La 27 Ora
22 11 2013
Non chiamiamole «baby squillo» è l’invito che arriva finalmente al mondo dell’informazione, dopo settimane di ubriacatura generale di formule dal sapore voyeristico (quando non sottilmente pedo-pornografico) come baby prostituta, baby escort, baby lucciole, lolitine.
Molte giornaliste, ma anche alcune parlamentari, come Stefania Pezzopane (PD) e Pia Locatelli (PSI), hanno chiesto più rispetto per le vittime della storia dei Parioli, a partire dal linguaggio. Già, ma come dobbiamo chiamarle?
Circa un anno fa ho cominciato a lavorare con l’agenzia di stampa Redattore Sociale e l’Associazione Parsec a un progetto di comunicazione sul linguaggio dell’informazione. Obiettivo: offrire strumenti per “comunicare senza discriminare”, che si parli di migranti, di rom o di disabili, di donne o di LGBT. Ne è nato un libro, Parlare Civile (Bruno Mondadori, 2013), che contiene anche alcune pagine su Prostituzione e tratta. Per capire perché «baby prostituta» e dintorni siano espressioni odiose e inadeguate si può partire da qui.
E iniziare col dire che qualche problema ce lo dà anche la parola prostituta, senza diminutivi e vezzeggiativi.
Si possono definire prostitute le minorenni dei Parioli? Prostituta è, per il dizionario, «la donna che si prostituisce». C’è la parola donna, in questa definizione, che sarebbe inesatto riferire a ragazze di 14-15 anni, e c’è quell’attivo prostituirsi, che la nostra legge non riconosce per le persone di età minore, ritenendole sempre e in ogni caso delle vittime (di chi le induce alla prostituzione, di chi le sfrutta).
Non solo, ma «baby prostitute» è un piccolo monstrum linguistico perché unisce la parola baby, che richiama la minore età, la situazione indifesa di fanciulle e ragazze, e il loro bisogno di protezione, con prostituta che è invece una parola dal significato poco lusinghiero, stigmatizzante. Così, almeno, la considerano le organizzazioni di lavoratrici e lavoratori del sesso in tutto il mondo, che da tempo promuovono al suo posto (per le persone maggiorenni, sia chiaro) il termine sex worker. Tra loro anche quello che – paradossalmente – in Italia si chiama Comitato per i diritti civili delle prostitute, fondato nel 1982. La presidente Pia Covre ricorda che la scelta fu fatta allora «per provocare, per dire cosa davvero eravamo». Ma la riflessione collettiva sul linguaggio era meno avanzata di quanto sia ora.
Per ragioni diverse non piace, prostituta, nemmeno alle organizzazioni anti-tratta, che denunciano l’abitudine del giornalismo di cronaca di usare questo ed altri sinonimi dal sapore denigratorio per parlare delle vittime di tratta e sfruttamento sessuale.
Il problema è che dietro la parola si nasconde una storia secolare di discriminazione delle lavoratrici del sesso, considerate portatrici di un disordine morale, sociale, sanitario, e in quanto tali controllate dai poteri pubblici, disprezzate dalla società “rispettabile”, escluse dal vivere civile.
Che dire invece del più romantico lucciola (Noi siam come le lucciole, diceva la canzone)? O del più raffinato squillo e del modernissimo escort? Ognuno di questi termini implica un modo di guardare al fenomeno. Se il primo nasconde spesso un intento eufemistico, gli altri due descrivono un settore del mercato del sesso caratterizzato da tariffe più elevate e un’autonomia relativamente alta per le persone coinvolte.
Ma quando per esempio leggiamo un titolo come La fabbrica delle lucciole troviamo accostati quasi in un ossimoro due parole che rimandano l’una alla produzione massificata dello sfruttamento sessuale, l’altra a un’immagine antica, precedente alla globalizzazione dei traffici e dei flussi delle popolazioni. E se escort o squillo vengono associate alla vittimizzazione di donne e bambine l’effetto è altrettanto stridente.
Insomma, anche se non ci sono regole rigide, ci sono le persone. E ci sono linguaggi adeguati o inadeguati, anche a seconda del contesto, a parlarne con il rispetto dovuto.
Sì, si obietta, ma baby squillo o baby prostitute sono efficaci come nessun’altra formula: prostituzione minorile o vittime di sfruttamento sessuale sono espressioni molto meno appealing. Eppure si può scrivere un intero articolo, anche di notevole lunghezza, senza farne uso. Vedere per credere: l’ha fatto Sara Gandolfi, nella sua inchiesta, in questo stesso blog.
Giorgia Serughetti
GiULiA
15 11 2013
Due giorni di sole e cielo terso hanno prodotto martedì 12 una serata incantevole su Milano, sull'Umanitaria e dunque sul Chiostro dei glicini, che ospitava nei tre lati dell'ambulacro i pannelli della mostra fotografica "Chiamala violenza, non amore" (prima edizione de Lo Sguardo di Giulia) e sul quarto lato le proiezioni.
Una fortuna metereologica anche per il centinaio circa di ospiti che seguiva partecipe la consegna delle targhe ai premiati e dei certificati ai selezionati, i saluti emozionati dei vincitori, i brevi discorsi poco ufficiali e molto amicali delle cosiddette "autorità": la delegata alle pari opportunità del sindaco Pisapia, Francesca Zajczyk, quindi Maria Costa, responsabile del Centro Donna della Camera del lavoro di Milano, la consigliera provinciale Diana De Marchi, il presidente dell'Umanitaria Amos Nannini - che proprio lo stesso giorno festeggiava i 120 anni di questa straordinaria Società -, il magistrato Fabio Roia a nome dei giudici e pm della sezione "delitti contro i soggetti deboli" del tribunale di Milano.
Come sottolineava Roia, occorre certamente arrivare prima e presto in difesa delle donne che subiscono violenza - e dunque la legge sul femminicidio va migliorata ed in parte modificata, ma sarà utilissima -, tuttavia bisogna prestare attenzione soprattutto agli attori delle aggressioni, cioè a "questi uomini che si presentano davanti al magistrato garbati, educati, eleganti, profumati negando con la loro fisicità l'appartenenza alla categoria dei violenti...".
Occorre intervenire su di loro, come da dieci anni fa Silvana Ceruti - ambrogino d'oro, anch'ella presente martedì sera alla premiazione - lavorando a San Vittore sui peggiori violenti e femminicidi con lo strumento della parola, facendoli esprimere nel Laboratorio di scrittura creativa, poichè senza la consapevolezza costoro, una volta scontata la pena, rivolgeranno tutta la loro rabbia vendicatrice contro chi li ha denunciati. E bisogna intervenire sui giovani, presto, quando ancora frequentano la scuola; un'operazione non facile in cui è sempre più impegnata la Provincia di Milano, come ha raccontato Diana De Marchi.
Il Comune di Milano, che ha creduto nel concorso fotografico di Giulia, patrocinandolo, ospitandone a Palazzo Marino la conferenza stampa ed infine stampando e distribuendo l'invito alla mostra in tutte le sue sedi, scuole, biblioteche, ha parlato per bocca di Francesca Zajczyk, che è anche docente di sociologia alla Bicocca: Una subcultura arcaica e difficile da scalfire e una società indifferente creano il terreno fertile per le prevaricazioni, non solo contro le donne, ma anche e in crescita contro i giovanissimi attraverso il bullismo nelle scuole e nei quartieri.
Le grida, le suppliche, la disperazione di una vittima predestinata immersa in una società che non è la sua e nell'indifferenza della polizia - "Ma signora, chi manterrà lei e i suoi figli se spedisce suo marito in galera?" - hanno poi ricostruito passo passo, nella bellissima e coinvolgente recitazione di Consuelo Ciatti, uno dei tanti assassinii annunciati, in una famiglia messicana emigrata negli Stati Uniti. Ma poteva accadere a Cinisello, a Patti, a Marsiglia, a Brighton, ovunque. Lo spettacolo da cui erano tratti i due brani, Sangue Nostro, rappresentato per la prima volta in settembre a Prato, dovrebbe trovare diffusione maggiore poichè, come sempre l'arte, la lettura scenica conosce scorciatoie per raggiungere il cuore degli spettatori che nessun convegno otterrà mai; soprattutto nei confronti dei più giovani.
Epicentro della serata sono stati però i presenti fra i premiati, giunti da ogni regione e di ogni età, che con poche parole emozionate e sincere hanno illustrato il senso della loro ricerca; non tutti in verità, perchè alcuni hanno declinato l'invito a prendere il microfono, ma avevano costruito foto talmente belle ed espressive che parlavano da sole. La più giovane fra i premiati, una diciassettenne di Bari, Rossella Leone che non se l'era sentita di affrontare il viaggio, aveva mandato un breve video di saluto e riflessione che, proiettato, ha strappato applausi a scena aperta.
GiuliaLombardia, che ha costruito il concorso, lottando contro difficoltà comprensibili ed anche incomprensibili (come quelle interne alla categoria, non avendo ad esempio ottenuto dall'Ordine nazionale dei giornalisti quel patrocinio e quella collaborazione offerta invece da Comune di Milano, Società Umanitaria, Cgil, Donne Cgil-Cisl-Uil...), ora sta lavorando alla costruzione di un calendario espositivo itinerante. La mostra è visibile questa settimana all'Umanitaria, la prossima in Camera del Lavoro, quindi in altre città che hanno chiesto di ospitarla, da Torino a Trieste, da Lucca a Bologna, da Bolzano a (ovviamente) molte altre istituzioni milanesi.
Entro la fine di dicembre il Coordinamento di GiuliaLombardia proporrà il titolo della seconda edizione 2014 dello Sguardo Di Giulia. Sull'iniziativa molti i servizi usciti, grazie alla sensibilità tanto di colleghe quanto di colleghi: tg3 regionale, di già Repubblica, presto il Corriere della Sera, agenzie, quotidiani locali, testate online. In calce due link a galery fotografiche.
E prima di concludere è doveroso ricordare tutti i nomi dei sei vincitori. Che sono due professioniste ex aequo, Karen Di Paola ed Ylenia Carnevali; due non professionisti, premiati uno per le foto, Marco Castelli, ed uno per il progetto, Armando Casalino; un vincitore per la categoria video, Paolo Samarelli; infine la vincitrice degli Under 18, Rossella Leone.
Ma anche i nomi dei 22 selezionati: Jutka Csakanyi di Milano, Ilaria Di Genova di Milano, Patrizia Dottori di Roma, Malì Erotico di Bologna, Luca Ficini di Prato, Margherita Lazzati di Milano, Antonella Monzoni di Modena, Alberto Moretti di Udine, Erasmo Perani di Bergamo, Renata Romagnoli di Roma, Andrea Spinelli di Pordenone, Erberto Zani di Parma, Daniela Borsari di Milano, Simone Ciocca e Mariarosa Angelici di Bergamo, Monica Fior di Milano, Valentina Gamba di Bergamo, Alessia Marconi di Pisa, Serena Rauzi di Trento, Camilla Riccò di Firenze, Luigi Sommese di Merano, Azzurra Stilo di Treviso, Antonio Rossini e infine fuori concorso Gabriele Lamberti di Bologna.
Marina Cosi
Sud de-genere
23 10 2013
STUPRO è qualcosa che, senza mezzi termini, mi fa profondamente orrore. Un orrore che si insinua sotto la pelle, mi attanaglia la gola togliendomi il respiro, mi fa venire conati di nausea, mi fa sentire impotente e contemporaneamente furibonda.
E’ stato rilevato più volte, e da più persone, come la violenza di genere non trovi negli organi di informazione quella considerazione professionale e valutazione di rilevanza sociale necessarie a rafforzare, nel sentire popolare, il senso profondo e reale di lesione di beni primari, costituzionalmente riconosciuti, quali l’integrità fisica e psichica e la libertà di autodeterminazione delle donne.
Giovanna Vingelli, ad esempio, ha rilevato come l’attenzione dei professionisti della informazione sia rivolta quasi esclusivamente a dettagli riguardanti la vita privata delle donne, mentre la figura dell’aggressore rimanga avvolta nell’ombra; di come minuziose descrizioni di stupri e violenze siano accompagnate da “rappresentazioni” dello stato emotivo della donna banalizzanti e superficiali; di come, attraverso l’uso di frasi all’apparenza casuali ed innocue, vengano instillati dubbi sulla veridicità delle violenze perpetrate, perché in fondo (e neanche troppo in fondo) è la donna che deve provare che non sta mentendo, è la donna della quale si valuta l’attendibilità e se ne tenta il discredito, soprattutto quando l’uomo violento non è extracomunitario o straniero (il mostro) ma, come avviene nella maggior parte dei casi ha l’aspetto di una persona rispettabile e/o ha una posizione sociale che gli viene riconosciuta dalla collettività (o è ragazzo di “buona famiglia”).
Abbiamo detto di come le notizie delle violenze di genere e dei femminicidi vengano date come se si trattasse di eventi ineluttabili, di come le donne che vengono stuprate, picchiate e uccise sono – dove in maniera grossolana, dove in maniera insinuante – colpevolizzate e definite corresponsabili, buttandola in caciara attraverso superficiali analisi psico-sociologiche sul fatalismo delle corresponsabilità nelle relazioni.
Di come, anche se non eri proprio consenziente, se ti stuprano è perchè in qualche modo te la sei cercata: cosa ci facevi a tarda notte in un locale di periferia? cosa ti è saltato in mente di uscire da sola? quanto avevi bevuto? non lo sai che ci si veste in maniera appropriata? perchè hai dato retta ad uno sconosciuto? anche se lo conoscevi bene non l’avevi capito che da te voleva una cosa sola? Tua madre non ha esercitato sufficiente controllo sulla tua vita da minorenne (tuo padre non viene mai menzionato). Se poi ti uccidono è perchè è colpa della gelosia, perchè anche tu ci hai messo del tuo (eri gelosa pure tu), perchè avevi un carattere predominante e lui non l’accettava (allora inevitabilmente ha “accettato” te), perchè le perversioni relazionali sono il grande male dei nostri tempi. Insomma, non si può mica rovinare la vita di un uomo per un raptus di follia (che ha tolto la vita a te).
Abbiamo detto di come lo stupro possa essere definito “una brutta avventura“, mentre noi lo sappiamo bene che non si può guarire in venti giorni, anche se ce lo dicono in ospedale, perchè
“Subito dopo un’aggressione sessuale, le vittime si trovano spesso in uno stato di shock. È anche frequente che si sentano in colpa e credano che avrebbero potuto evitare lo stupro. Le vittime sentono di aver perso il controllo della loro vita,e sono incapaci di compiere gesti quotidiani, soffrono di incubi e di ricordi angoscianti. Le vittime di uno stupro temono anche per la loro incolumità. Laddove regna l’impunità, capita che la vittima di uno stupro incontri ancora il suo aggressore, temendo così altre violenze. Un episodio di violenza sessuale può anche minare la capacità di una persona a stabilire rapporti interpersonali e ad avere fiducia negli altri. Anche la vita sessuale può subire ripercussioni, poiché spesso le vittime associano la sessualità alla violenza e al dolore. A lungo termine, molte donne soffrono di depressione, ansia ed episodi psicotici. La vittima di uno stupro può soffrire di depressione e di sindrome da stress post-traumatico (PTSD) soprattutto se durante l’aggressione ha riportato danni fisici. Le donne e gli uomini che sono stati violentati a volte tentano anche il suicidio.” da Vite spezzate – Rapporto di Medici Senza Frontiere sulla violenza sessuale, Marzo 2009
E’, per caso, previsto il “reinserimento” delle donne stuprate nella società? Chi si fa carico delle vite spezzate, lo Stato?Chi protegge le vittime mentre l’accusato è in attesa di giudizio?Le Istituzioni?
Sappiamo come, ovunque nel mondo, sia prassi consolidata quella di vendere i diritti delle donne in cambio di guadagni politici.TUTTI i diritti.
<<La violenza di genere è un fatto sociale e culturale, che trascende la dimensione privata, e che ha radici nella disparità di potere tra i sessi. Lo stupro è uno strumento di esercizio maschile sull’ affermazione della libertà delle donne.>>
E’ bene cercare di fare chiarezza, a volte, perché ci sono persone (rappresentanti delle Istituzioni, giornalisti e giornaliste, intellettuali o desiderosi di essere tali, la simpatica vicina della porta accanto o il postino che suona sempre all’ora di pranzo, e così via) che con colpa o dolo provvedono a sdoganare il peggio dell’umanità.