Corriere della Sera
06 05 2015
La questione è: ci saranno tanti professori come Giovanna Nosarti, pugliese, 32 anni di servizio nelle scuole medie e poi nelle superiori? Giovanna che, a casa con la broncopolmonite, tiene i contatti con gli allievi e con i loro genitori, via Whatsapp per rispondere alle domande sui compiti, sulle verifiche, sulle valutazioni. «Non sono un’eccezione», dice. Insegna dal 2000 al Liceo artistico Enzo Rossi di Roma, italiano, storia e geografia. Periferia Tiburtino III, non un quartiere facile. «Una scuola inclusiva per eccellenza con molti disabili che richiedono la collaborazione dei docenti di sostegno». E con tanti stranieri, moldavi, romeni, russi, ma anche africani e cinesi. La «didattica inclusiva» deve soddisfare i «bisogni educativi speciali», con piani personalizzati che portano via un sacco di tempo.
Il tempo. «Le ore di lezione al giorno sono 3 o 4, ma in genere se arrivo a scuola alle 8 esco alle 14 e occupo le ore buche per i ricevimenti o al telefono con i genitori per avvertirli delle assenze, delle mancate giustificazioni, dei cali di rendimento; oppure per il coordinamento di classe, per monitorare...». Senza contare: a inizio anno le riunioni di dipartimento, la compilazione degli obiettivi minimi, la programmazione da consegnare alla segreteria didattica; a fine anno il bilancio con la percentuale degli obiettivi raggiunti sottoscritta dai ragazzi. «Monitorare» e «programmazione» sono parole frequenti, nel racconto di Giovanna. Così come «obiettivi» e «offerta formativa». Dunque, se va bene, a casa verso le 14.30, il pranzo riscaldato pronto dalla sera prima. E poi? «Si continua a lavorare per due o tre ore: preparare le lezioni del giorno dopo e le verifiche, leggere, correggere...».
Le correzioni. «Il 25 aprile l’ho passato a casa sui saggi brevi dei ragazzi. Un lavoro ripetitivo, finisci per inciampare sempre negli stessi errori, ma non mancano le sorprese e io mi entusiasmo quando constato che ci sono belle riflessioni critiche o buone competenze nell’analisi dei testi. Di recente sono rimasta stupita di fronte alla capacità di cogliere le ironie del Parini, la sua critica alla società... Mi consolo così». 100, 200, 300 compiti al mese. «Insegnare è un impegno a tempo pieno, e io, a 57 anni, sono molto stanca».
Lo stipendio. Il tutto con una busta paga di? «Circa 1800 euro al mese, più 200 o 250 all’anno per il coordinamento, ma non lo so esattamente perché non ho ancora ricevuto quelli dell’anno scorso». Se le capita di dover restare a scuola, non c’è buono-pasto né mensa, dunque un piatto a proprie spese nel bar più vicino. I tre figli che Giovanna ha avuto con Bernardo sono ormai grandi, 28, 26, 21 anni. «Quando erano piccoli, correggevo spesso di notte, dopo averli messi a letto, mi sono pure ammalata per carenza di sonno. E se il pomeriggio avevo le riunioni dovevo pagare una babysitter: una tonsillite mi costava 200 mila lire, una bronchite 500. Per anni lo stipendio lo giravo alla tata».
I ragazzi. «Hanno sempre più bisogno di essere seguiti, gratificati, motivati. Devono sentire la cultura come qualcosa di vivo, di utile. Sono molto fragili nell’approccio alla vita, hanno poche regole, dormono poco, stanno fino a tarda sera a chattare nei social network. Sono in aumento gli attacchi di panico. I genitori non riescono a far rispettare i limiti e spesso chiedono agli insegnanti di supplire a queste lacune».
Gli interessi. Per Giovanna non mancano. Molte mostre d’arte, il laboratorio di scrittura, i corsi di storia contemporanea (a sue spese), e la domenica mattina all’Auditorium per le lezioni di storia: «Quest’anno erano sul tema del viaggio, bellissime, una boccata d’ossigeno. Mio marito ha smesso il tiro con l’arco per seguirle con me. Entusiasta. A scuola, poi, le metto a frutto con i ragazzi».
La riforma. Giovanna è appena tornata a casa dalla manifestazione. Anche lei protesta. «La scuola non è un’azienda, non deve formare burocrati e specialisti di nuove tecnologie. Deve tirar su dei buoni cittadini attraverso la cultura. Inoltre, non sento mai parlare del carico di lavoro degli insegnanti, della necessità di una formazione continua, che viene lasciata alla volontà del singolo. Io sono per premiare il merito, ma prevedere un bonus per il 5 per cento dei docenti è umiliante. Perché il 95 per cento non è fatto di fannulloni...» .
Paolo Di Stefano
Sarà perché ha la prof in casa (la moglie, tra i pochi insegnanti a non aver scioperato), o sarà perché /aiuta la costruzione dell'immagine pubblica, sta di fatto che il segretario del Pd, ancora prima di diventare presidente del consiglio girava per leopolde e talk-show ripetendo che avrebbe risollevato le sorti del nostro malconcio paese proprio a cominciare dalla scuola. Se ne andava a spasso per l'Italia promettendo che avrebbe dedicato un giorno alla settimana del suo tempo a visitare bimbi e maestri. [...] Poi di quelle visite si sono perse le tracce, i soffitti delle scuole hanno continuato a crollare sulla testa dei ragazzi.
Norma Rangeri, Il Manifesto ...
MicroMega
30 04 2015
Sarà uno sciopero politico. In senso positivo, perché lo sciopero è, dal XIX secolo in poi, una delle armi principali per chi sta in basso di far sentire la propria voce, per arrestare l’arroganza del potere. Uno sciopero importante è, quindi, sempre uno sciopero politico. Ecco le ragioni per cui è importante scendere in piazza il 5 maggio.
Non è retorica dire che il mondo ci guarda. Lo sciopero degli insegnanti del 5 maggio avrà molti occhi sopra. E’ l’Inghilterra, per prima, ad aver imposto la sua “buona scuola”. Era l’anno 1988, governo Thatcher. Poi, il mondo anglosassone, Australia, Nuova Zelanda. Quindi, gli Stati Uniti e la Corea del Sud. La Grecia vi è stata costretta dai diktat della Troika. In Russia c’è stata la riforma degli esami di stato. In Messico, attualmente, sono in corso lotte contro la “buona scuola” in contemporanea con l’Italia. (C’è anche la Spagna, ma confesso di saperne pochissimo).
Ovunque, ciò che è avvenuto, secondo la felice formula del sociologo australiano Smyth, si è basato sull’idea di “centralizzare ma dando l’idea di star facendo il contrario”. La parola d’ordine al centro delle riforme scolastiche sempre l’”autonomia” della scuola, il contenuto effettivo la trasformazione del dirigente d’istituto in “manager” dagli ampi poteri (assumere, premiare, licenziare gli insegnanti, selezionare e reclutare gli allievi sulla base del loro rendimento), direttamente responsabile dei risultati della propria scuola di fronte al potere centrale. Uno scambio, mediante cui il dirigente d’istituto diviene il “re” della propria scuola, ma nello stesso tempo viene vincolato al ruolo di agente della realizzazione pratica degli obiettivi di politica scolastica stabiliti dal potere centrale. Nominalmente “re”, “prefetto” napoleonico nei fatti. Esattamente quel che dice la “Buona scuola” e che ha già fatto riempire, in questi giorni di vigilia, molte piazze, in Italia, anche oltre ogni attesa.
La scuola: l’immagine e le cose
Non è vero che tutto sia avvenuto, in questi anni, senza resistenze. C’è ad esempio, un paese, la Francia, in cui senza dubbio la dottrina neoliberale ha agito in profondità sul sistema scolastico, ma nel quale, al contempo, il tentativo di giungere ad una gerarchizzazione delle scuole apponendo il nome dell’istituto sul “bac” (o diploma di maturità) è stato vanificato, anni fa, dalla lotta degli studenti e degli insegnanti. Lotte ci sono state in Inghilterra e, localmente (dato il carattere frammentario del federalismo della governance scolastica americana), anche negli Stati Uniti, soprattutto contro il “teaching to the test”, la valutazione di istituti e lavoratori della scuola mediante i quiz, nonché contro la precarizzazione dei contratti di lavoro degli insegnanti. Se le lotte ci sono state, il loro tasso di circolazione, sui media e nella discussione pubblica, è stato, invece, qui da noi, in Italia, piuttosto basso.
Quando si parla di istruzione, i media svolgono benissimo la loro funzione, che è di svelare ma per nascondere. Lo sguardo internazionale verso la scuola dell’informazione non specializzata, dei media a larga diffusione, cerca sempre il nuovo ritrovato capace di ottimizzare le performance o la curiosità che faccia sensazione: siamo stati riempiti, in questi anni, da articoli sull’ereditarietà genetica dell’intelligenza, sulle “mamme-tigre” che imponevano una ferrea disciplina per migliorare le prestazioni dei propri figli; siamo stati sommersi da testi di pseudo-femministe che parlavano a favore del ritorno della segregazione sessuale nell’istruzione in nome del “plus” di apprendimento delle ragazze quale fattore di natura, da articoli sulla bontà della scuola finlandese, di Hong Kong e di Singapore. Grazie ai media, tempo fa, era divenuta senso comune, in determinate cerchie, l’idea che Tony Blair avesse fatto moltissimo per la scuola. La realtà, documentata dai numeri, delle “persistenti diseguaglianze”, come recita il titolo di una delle più ampie indagini di statistica comparata nel campo degli istruzione degli ultimi anni, di Shavit e Blossfeld, che confronta i sistemi scolastici di 30 paesi diversi, rimaneva nascosta.
Le piazze piene, le scuole chiuse, costituiscono un ottimo modo per rischiarare le menti, a favore di un ritorno alla realtà effettuale delle cose.
La distopia realizzata
L’indignazione è forte. Il senso di stupore, anche. Una professoressa o, forse una maestra, sulla linea 80, andando verso la manifestazione di p.za SS Apostoli di qualche giorno fa (in cui è stata annunciata la convocazione dello sciopero), riassumeva molto bene il senso comune della scuola reale nei confronti della “buona scuola”: "Sono cose talmente assurde che sembra assurdo anche il fatto che noi ci mobilitiamo". Insomma, il "preside-sindaco" e la "buona scuola" come distopia fantascientifica. Purtroppo, le distopie si sono già avverate. Non amo le “teorie del complotto”, nemmeno quando hanno un segno “buono”, anticapitalista e di sinistra. Non mi suscitano entusiasmo titoli come “I nuovi padroni della Scuola”, che descrivono scenari di organizzazioni confindustriali europee o di club di Davos riuniti in segreto per pianificare i nuovi scenari dell’aziendalizzazione e della privatizzazione delle scuole. Ma basti riportare alcuni fatti realmente accaduti, a mero titolo di esempio.
Naomi Klein ci ha raccontato come, approfittando dell’uragano Katrina, il sistema dell’istruzione di New Orleans sia stato riformato chiudendo le scuole pubbliche e sostituendole con “charter school”, scuole gestite da aziende private ma finanziate con denaro pubblico. Diane Ravitch, invece, ci ha informato (i pochi che l’hanno letta in inglese, perché i suoi libri, se tradotti in italiano, ci avrebbero edotto in anticipo sulla “buona scuola” che avanza) di come Bloomberg, nel corso del suo mandato di sindaco di New York, abbia lavorato per sostituire, mediante l’istituzione di “accademie di eccellenza”, gli esperti di amministrazione scolastica, a livello distrettuale e di istituto, con personale proveniente da Wall Street.
La campagna, lanciata dal ministro Giannini, all’atto del suo insediamento, quando non si parlava ancora di “buona scuola”, a favore dell’aumento dei finanziamenti alle scuole private, in nome del fatto che, se avessero dovuto chiudere, lo stato avrebbe dovuto spendere 6 miliardi di euro (sic), fa intendere una forte propensione privatizzatrice di questo governo. E ciò non deve stupire affatto, nel momento in cui l’azione politica di Renzi prevede un piano di privatizzazioni massiccio, non solo di quote di aziende ancora in mano allo stato, ma dei servizi pubblici, acqua compresa.
Una lotta dentro altre
Questo del 5 maggio è uno sciopero politico. Lo dico in senso positivo, perché lo sciopero è, dal XIX secolo in poi, una delle armi principali per chi sta in basso di far sentire la propria voce, per arrestare l’arroganza del potere. Uno sciopero importante è, quindi, sempre uno sciopero politico.
Lo dico, inoltre perché nell’attuale congiuntura politica lo sciopero del 5 maggio viene ad intrecciarsi con altri scenari che vanno nel senso di una revisione in senso autoritario dell’assetto costituzionale, della “costituzione formale” come della “costituzione materiale”. Lo sciopero del 5 maggio s’intreccia con la vicenda del “voto di fiducia” sull’Italicum, sistema elettorale maggioritario che, connesso alle riforme costituzionali, prefigura una tendenza alla concentrazione del potere. Il “preside-sindaco” sembra far parte di una triade, le cui altre figure sono il “manager”, in azienda, e il “leader” carismatico che comunica direttamente al popolo attraverso i media, nel paese.
Lo sciopero del 5 maggio, inoltre accade nel momento in cui la Grecia si trova sotto l’assedio delle istituzioni politico-finanziarie europee, per impedire qualsiasi deviazione rispetto al modello di un’austerity che antepone il pagamento degli interessi sul debito (anche a favore dei più abietti speculatori) alla ripresa economica ed al recupero della dignità sociale, e nel momento in cui sono in corso le trattative per il TTIP, nuovo trattato di libero scambio transatlantico, che prevede non solo l’attenuazione dei regolamenti europei che sbarrano la strada alla “carne agli ormoni” e agli Ogm statunitensi, ma anche l’istituzione di tribunali arbitrali privati, tramite cui le multinazionali possano fare causa agli stati in nome dei loro interessi lesi scavalcando la giustizia ordinaria, nazionale ed europea. Di qui il passo è breve rispetto a dire che l’esistenza di una “scuola pubblica” possa costituire un attentato nei confronti della libera concorrenza globale.
Non è retorica affermare che il 5 maggio è un momento di lotta che ha dietro di sé moltissime lotte – molte sconfitte, ma alcune vittoriose – che nel mondo, nell’ultimo trentennio, hanno visto opporre la difesa della dignità e del tessuto di relazioni interne alle comunità sociali all’arroganza del mercato globale. Molte di queste lotte riguardavano la difesa di un tessuto comunitario e di rapporti economici che l’accademia marxista avrebbe, un tempo, considerato arretrati rispetto alla modernità capitalista (per esempio la rivolta zapatista delle comunità indigene in Chiapas, le lotte dei contadini del Bengala contro l’esproprio di terre per la realizzazione di industrie e miniere o le lotte dei contadini cinesi contro l’esproprio delle terre a favore delle speculazioni immobiliari). Ma se è in gioco la dignità, non è questione di vecchio e nuovo. Penso a noi insegnanti, oggi uniti al di là delle differenze ideologiche, in nome della scuola pubblica, in nome della libertà d’insegnamento, contro una legge che viene presentata come una “rivoluzione” che renderebbe la nostra scuola finalmente “europea”.
Questo non deve farci paura. Anzi, se un senso culturale c’è, in questa rivolta della scuola, è proprio la messa in discussione del paradigma profondamente interessato e tendenzioso della distinzione tra vecchio e nuovo che vorrebbero imporci. Ci chiamino pure, se vogliono, “luddisti”. Il 5 maggio noi scioperiamo. Noi sappiamo per cosa stiamo lottando. Noi sappiamo che il futuro non è scritto.*
* una frase di Joe Strummer (ndr)
Marco Magni