Israele: la follia è nel metodo

  • Sabato, 16 Dicembre 2017 11:38 ,
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Bansky Betlemme PalestinaSarantis Thanopulos, Il Manifesto
16 dicembre 2017

La decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele è folle. La affermazione di Netanyahu che la città è la capitale di Israele da tremila anni altrettanto. In entrambi i casi c'è del metodo nel disegno che il folle persegue con ostinazione.

Yshlay Schlissel è un ebreo ultra-ortodosso e da sempre nutre un odio profondo per i gay, da lui definiti "abominio" della razza umana. Nel 2005 [...] li aveva assaliti accoltellandone cinque.  
Alberto Flores D'Arcais, la Repubblica ...

Si intensificano le demolizioni di case palestinesi

  • Martedì, 12 Maggio 2015 14:12 ,
  • Pubblicato in IL MANIFESTO
Il Manifesto
11 05 2015

Il premier israe­liano costrui­sce e demo­li­sce. Mat­tone su mat­tone edi­fica il suo governo – nelle pros­sime ore pre­sen­terà la lista dei mini­stri e chie­derà la fidu­cia alla Knes­set – e allo stesso tempo non accenna a fer­mare le poli­ti­che di distru­zioni delle case pale­sti­nesi, “ille­gali” per la legge israe­liana. Gli ultimi giorni sono stati dram­ma­tici sotto que­sto aspetto. Susia, Ara­qib, Umm el Hiran, Semi­ra­mis, i nomi dei cen­tri arabi dove sono avve­nute o avver­ranno pre­sto le demo­li­zioni. A Semi­ra­mis, tra Geru­sa­lemme e Ramal­lah, secondo la deci­sione di una corte israe­liana, saranno abbat­tuti otto edi­fici, per­ché sareb­bero stati costruiti su terre appar­te­nenti a israe­liani sin dal 1971. E coloro che vi hanno abi­tato finora, 107 per­sone in 23 appar­ta­menti, dovranno anche pagare un’ammenda di 11 mila euro.

Gli abi­tanti non si arren­dono e ripe­tono che la terra dove sono stati costruiti gli edi­fici è stata acqui­stata 13 anni fa da un gruppo di pale­sti­nesi. Una multa altis­sima, due milioni di she­kel (mezzo milione di dol­lari), dovranno pagare invece le fami­glie beduine di al Ara­qib, a ridosso del deserto del Neghev, col­pe­voli di aver rico­struito il loro vil­lag­gio per 83 volte dopo altret­tante demo­li­zioni ese­guite dalle auto­rità. L’espulsione attende inol­tre le fami­glie di Susya, un vil­lag­gio pove­ris­simo a sud di Hebron: la Corte Suprema israe­liana ha sen­ten­zianto la legit­ti­mità della demo­li­zione delle loro misere abitazioni.

Il caso che più di altri suscita sde­gno tra i pale­sti­nesi è quello di Umm el Hiran, sem­pre nel Neghev, una delle vit­time del Piano Pra­wer che pre­vede il tra­sfe­ri­mento, anche con la forza, di 70 mila beduini con cit­ta­di­nanza israe­liana. Per diverso tempo ave­vano cul­lato qual­che spe­ranza i 700 abi­tanti di que­sto vil­lag­gio mai rico­no­sciuto dalle auto­rità. Poi la scorsa set­ti­mana, con il giu­di­zio di due a favore e uno con­tro, l’Alta Corte di Giu­sti­zia, ha con­va­li­dato gli ordini di sgom­bero con­tro Umm el-Hiran e dato il via libera alle espul­sioni. Una sen­tenza incom­pren­si­bile per­ché gli abi­tanti non erano accu­sati di essere squat­ter e di avere “occu­pato ille­gal­mente” terre pri­vate o dema­niali. Il governo mili­tare israe­liano infatti li aveva tra­sfe­riti lì nel 1956 dopo averli costretti a lasciare Khir­bet Zuba­leh nel 1948. Quindi non c’era nulla di ille­gale nella pre­senza degli abi­tanti del vil­lag­gio che il governo intende por­tare a Hura, per fare posto alla nuova cit­ta­dina ebraica di Hiran. Sarà distrutto anche Atir per per­met­tere l’espansione del bosco di Yatir. In attesa di “suben­trare” ai beduini ci sono decine di fami­glie israe­liane al momento accam­pate in una zona non lon­tana. A loro le auto­rità hanno prov­ve­duto subito a for­nire elet­tri­cità e acqua men­tre agli abi­tanti di Umm el-Hiran que­sti ser­vizi essen­ziali sono stati negati per decenni. A nulla è ser­vito il parere dis­sen­ziente della giu­dice Daphne Barak-Erez che aveva pro­po­sto ai suoi col­le­ghi di sen­ten­ziare il diritto dei beduini a vivere nella nuova città di Hiran. «La sen­tenza – ha com­men­tato con ama­rezza Amjad Iraq, l’avvocato della ong Ada­lah che ha seguito il caso di Umm el Hiran — ha dimo­strato ancora una volta che l’Alta Corte è più inte­res­sata a pro­teg­gere le poli­ti­che e il carat­tere dello “Stato ebraico” di Israele che i prin­cipi della demo­cra­zia e della giustizia».

Il fatto che un vil­lag­gio arabo all’interno di Israele possa essere demo­lito con la stessa faci­lità di uno nei Ter­ri­tori Occu­pati, raf­forza il timore tra i cit­ta­dini pale­sti­nesi d’Israele sulla pos­si­bi­lità di difen­dere i loro diritti col­let­tivi attra­verso il sistema legale. Appena qual­che giorno fa erano scesi in piazza a Tel Aviv almeno due­mila pale­sti­nesi d’Israele, per pro­te­stare con­tro la demo­li­zione delle case “ille­gali” (circa 50 mila) nei vil­laggi a mag­gio­ranza araba in Israele e per la sem­pre minore dispo­ni­bi­lità di alloggi per la mino­ranza araba. Ada­lah denun­cia la scar­sità di inve­sti­menti edi­lizi nelle zone arabe di Israele, solo il 4,6 per cento delle nuove abi­ta­zioni. Nel 2014 nelle comu­nità ebrai­che sono stati costruiti 38.261 alloggi con­tro i 1.844 rea­liz­zati in quelle palestinesi.

Non vanno certo meglio le cose nei Ter­ri­tori occu­pati. Nel 2014, secondo i dati di Ocha, l’ufficio di coor­di­na­mento dell’Onu degli affari uma­ni­tari, quasi 1.200 pale­sti­nesi hanno visto demo­lite le pro­prie case da parte dei bull­do­zer: 969 in Cisgior­da­nia e di 208 a Geru­sa­lemme Est. E nel frat­tempo sono state appro­vate le costru­zioni di altre 900 case nella colo­nia ebraica di Ramat Shlomo, nella zona araba occu­pata della città santa.

Michele Giorgio

 

Out of the blue? La faccia crudele di Gerusalemme

  • Martedì, 08 Luglio 2014 08:05 ,
  • Pubblicato in Flash news

Osservatorio Iraq
08 07 2014

Mentre aumenta il numero delle vittime colpite dal raid israeliano della notte scorsa su Gaza, e in Cisgiordania proseguono gli scontri, la blogger Paola Caridi accende un riflettore su Gerusalemme. E ci spiega perché è esplosa, e perché adesso.


L’avevano messa nel cassetto. Tutti quanti. Nelle cancellerie di tutto il mondo. Bella stipata, chiusa a chiave. Perché parlare di Gerusalemme? Quello è l’ultimo punto da trattare in un ipotetico negoziato, in un processo di pace che solo fuori da Israele/Palestina si continua a pensare ancora vivo. 4

Meglio lasciarla lì, la Città Troppo Santa. Lì, così com’è e come ogni giorno diventa. Una città in cui Dio – quello declinato in vari modi – c’è solo perché viene tirato per la giacchetta.

Eh no, non ci si può mica occupare di Gerusalemme. Meglio non toccare lo status quo, perché altrimenti si apre il vaso di Pandora. E tanto, poi, a Gerusalemme ci si può andare, in pellegrinaggio, per mero turismo.

‘Tu ci sei mai stato? Oh, io me lo ricordo ancora: una settimana, una città così affascinante. Magica. Mi ha lasciato una traccia che non dimenticherò mai…’. ‘E chi hai conosciuto di Gerusalemme?’ ‘Solo la guida…’. ‘E cosa hai visto di Gerusalemme?’ ‘I Luoghi Santi. Ma sai, il Santo Sepolcro mi ha deluso. Tutto assieme, confuso. E poi la Via Dolorosa, piena di negozi’.

Ecco, mentre Gerusalemme è piena di rumori, elicotteri che volano, lacrimogeni che volano, proiettili di tutti i tipi che volano, pietre che volano. E fumo, fuochi, e i ragazzi di Shu’afat incazzati, perché lo sono giustamente da anni.

Ecco, è proprio in questi momenti – lontana da Gerusalemme – che mi viene la nausea a pensare alle frasi inutili che mi sono sentita ripetere sulla città.

Oh, com’è magica e affascinante Gerusalemme… Quale Gerusalemme? Quella dei depliant del ministero del turismo israeliano? Quella patinata sulle copertine delle riviste di viaggio? Quella della Cupola della Roccia divenuta logo e brand, allo stesso tempo?

E dell’altra, della Vera Gerusalemme, che cosa vi hanno fatto vedere? Della gente di Gerusalemme, degli uomini e delle donne di Gerusalemme, chi vi hanno fatto conoscere, chi avete fermato per strada, chi avere guardato incuriositi?

È questa città, quella vera, crudele, per nulla pacificata né normalizzata, la città ‘normale’ che è esplosa ieri e oggi, forse domani. Una città compressa, fatta di tanti bambini e di tanti ragazzi, che non per caso sono le vittime di questi giorni e di queste settimane.

Ragazzi vittime, talvolta, spesso, ragazzi indottrinati. Ragazzi ostaggio degli adulti, che fanno la politica. Ragazzi ostaggio degli stereotipi. Ragazzi che indossano uniformi, divise e identità che li costringono come una camicia di forza.

Ragazzi che vengono uccisi. Di tre di loro, i tre ragazzi israeliani rapiti e uccisi, adolescenti, allegri sino a che un destino infame non li ha sequestrati, conosciamo tutto: le loro foto sono state esposte, su di loro e sul loro destino si è giustamente riversato il dolore dell’Occidente.

E sugli altri? Su quelli uccisi, nelle stesse ore, che avevano una carta d’identità diversa? Sui ragazzi palestinesi uccisi durante le retate in Cisgiordania compiute dall’esercito israeliano per cercare i tre ragazzi?

Ne sono morti almeno sei, prima che Mohammed Abu Khdeir venisse rapito e – sembra – bruciato da estremisti israeliani. Ne sono stati feriti a decine, a decine e centinaia solo fra ieri e oggi a Gerusalemme.

Il sangue che scorre è uguale, ha uguale colore: quello israeliano e quello palestinese. Ha uguale colore il dolore infinito di una madre e delle madri. Un dolore silenzioso e dilaniante.

Trovo sconcertante, in questi giorni e in queste settimane, l’ignoranza con la quale è stato raccontato non solo il conflitto israelo-palestinese, non solo Cisgiordania e Gaza, ma la stessa Gerusalemme. La città più studiata e visitata del mondo.

Trovo sconcertanti i due pesi e le due misure nell’informazione italiana. Trovo sconcertante il modo in cui i suoi abitanti, gli abitanti di Gerusalemme di cui ho fatto parte per dieci anni, siano i più sconosciuti e invisibili di quel pezzo di terra.

Un esempio per tutti. Shu’afat non scoppia per caso. Out of the blue, come giustamente ha detto oggi Ben Wedeman della CNN, che proprio a Shu’afat ha vissuto e che oggi a Shu’afat è stato colpito alla testa (per fortuna di striscio) da un proiettile di gomma sparato dalle forze dell’ordine israeliane.

Shu’afat, l’unico campo profughi palestinese a Gerusalemme, in cui opera l’agenzia ONU per i rifugiati (UNRWA), è stato consapevolmente tenuto dalle autorità israeliane come una pentola a pressione, per anni.

Un quartiere popoloso costretto, chiuso, rinchiuso. Nel 2011 le autorità israeliane ci hanno messo anche un checkpoint, all’entrata del campo.

Shu’afat è solo l’esempio più eclatante dello stato in cui versano altri quartieri palestinesi, come Issawiya, Ras al Amud, A-Ram, Jabal al Mukabber, Tsur Baher, il Monte degli Ulivi… Quartieri palestinesi pressati dai coloni israeliani che, in alcune aree, non più ai margini dei quartieri hanno costruito case e insediamenti, ma da anni anche dentro.

Lo hanno denunciato le Nazioni Unite, per anni, nei loro dettagliatissimi e interminabili rapporti. Lo hanno denunciato i consoli europei, da anni e anni, inascoltati nei paesi che pure rappresentano. Inascoltati anche quando dicevano e scrivevano: attenzione, prima o poi qui scoppia, perché è una pentola a pressione.

Perché la tensione è alta. Perché le prevaricazioni e le violazioni dei diritti umani e civili sono quotidiane. Perché a Gerusalemme, la città tre volte Santa, non c’è neanche la libertà di pregare.

È successo a Pasqua, per i palestinesi di fede cristiana, per il cui destino urliamo e preghiamo e lottiamo in Europa, senza sapere neanche come vivono. È successo oggi, primo venerdì di ramadan: i fedeli palestinesi musulmani non sono potuti salire alla Spianata delle Moschee, a meno che non avessero più di 50 anni.

E così, out of the blue, ci raccontano che i ragazzi palestinesi fanno guerriglia urbana a Shu’afat, che la pace è a rischio.

Quale pace, a Gerusalemme? Di quale pace parliamo? Di quale città parliamo? Di quella che vi hanno fatto visitare, chiusi nei pullman, intruppati per i vicoli della Città Vecchia, guidati da guide che – ognuna – vi ha raccontato la propria verità (parzialissima)? Oppure della Gerusalemme reale che vive e soffre?

Gerusalemme è una città, non è solo un mito e un archetipo. È una città fatta dai suoi abitanti. Inascoltati.

Quando mi chiedono, nelle tante presentazioni che ho fatto in questi mesi di “Gerusalemme senza Dio”, perché ho scritto un libro sulla Città Santa, rispondo che l’ho fatto proprio per loro, per i suoi abitanti.

Gli abitanti che subiscono le decisioni, e le indecisioni, di cancellerie che non conoscono neanche la cartina della città, le mappe, e men che meno conoscono i gerosolimitani e la loro vita.

Un’esistenza terrena, e per nulla mistica, il più delle volte.

 

*Paola Caridi è una giornalista e blogger, co-fondatrice di Lettera22 e autrice di numerosi libri, tra cui "Gerusalemme senza Dio. Ritratto di una città crudele" (Feltrinelli, 2013). Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul suo blog, Invisiblearabs.com.

 

Una cappa di rabbia e il dolore è gravata sulla parte araba della Città Santa, con la tensione ha cominciato salire fin dalle prime luci dell'alba per questo primo venerdì di Ramadan, il mese sacro dei musulmani. ...

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