevano già da soli la natura del colonialismo," dice Mohamed. "La seconda era una specie di sguardo vuoto, confuso e davvero incapace di associare ciò che stavo dicendo e scrivendo con ciò che avevano sentito a scuola e a casa. Un ritornello frequente era che "eravamo brava gente; non eravamo razzisti come quelli del nord Europa".
Mengiste aggiunge "L'epoca delle colonie è un brutto promemoria dell'accondiscendenza generalizzata italiana quando si parla di responsabilità storiche, quello che ho sentito ripetere da molti italiani con vuota convinzione è l'idea che loro siano stati "buoni colonialisti."
Continuando ad etichettare migranti o le persone con la pelle più scura con parole di disprezzo anche senza saperlo, gli italiani continuano una lunga storia di negazione della brutalità del passato coloniale - diventato nel corso degli anni una sorta di "colonialismo buono" come sottolinea la Mengiste; parte di una più ampia invenzione dello stereotipato "italiani brava gente". Infatti questa idea è così presente che quasi tutti i principali media nel raccontare le tristi vicende contro il ministro Kyenge sono riusciti in un modo o nell'altro a confermarne lo stereotipo, questo soprattutto nel mondo anglosassone dove i gravi episodi degli ultimi giorni sono stati ridotti ad un grossolano discorso sull'endemico conformismo italiano con improbabili metafore sulla pizza.
L'aspetto spiazzante degli eventi razzisti nei confronti del Ministro Kyenge è stato la totale assenza di una cornice storico-culturale, spesso anche tra chi lo ha condannato. L'analogia nero-animale nella coscienza italiana ha una radice dolorosa e profonda. Come Flora Bertizzolo e Silvia Pietrantonio rivelano nel loro studio sul colonialismo italiano: "l'iconografia popolare dei 'nativi' fatta circolare dalle foto pubblicate dalla Domenica del Corriere, mostra gli africani in uniformi bianche come autisti, baristi, o camerieri al fianco della famiglia per cui lavoravano, e per lo scopo comico, come caricatura divertente, l'immagine era di una maschera d'animale travestito da essere umano."
Un problema europeo?
É cruciale capire il razzismo italiano nel contesto più ampio della malattia razziale che attanaglia l'Europa. Nella stessa settimana in cui il ministro Kyenge si trova a dover combattere con l'a-storicismo italiano, in Inghilterra il governo fa girare una serie di camion nelle strade di Londra con un inquietante scritta "vai a casa o sarai arrestato". A Parigi a giugno una donna incinta che indossava il niqab è stata assalita ed ha perso il bambino. Appena un mese dopo ci sono stati una serie di scontri quando un'altra donna è stata arrestata per non aver rispettato la legge che proibisce il niqab.
In Europa l'islamofobia e sentimenti contro l'immigrazione non sono solo comuni ma come nel caso dei camion londinesi, pericolosamente ed apertamente accettati come un'arma politica. Il razzismo istituzionale è diventato parte di una nuova lingua di violenza e divisione. Se in Italia siamo testimoni di una profonda afasia, nel resto d'Europa il razzismo sembra essere parte di una più ampia cornice istituzionale che punta ad una politica dell'esclusione o di forzata assimilazione.
La professoressa Kali Nicole Gross, direttrice del programma sulla Diaspora Africana all'università del Texas, mi ha posto una domanda che credo sia centrale nel cercare di capire questi ultimi episodi. "Mi colpisce come queste immagini/atti siano transnazionali, molti dei comportamenti e delle azioni mi ricordano il razzismo bigotto che abbiamo qui negli Stati Uniti sia dal punto di vista storico che da quello attuale.
Prima attribuivo lo stile e l'approccio alla storia dello schiavismo negli Stati Uniti, ma il tuo articolo mi fa pensare non solo al colonialismo ma alla globalizzazione e al ruolo che hanno il razzismo e l'oppressione dell' "altro" in questo contesto. Le immagini e le tattiche sono simili, rientrano in una rubrica globale dell'essere neri."
L'Europa è bloccata in un dilemma costante: definire il suo spazio d'azione sulla base del concetto di opposizione. L'inclusione non è parte della conversazione. Dalle leggi francesi ai camion inglesi fino alle paure italiane una cosa sembra centrale: lo sforzo di produrre una sottocultura della distinzione e, di conseguenza, aggrapparsi ad una vuota neo-mitologia dell'Europa. Nei migliori dei casi l'Europa sembra sperare in un mondo post-razziale invece di riceverne la complessa ricchezza e diversità come parte di un nuovo continente.
Fino a che punto l'Europa sta affondando in scorciatoie istituzionali e nozioni pre-concepite dell' "altro" che rinforzano direttamente una rubrica globale dell'essere nero? Ed ancora, fino a che punto il razzismo non è semplicemente un problema locale ma al contrario un mezzo per la costruzione di una nuova ed impoverita identità europea?
È venuto il tempo di costruire un nuovo senso critico, che non cada nelle trappole dell'invisibilità della storia o l'emergenza di un razzismo istituzionale. Suggerisco un puro accanimento nel confrontarsi con episodi di violenza razziale e volgare disparità. C'è bisogno di una nuova era della curiosità come il più semplice dei veicoli per andare oltre una cultura dell'esclusione o dell'accettazione passiva del dolore degli altri. Come la scrittrice Bell Hooks dice "tutti i silenzi intorno agli assalti razzisti sono atti di complicità". È essenziale andare oltre la pericolosissima nozione che ci sia una differenza tra razzismo e tolleranza del razzismo.
Flavio Rizzo
L'Unità
31 07 2013
La violenza che si aggira in Europa contro i migranti, è a volte pudicamente spostata ai suoi margini.
Nei centri di detenzione illegali, nelle jungles di transito sulle rotte migratorie. Calais, Patras, Oujda: sottoboschi di campi informali, dove uomini si nascondono tra i cespugli e i rifiuti, in attesa di varcare l’ennesima barriera. Decine di kilometri di recinzioni parallele, sormontate da filo spinato, reti sulle quali gettarsi e scalare veloci, per poi venir ripresi, picchiati e massacrati di botte da poliziotti di frontiera: nuove milizie bianche della fortezza, dove si gioca l’antico ma mai così attuale conflitto tra l’umano e il disumano.
Dopo i riflettori sulla strage dell’settembre-ottobre 2005, dove la polizia aveva sparato sugli “assalitori” facendo ufficialmente 6 morti (ma molto di più secondo le associazioni) e decine di feriti tra i migranti sub sahariani, l’enclave spagnola di Ceuta-Melilla era ricaduta nel silenzio, mentre in realtà sono raddoppiate le violenze poliziesche. E mietono vittime.
Come Clément, un cittadino camerunese che era stato arrestato, pestato l’11 marzo scorso e che muore in diretta, ripreso dalle cinepresa della regista Sara Creta che documentava nella foresta Gourougou (nei pressi di Beni Enssar), la repressione congiunta della Gardia Civil spagnola e delle forze ausiliarie marocchine. Ne è nato il documentario “N°9” – come il numero stampato sulla maglia di Clément -, che potete vedere su youtube e la campagna “No more violence on borders”.
Dopo i pestaggi, abbandonati senza cibo né soccorso i migranti, per la maggioranza, sub sahariani denunciano: “Come possono le grandi nazioni guardarci morire in silenzio? La Spagna sa che qui ci sono i neri che muoiono e non fanno niente, anche i giornalisti, vengono, fanno qualche foto, ma non cambia niente e nessuno ci assiste”. Ma non c’è solo Ceuta e Melilla, la prassi sistematica dei respingimenti di massa da parte della Grecia verso la Turchia e gli abusi sulla frontiera dell’Evros e in mare Egeo, è risaputa e documentata da un recente rapporto di Amnesty, senza dimenticare che nonostante la sentenza della Corte europea dei diritti umani, l’Italia prosegue i respingimenti e rimpatri da Ancona ad Agrigento.
Il razzismo istituzionale europeo è stato reso confine – “muro” tangibile di violazioni, sulla pelle degli “altri”, neri. Sulla frontiera, dietro l’eufemismo del “controllo delle frontiere dell’UE”, si sta sviluppando un grumo nero di pratiche invisibili di sopraffazione su altri uomini, deportazioni in mezzo al deserto, abusi, maltrattamenti: torture.
Una vera e propria “sparizione organizzata” – dal 1988 sono circa 19mila le persone disperse o il cui corpo e’ stato ritrovato privo di vita per raggiungere l’Europa – frutto di specifiche scelte politiche. Ma non potremmo illuderci a lungo che quei migranti muoiano “a caso” mentre sono passivamente lasciati “sparire” in mare o pestati a morte, proprio perché migranti. Se non paragonabile ai crimini contro l’umanità perpetrati dal nazi-fascismo, questa complice passività nostra di fronte alla sospensione dello stato di diritto per certe categorie, è molto inquietante, perché è il substrato sul quale si sviluppa un lento accetare il disumano in forma anti-migranti come “normale”.
Johan Galtung in un recente articolo “Reinvenzione del fascismo” (Transcend Media Service), scriveva che il fascismo non è solo riconducibile a quello avverato storicamente, ma una “visione della guerra come un’attività ordinario dello stato”, una “profonda contrapposizione contro un nemico omnipresente”, e la costruzione di un “dualismo”. Questa definizione non si adatterebbe perfettamente a descrivere la paranoia istituzionalizzata contro presunti “nemici” da arginare in una guerra permanente della “sicurezza” che prende le varie forme di leggi speciali, detenzioni illegali, respingimenti, torture?
Nel laboratorio-frontiera di violazioni di diritti umani. Sembra una cosa marginale ma in realtà scava nel cuore del continente un fascismo nuovo, della “Frontiera”. Che non può non aver repercussioni, anche interne.
Flore Murard-Yovanovitch
Il Manifesto
22 02 2013
Superata la soglia del milione di firme per l'iniziativa dei cittadini europei. Nella sola Germania raccolte 900 mila adesioni, ma l'Italia è a 25 mila, lontana dalla soglia minima
L'Iniziativa dei cittadini europei (Ice) sull'acqua pubblica - presentata alcuni mesi fa dal sindacato europeo dei servizi pubblici (Epsu) - è in dirittura d'arrivo. È stata infatti superata la soglia di un milione e 100 mila firme raccolte in Europa. Ma l'Ice non è ancora valida, in quanto la maggior parte delle firme, più di 900 mila, sono state raccolte nella sola Germania ed è necessario, oltre a raccogliere almeno un milione di firme, superare soglie minime, rapportate alla popolazione di ciascun Paese, in almeno sette Paesi europei. Finora questa soglia è stata passata in Germania, Austria e Belgio, mentre mancano a quest'appuntamento gli altri Paesi, compreso il nostro. In Italia finora sono state raccolte circa 25 mila firme complessivamente, sommando sia quelle on-line che le cartacee, e ci manca ancora un buon pezzo di strada per arrivare alla nostra soglia minima, fissata in 55 mila adesioni e, ancor più, alle 130 mila che abbiamo individuato come nostro obiettivo per contribuire al risultato da raggiungere in Europa.
Abbiamo ancora tempo davanti a noi, perché si può firmare fino alla fine del mese di ottobre: ciò non toglie che occorre dare una svolta al nostro impegno, mettersi alle spalle una certa sottovalutazione che abbiamo avuto rispetto a quest'iniziativa e alla sua efficacia e darsi il traguardo, più che ragionevole, di arrivare a passare le 55 mila firme, primo nostro obiettivo, entro la fine del mese di marzo. Sarebbe un bel modo di festeggiare la Giornata mondiale dell'acqua, che, come tutti gli anni, si svolgerà il 22 marzo.
Un bene comune continentale
Il primo punto di valore dell'iniziativa dell'Ice per l'acqua pubblica in Europa sta - insieme agli effetti concreti che essa può produrre - nel fatto che con essa si può cominciare a costruire un vero movimento per l'acqua pubblica su base continentale. In Europa, infatti, negli ultimi anni ci sono state molte iniziative attorno all'idea che l'acqua sia un bene comune da sottrarre alle logiche del mercato e che la gestione del servizio idrico debba rimanere in mano pubblica: basta pensare alla vittoria referendaria nel nostro Paese nel giugno 2011, alla ripubblicizzazione del servizio idrico a Parigi nel 2010 o ai referendum svoltosi a Berlino nel 2011 e a quello autogestito di Madrid del 2012, entrambi in direzione della ripubblicizzazione del servizio idrico. Ma non c'è dubbio che si avverte la mancanza di un soggetto unitario, capace di mettere insieme tutte le realtà che lavorano per l'acqua pubblica e in grado di farsi portatore di queste istanze nei confronti delle istituzioni e degli organi di governo dell'Unione europea, in un quadro in cui - soprattutto da parte di questi ultimi - continuano ad essere forti le intenzioni di privatizzazione dei servizi pubblici, e anche di quello idrico. Ebbene, la buona riuscita dell'Ice, a partire dal fatto di raccogliere ben di più del milione di firme necessarie, significa anche costruire le gambe per costruire effettivamente la "Rete europea dei movimenti per l'acqua", ipotesi avanzata già da tempo e a più riprese (da ultimo a Firenze nel novembre scorso), ma che finora è stata più confinata nel campo delle buone intenzioni che in quello della realizzazione concreta. Penso alla Rete europea dei movimenti per l'acqua come ad un luogo reale di discussione, ma anche di iniziativa e mobilitazione che abbia come orizzonte la possibilità di produrre un'inversione di tendenza nelle politiche europee sull'acqua e sul servizio idrico, anche in termini paradigmatici rispetto all'insieme dei servizi pubblici. Da questo punto di vista, fa ben sperare il grande successo che ha avuto la raccolta delle firme sull'Ice per l'acqua pubblica in Germania e in Austria: come ci raccontavano i sindacalisti tedeschi alcuni giorni fa, lì la raccolta delle firme è stata sul serio il prodotto di una mobilitazione popolare, che è andata al di là della stessa iniziativa sindacale, e ha coinvolto un gran numero di organizzazioni e associazioni, nonché l'attivazione di forze ed energie presenti nella società. Un po', insomma, com'è stato per i referendum del 2011 qui da noi.
Il modello sociale europeo
Ci sono poi almeno altre due questioni rilevanti che l'iniziativa dell'Ice sull'acqua pubblica evoca. La prima si riferisce al tema per cui parlare di acqua pubblica significa parlare del modello sociale europeo, contribuire a mettere in campo un'idea alternativa alle politiche recessive e liberiste che hanno dominato gli orientamenti dell'Unione europea a trazione tedesca che abbiamo conosciuto negli ultimi anni. Si fa un gran parlare, anche nella campagna elettorale nel nostro Paese, di quella che sarebbe una distinzione fondamentale delle forze in campo tra europeisti e populisti, ma ci si dimentica troppo facilmente che, anche in Europa, dentro la crisi, è in corso una scontro tra chi propone le ricette liberiste, basate su un'inesistente capacità autoregolatoria del mercato, e chi avanza una prospettiva per cui definanziarizzazione dell'economia e affermazione dei beni comuni, dei diritti sociali e del lavoro costituiscono gli assi di riferimento per confermare e aggiornare il modello sociale europeo. La battaglia per l'acqua bene comune e per la gestione pubblica del servizio idrico si inscrive in questo secondo campo e può dare un impulso significativo a farlo avanzare, anche innovandone i contenuti. L'altro tema è quello della democrazia: per quanto imperfetto, lo strumento dell'Ice è l'unico attualmente esistente che può far sentire direttamente la voce dei lavoratori e dei cittadini in Europa, che consente la promozione di un'iniziativa "dal basso" in una realtà - quella europea - in cui, per usare un eufemismo, c'è un grave problema di legittimazione democratica delle scelte che vengono prese dagli organi di governo dell'Unione europea. Anche da questo punto di vista, non si può non vedere come la questione della democrazia, e di sue forme nuove e più avanzate, si lega strettamente ed è parte essenziale di un progetto che vuole sconfiggere le impostazioni neoliberiste e costruire un'idea alternativa di Europa per uscire dalla crisi in cui queste ultime l'hanno cacciata.
Il referendum annacquato
Infine, non mi è possibile chiudere queste brevi riflessioni senza accennare ad altre due questioni assolutamente rilevanti e che hanno a che fare anche con la raccolta delle firme per l'Ice sull'acqua pubblica. Intanto, continua ad essere molto aspro lo scontro nel nostro Paese relativamente al rispetto dell'esito referendario sull'acqua pubblica del giugno 2011. Siamo in presenza di un nuovo pesante attacco, che vorrebbe completamente stravolgere il secondo referendum sull'acqua, quello che ha abrogato la possibilità di far profitti sul servizio idrico, proveniente dall'Authority dell'energia elettrica e del gas, che, con l'approvazione del nuovo metodo tariffario, rende evidente il fatto di essere sostanzialmente portatrice degli interessi dei soggetti gestori (del resto, sono loro che ne finanziano il funzionamento!). È evidente che questa questione non riguarda solo il movimento per l'acqua, ma investe tutto quell'ampio schieramento sociale e politico che ha sostenuto i referendum del 2011, così come è chiaro che un forte risultato di raccolta delle firme per l'Ice nel nostro Paese significa, anche per questa via, riaffermare che la volontà popolare non può essere messa in discussione.
Un sindacato transnazionale
Da ultimo, una buona riuscita della raccolta delle firme per l'Ice significa anche rafforzare un processo per cui il movimento sindacale possa iniziare a pensarsi e a lavorare come reale soggetto sovranazionale e in grado di intervenire realmente nella dimensione europea. Dopo l'iniziativa del sindacato europeo del 14 novembre scorso contro le politiche di austerità, che ha visto una mobilitazione comune e diffusa nei vari Paesi europei, c'è bisogno di compiere un ulteriore salto di qualità e la costruzione di iniziative comuni e di dimensione europea, com'è l'Ice promossa dal sindacato europeo dei servizi pubblici, può essere un ulteriore utile passo avanti in quella direzione.
Insomma, ci sono tante buone ragioni per sostenere e firmare l'Ice per l'acqua pubblica: facciamolo rapidamente e moltiplichiamo l'impegno per raggiungere anche in Italia il risultato che ci siamo prefissi.
* Fp-Cgil nazionale