Ci serve di nuovo Corto Maltese

Corto Maltese è nel suo elemento naturale quando le frontiere non sono nette, quando le appartenenze nazionali, etniche, politiche e confessionali si sovrappongono, quando le identità territoriali si fanno sfocate.
Tristan Garcia, Il Fatto Quotidiano ...

Quest' Europa alla deriva sulla difesa dell'identità

Non sempre le crisi e le emergenze umanitarie hanno l'effetto di accrescere la solidarietà tra i Paesi che ne sono investiti meno ancora tra le forze politiche [...]. È più facile, purtroppo, che avvenga il contrario.
Giovanni Sabbatucci, Il Messaggero ...

Quali migrazioni, quali politiche, quale Europa

  • Mercoledì, 15 Luglio 2015 08:26 ,
  • Pubblicato in Flash news

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15 07 2015

Quello delle migrazioni – non a caso insieme alla questione greca che ha rimesso in discussione, per la prima volta “dall’alto”, le politiche dell’austerity e le stesse fondamenta democratiche dell’Unione europea – è oggi il fenomeno più discusso ad ogni livello. Dalle camere dei governi nazionali ai consigli europei e alle sessioni dell’Onu, da tutti i talk show televisivi ad ogni telegiornale, fino agli autobus e ai bar delle nostre città.

Ma siamo davvero di fronte a qualcosa che ha un tale impatto sulle nostre vite da richiedere questo tipo di attenzione politica, mediatica, popolare?

In un certo senso sì, assolutamente. In un altro no, per nulla.

Sì, perché 50 milioni di persone sono ad oggi state costrette ad abbandonare le proprie case da guerre, persecuzioni, terrorismi. Il più grande numero di profughi almeno dal secondo dopoguerra.

No, perché l’Europa non è minacciata in alcun modo da questo movimento di migranti che pure, insieme alle altre zone del mondo fortemente industrializzate, ha contribuito a costringere alla fuga proprio per le sue politiche di guerra e saccheggio delle risorse che non hanno mai avuto soluzione di continuità.

L’85% di quei 50 milioni di profughi si trova infatti nei paesi limitrofi a quelli di origine, e la stragrande maggioranza nei cosiddetti “paesi in via di sviluppo”. E questo perché chi è costretto a fuggire dalla propria terra, solitamente, si ferma non appena trova un po’ di sicurezza, sperando un giorno di potere fare ritorno. E anche in situazioni come quella dei profughi siriani, che forse per decenni non avranno una casa in cui tornare, l’Europa è l’ultima ratio.

La Turchia e il Libano, da soli, ospitano 3 milioni di persone in fuga dalla Siria, mentre sono solo 270.000, secondo le statistiche dell’UNHCR, i cittadini e le cittadine siriani che hanno fatto richiesta di asilo in uno degli stati europei.

Nel 2014 sono arrivate in Europa dal Mediterraneo circa 219.000 persone, una minoranza delle quali sono rimaste in Italia. Numeri irrisori, se si pensa che, secondo le stime dell’Onu, l’Unione europea avrebbe le risorse per accogliere più di un milione di profughi per diversi anni senza intaccare minimamente il livello di vita dei propri abitanti già stanziali. E si tratta sicuramente di una stima al ribasso, calcolata sulla misura dell’inadeguatezza delle politiche di accoglienza e del sistema di speculazione che, in moltissimi casi, le contraddistingue.

Ma allora perché poco più di 100 profughi, tra cui donne e bambini, che rimangono per qualche giorno alla frontiera di Ventimiglia reclamando il loro diritto a costruirsi un progetto di vita, a raggiungere le famiglie già arrivate, a ricevere protezione internazionale, diventano un caso diplomatico dirompente? Perché una notte intera di lavori al Consiglio europeo è spesa per raggiungere il risibile obiettivo della distribuzione di 40,000 rifugiati nell’Ue, presentato da Renzi e dalla Mogherini come una rivoluzione di solidarietà?

Quale partita si sta giocando su quei corpi? Sui loro diritti? Sulla loro narrazione?

Molte, di diverso livello.

Innanzitutto, le campagne politiche si fondano su questo: chi più usa il cosiddetto “pugno di ferro” rispetto al tema, più acquista consenso e viene votato. Tra i tanti pensatori che dall’epoca classica ad oggi hanno disvelato il principio del divide et impera nelle sue diverse declinazioni, Michel Foucault è forse quello che più di ogni altro è riuscito a spiegare fino a che punto operare una cesura biologica tra chi deve vivere e chi può essere lasciato morire, all’interno di ogni società, sia un potentissimo strumento di governo della popolazione.

Recenti statistiche dimostrano che l’immigrazione e la sicurezza sono ad oggi la prima preoccupazione della maggior parte della popolazione italiana. Temi che hanno concretamente sfiorato l’esistenza di una parte infinitesimale dei cittadini e delle cittadine che abitano questo paese. Eppure, l’ansia di una paventata invasione è più forte della certezza concreta di essere stati derubati e impoveriti da un sistema economico che ha salvato le banche e non le persone. La paura immaginata è più reale e gravida di conseguenze degli effetti reali della devastazione del modello sociale europeo e dell’austerity su milioni e milioni di famiglie.

Hannah Arendt, e qui si innalza il livello della posta in gioco dietro le politiche e le retoriche che stanno ad oggi strumentalizzando le migrazioni, ci ha raccontato a lungo quanto la crisi economica diffusa dell’inizio del ‘900, e poi quella vissuta dalla Germania tra le due guerre mondiali, sia stata il terreno fertile sul quale sono cresciute le erbe marce del razzismo e dell’intolleranza verso pericoli inesistenti, irrazionali, costruiti ad arte.

In quel tempo, ci dice Arendt, si mescolò l’odio antisemita a quello per milioni di apolidi e sfollati della prima guerra mondiale, diventati ‘schiuma della terra’ che nessun paese voleva accogliere. In quel momento, ci dice ancora, i diritti umani persero la sfida epocale di proteggere milioni di individui da uno sterminio senza precedenti, dopo che queste persone, prive di cittadinanza (anche gli ebrei prima di essere internati nei lager perdevano formalmente la loro cittadinanza), erano state ritenute e definite ‘superflue’, senza un posto nel mondo che non fosse quello dei campi utilizzati come ‘surrogati di patrie perdute’.

Ebrei, apolidi, rom e altre minoranze, rappresentavano veramente all’inizio del Novecento una minaccia per l’Europa?

Allo stesso modo, ad oggi, i profughi che occupano tutte le prime notizie dei giornali e dei telegiornali, sono veramente il problema delle nostre società corrotte, disgregate, ingiuste, piene di solitudine?

Si tratta, ovviamente, di domande retoriche.

Ma Norberto Bobbio diceva che un pregiudizio è diverso da un’opinione erronea perché quest’ultima viene corretta dall’acquisizione di nuove informazioni, mentre il pregiudizio non è confutabile neppure a fronte di dati oggettivi che dovrebbero smentirlo privandolo di ogni fondamento razionale. Perché il pregiudizio risponde esattamente a ciò che vogliamo sentire e pensare, proviene da un certo tipo di istinto e non dalla ragione.

Su questo giocano le propagande politiche che confondono le cifre e inghiottono la dignità e la specificità di ogni persona. Quando il presidente della regione Veneto dichiara che il suo territorio accoglie il maggior numero di immigrati e che quindi ha il diritto di chiudere la porta ai profughi, ad esempio, non dice che la cifra portata a dimostrazione di questa affermazione è data dalla somma di un numero estremamente residuale di richiedenti asilo e della maggior parte di migranti residenti da anni, che contribuiscono enormemente al Pil della Regione e alla sua tenuta demografica, producendo costantemente ricchezza.

Allo stesso modo, le cifre dell’ ‘invasione’ dal mare non sono mai messa a confronto coi numeri generali di profughi e sfollati che non raggiungono e non raggiungeranno mai l’Europa. In maniera simile, non viene mai detto che quei famosi 35, euro che nelle narrazioni comuni sarebbero la principale fonte di ingiustizia sociale nel momento in cui vengono dati ai richiedenti asilo, danno invece reddito a migliaia di italiani e italiane impegnate nel terzo settore, quando non finiscono ad alimentare reti criminali come quelle di Mafia Capitale. E per lo stesso tipo di principio, si arriva a dire che l’unico modo di combattere gli scafisti nel Mediterraneo sarebbe niente poco di meno che il bombardamento dei barconi quando ancora si trovano in territorio libico (un’aggressione di guerra, praticamente, che nessuno ha mai davvero pensato di poter mettere in atto), mentre il traffico di esseri umani non esisterebbe senza le politiche europee, in vigore da decenni, di totale chiusura delle frontiere rispetto agli ingressi legali.

Ho voglia di raccontare, tra le tante che in questi mesi chiunque potrebbe ascoltare se ne avesse voglia, una storia emblematica di tutto ciò che sto dicendo.

Saida ha 18 anni ed è eritrea. È arrivata in Italia sui gomiti. Letteralmente. L’ho incontrata per la prima volta in un ospedale di Palermo. Con la spina dorsale spezzata in due parti. E nessuna speranza di tornare a camminare. La colonna vertebrale, dopo la rottura, si era calcificata ad angolo retto, irrimediabilmente fuori dalla pelle squarciata, all’altezza dei reni, nel corso dei mesi che Saida aveva trascorso dentro un capannone a ridosso di una spiaggia libica. I trafficanti l’avevano lasciata lì a lungo prima di metterla su una barca di quelle che partono verso l’Italia. Forse perché cercavano di approfittare il più possibile dei soldi che la sorella di Saida mandava dalla Svezia. Dalla Svezia? Esattamente. La famiglia di Saida era quasi tutta lì, da molto tempo. Due sorelle, il padre, un fratello, da anni. Nel campo profughi in Sudan erano rimaste solo lei e la madre, in attesa dei visti per potersi ricongiungere coi loro familiari ormai tutti riconosciuti come rifugiati in uno dei paesi più ricchi dell’Unione europea. Ma l’ambasciata svedese in Sudan aveva concesso il visto alla mamma, e non alla figlia, diventata ormai maggiorenne. E così Saida era partita da sola, a piedi, affidandosi ai contrabbandieri, per lasciare che sua madre prendesse un aereo e ritrovasse gli altri suoi figli e il marito, mentre lei avrebbe cercato di raggiungere la sua famiglia seguendo il percorso assurdamente imposto alla maggior parte dei profughi. Attraversato il confine, era salita su uno di quei camion che in Libia trasportano gli esseri umani diventati merce. E poi il camion si era ribaltato. E Saida era rimasta a terra.

Quando la guardia costiera aveva accostato la sua barca, lei non era riuscita a spiegare che non poteva né alzarsi né mettersi seduta. Il suo posto, da sdraiata, era costato tre volte di più degli altri.

Adesso Saida è in Svezia. Il regolamento 604/2013, la cosiddetta Dublino III, per lei, ha funzionato al contrario rispetto a come agisce di solito per tanti altri: l’ha portata alla fine dove voleva arrivare. Perché tra i criteri atti a definire lo stato competente a esaminare una richiesta di asilo c’è quello della presenza di familiari già riconosciuti rifugiati o comunque legalmente residenti. Saida ha esercitato alla fine un diritto che ha sempre avuto. Ma per farlo ha dovuto consegnare decine di migliaia di euro ai trafficanti, restare mesi immobile, da sola, in un angolo, senza potersi cambiare, lavare, spostare per espletare i propri bisogni. E ha dovuto perdere l’uso delle gambe. Tutto, perché la Svezia, attraverso la sua ambasciata in Sudan, non le ha consegnato un pezzo di carta.

Lo stesso pezzo di carta che eviterebbe ad altre migliaia di persone come Saida, a costo zero per i paesi di arrivo, di raggiungere l’Europa senza arricchire i criminali, senza aggiungere dolore a dolore e sofferenza a sofferenza, senza rischiare di morire.

La signora in ospedale che stava di fronte a lei mi ha detto un giorno: che bella questa ragazzina, non come quelli che arrivano con le barche e che ci stanno invadendo.

Quando le ho spiegato che stava proprio guardando il volto, le mani, il sorriso di ognuna di quelle persone osservando Saida, le sono come d’improvviso crollati tutti i punti di riferimento.

Sono uomini, donne, bambini e bambine, ragazze come Saida quelli che raggiungono in questo momento l’Europa, attraversando il Mediterraneo oppure a piedi, dall’altrettanto pericolosa via dei Balcani (http://www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/487212/L-inferno-dei-profughi-sulla-rotta-dei-Balcani-tra-pestaggi-e-respingimenti ). Tutte persone il cui viaggio traumatico potrebbe essere evitato dalla concessione di visti d’ingresso nelle ambasciate dei paesi limitrofi alle zone di conflitto. Arriverebbero “in piedi” e, anche guardando dal cinico punto di vista del bilancio costi benefici, con molte più risorse, economiche e umane, da investire nel territorio europeo per ricominciare una vita.

Ma quale leva demagogica resterebbe allora ai governi per spaventare e governare la loro popolazione? Dovrebbero iniziare a quel punto a parlare dei problemi reali che hanno creato, e non rifugiarsi nelle ansie costruite ad arte.

E nel frattempo, la principale scusa dei decisori politici per continuare nelle loro (solo apparentemente) irrazionali scelte sulle migrazioni è che bisogna distinguere i “veri profughi” dai cosiddetti “migranti economici”, nonostante ormai tutti i rapporti ufficiali concordino nel dimostrare come le nuove migrazioni verso l’Europa siano principalmente causate dai conflitti in atto, mentre le persone che nei decenni precedenti migravano verso il vecchio continente avendo altre possibilità di scelta stanno drasticamente diminuendo a partire dall’inizio della crisi nel 2008.

Su questa falsa e strumentale divisione tra veri e falsi profughi si producono le proposte, come un infernale domino, di campi di smistamento da piazzare sempre più a sud: in Italia e Grecia secondo i paesi nord europei; in Nordafrica, a sentire quelli dell’Europa meridionale. Sulla stessa divisione si stanno in questo momento producendo, per chi riesce a sopravvivere alle frontiere imposte e a presentare domanda di protezione sul territorio europeo, centinaia di migliaia di dinieghi alle richieste di asilo.

Persone estremamente vulnerabili che stanno entrando a far parte della marginalità delle nostre città – specie se diniegati e quindi clandestinizzati – tentando di togliere loro insieme ai diritti anche la dignità, trasformandoli, anche esteticamente, nello stereotipo usato per stigmatizzarli: “poveri, incivili, parassiti”. Mentre i tabù del razzismo e della discriminazione, stabiliti dopo l’orrore dei totalitarismi del 900 come tanti “mai più” dalle costituzioni europee e dai testi internazionali sui diritti umani (sanciti come universali e inalienabili), stanno crollando ad uno ad uno.

Stiamo assistendo a risposte politiche disegnate non sulla realtà oggettiva ma su quella percepita, fabbricata artificialmente. E gli interventi in atto mirano solo a rispondere ai sondaggi delle opinioni pubbliche che, in un circolo vizioso, vengono orientati dalle retoriche politiche.

Anche l’identità dei profughi viene in tal modo modificata: non soggetti di diritto, ma al massimo persone cui concedere un’accoglienza caritatevole, dopo averle lungamente messe alla prova, dopo averle trasformate in vittime di tratta, naufraghi, malati.

E chi fallisce la prova diventa un approfittatore da rimpatriare, una minaccia da allontanare, se non un terrorista infiltrato (E qui bisognerebbe aprire una parentesi su quanto le attuali politiche europee sull’immigrazione abbiano anche l’effetto diretto di alimentare fanatismi, mentre politiche di accoglienza reale sarebbero la più grande arma per vincere, senza neanche combatterla, la guerra contro i terrorismi).

Dal punto di vista delle migrazioni e del Mediterraneo guardiamo quindi all’Europa e alla sua crisi sociale, culturale, politica, molto prima che economica e finanziaria.

Perché la modificazione antropologica dell’identità non è subita in questo momento solamente dai profughi ovunque sgomberati, guardati con sospetto, confinati in burocrazie infinite, ritenuti soggetti da lasciar sopravvivere o lasciar morire indifferentemente.

Questa mutazione sta coinvolgendo anche ciascuno di noi:

La nostra percezione della convivenza umana, narrata ormai solo come gioco a somma zero, nella guerra del tutto impari tra arricchiti e impoveriti, e in quella sempre più terribile tra poveri e poverissimi;

La nostra idea della giustizia sociale, ormai confusa con l’unico orizzonte progettuale del massimizzare le briciole lasciate cadere dal piatto di chi ha il potere di decidere, scannandosi per esse senza mai pensare che si possa combattere per cambiare il sistema di redistribuzione delle risorse;

Il fondamento valoriale dei diritti umani, corrotti fin dalla loro origine, dai recinti delle cittadinanze nazionali e dalle discriminazioni implicite nella definizione fintamente neutra del soggetto di diritti liberale, ma ancora oggi l’orizzonte più potente di rivendicazione ed eccedenza rispetto allo stesso ordine lineare che presupporrebbe la loro attivazione. Il diritto d’asilo è il loro banco di prova. Lo era stato tra le due prime guerre mondiali. Lo è adesso nel corso del terzo, inedito, conflitto globale, rispetto al quale le migrazioni sono diretta conseguenza, arma strumentale, punto di crisi, centro concreto e simbolico, a partire dal quale, obbligatoriamente, ripensare il mondo.

di Alessandra Sciurba

Il fallimento delle politiche sull'immigrazione in Italia

  • Martedì, 26 Agosto 2014 10:07 ,
  • Pubblicato in Flash news

Pagina99
26 08 2014

Si parla da decenni di immigrazione, e partiti hanno fatto la propria fortuna scagliandosi contro il fenomeno. Dopo numerosi interventi legislativi a riguardo, cosa c'è di vero tra i falsi miti sull'immigrazione in Italia? Quali effetti hanno avuto le politiche pubbliche realizzate negli anni? Con il terzo intervento della rubrica #policies99, chiariamo alcuni aspetti di questa importante vicenda.

L'edizione di pagina99We in edicola sabato 2 agosto seguiva le operazioni dell'agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR) raccontando le rotte e le difficoltà delle migliaia di persone che ogni estate si mettono in mare, in cerca di speranza sulle coste italiane. Nel pieno dell'emergenza degli sbarchi, siamo anche intervenuti riproponendo l'idea di un corridoio sul Mediterraneo per razionalizzare le richieste di asilo dei rifugiati. Ma c'è un altro lato della medaglia, quello degli stranieri che vivono già in Italia, e che negli ultimi decenni hanno visto accrescere il loro peso in termini numerici ed economici nella vita del Belpaese. Nonostante la sua evidente rilevanza, il dibattito sugli effetti e la desiderabilità (o forse inevitabilità) dei flussi migratori è troppo spesso lasciato a spinte emotive che confondono il merito delle questioni. Secondo i dati della Transatlantic Trends Survey, tra i paesi economicamente avanzati l'Italia è tra quelli in cui l'opinione pubblica è più attenta al tema migratorio: l'80% dei rispondenti dichiara infatti di seguire costantemente news legate all'immigrazione, e più del 50% dichiara di ritenere che ci sono troppi immigrati. Eppure, questa quota scende a circa il 30% per quei rispondenti che, prima della domanda, venivano informati sul reale numero degli stranieri residenti nel Paese.

 Nel 2012, gli stranieri con regolare documentazione che vivevano in Italia erano infatti 4,9 milioni – circa l'8 per cento della popolazione totale. Difficile definire il numero di irregolari, ma alcune stime calcolano che questi siano tra i 500 e i 750mila. In totale, si tratta di una popolazione di quasi 6 milioni di persone. Secondo il rapporto "Legal and illegal carriers" pubblicato lo scorso anno dalla Fondazione Rodolfo de Benedetti, e curato dai ricercatori Francesco Fasani e Paolo Pinotti di Queen Mary e Bocconi, il 30% risiede nel Nord-Ovest, il 26% nel Nord-Est, il 27% al Centro e il restante 13% tra Sud e Isole. Gli oltre 2 milioni di stranieri che lavorano in Italia contano per più del 10 per cento del totale degli occupati. Il tasso di occupazione dei residenti stranieri, insomma, è molto elevato (il 63% nel 2011, contro il 52% degli italiani). Il 59% di essi è occupato nei servizi, il 20% nella manifattura, il 17% nelle costruzioni e il 4% nell'agricoltura. Per lo più, sono impegnati in occupazioni a bassa qualifica, che secondo alcune stime rimangono scoperte per il 26,7% a causa della mancanza di offerta di lavoro da parte di italiani. Di conseguenza, il reddito dei lavoratori stranieri è circa il 23% più basso rispetto al reddito medio dei lavoratori italiani, Nonostante questo, la maggioranza degli stranieri regolarmente soggiornanti ha un contratto di lavoro, quindi paga le tasse: il contributo previdenziale dei lavoratori stranieri è stato di circa 7,5 miliardi di euro nel 2008, il che va aggiunto a un gettito fiscale di 4,5 miliardi di euro.

 

Sempre secondo la Transatlantic Trend Survey, quasi il 70% degli Italiani (la quota più alta tra i paesi avanzati) teme che il fenomeno dell'immigrazione aumenti la criminalità. Nella maggior parte dei paesi Ocse, in effetti, la popolazione immigrata è sovrarappresentata nelle carceri: in Italia, ad esempio, pur contando solo l'8% del totale della popolazione, gli immigrati pesano per il 33,4% della popolazione carceraria. In questo ambito, ci sono forti differenze tra immigrati legali e illegali. Questi ultimi contano infatti per un 15-20% della popolazione straniera residente, ma per l'80% degli stranieri arrestati per crimini contro la proprietà e per il 60-70% di coloro arrestati per crimini violenti. Il 10% degli immigrati, quelli irregolari, compie insomma il 70% di tutti i crimini della popolazione straniera. Una dato che sembra confermare le preoccupazioni degli italiani, anche se solo in apparenza. Nel 2006, ad esempio, gli stranieri contavano per il 25% di tutte le condanne giudiziare ma per il 48% degli ingressi in carcere, il che contribuisce a una rappresentazione distorta del fenomeno. Gli stranieri residenti in italia, infatti, hanno un più tasso alto di incarcerazione prima della condanna finale: nel 2011 era il 47%, contro il 37% dei cittadini italiani. Inoltre, il 40% di essi entra in carcere anche per condanne inferiori ai tre anni, contro solo il 23% degli italiani. Infine, nel 2011 solo il 12,7% di essi ha usufruito di pene alternative, contro il 30,7% degli italiani.


In realtà, è noto nella letteratura sociologica ed economica che la propensione al crimine della popolazione immigrata è del tutto simile a quella dei nativi, al netto di elementi demografici (la popolazione immigrata è infatti solitamente composta da maschi giovani, quindi di per se piu proni a commettere crimini) e condizionatamente alla situazione socio-economica in cui questi si trovano. Una recente ricerca della Queen Mary University e dello University College of London ha ad esempio analizzato due recenti shock migratori che hanno colpito la Gran Bretagna, valutandone gli effetti in termini di tassi di criminalità. Il primo è legato all'ingresso, a partire dal 2004, di lavoratori dall'Est europa, con l'adesione a Schenghen di paesi del blocco ex-sovietico. In seguito a questo afflusso di stranieri, i tassi di crimini violenti in quelle zone di Inghilterra e Galless toccate dal fenomeno migratorio sono rimasti stabili, mentre sono diminuiti i crimini contro la proprietà. Il secondo flusso studiato è invece quello di rifugiati di fine anni '90. In questo caso, una sostanziale stabilità dei crimini violenti si accompagnò a una crescita dei crimini contro la proprietà. Come riportato dal The Economist, è lo stesso Francesco Fasani, co-autore della ricerca, a spiegare che la differenza nelle dinamiche è principalmente dovuta alla differente condizione sociale ed economica dei nuovi arrivati: i migranti provenienti dall'Est Europa, infatti, potevano sfruttare reti di conoscenze presenti già sul territorio inglese, così che molti riuscirono a ottenere dei lavori prima di trasferirsi. Al contrario, i rifugiati di fine anni '90 non avevano previsto di dover lasciare il proprio paese, e fu il governo inglese a decidere dove avrebbero vissuto – spesso in aree povere, dove i tassi di criminalità erano già alti. Durante la decisione sullo status di rifugiato, inoltre, per loro non fu possibile lavorare e gli furono concesse trasferimenti limitati di risorse. Ecco dunque la differenza negli effetti finali. La variabile fondamentale risulta quindi, spesso, quella istituzionale: gli irregolari, infatti, non possono lavorare nei settori formali dell'economia, aprire un'impresa, usufruire facilmente dei servizi medici, ecc, una condizione che conduce a una più elevata probabilità di commettere crimini.

 

Nel caso italiano, la sovra-rappresentazione degli immigrati nella popolazione carceraria potrebbe essere quindi legato non tanto alla propensione al crimine, quanto dal funzionamento inadeguato del sistema giudiziario e delle politiche migratorie. Queste, in Italia, si sono basate negli anni sul un sistema di quote e una serie di amnistie. Il sistema di quote, stabilito nel 1998 dalla Turco-Napolitano e confermato nel 2002 dalla Bossi-Fini, si basa su Decreti Flussi annuali (quello del 2014 prevedeva 15mila ingressi), che stabiliscono quanti lavoratori stranieri potranno entrare in Italia in un dato anno, ripartendoli sulla base del tipo di lavoro (stagionale e meno) e a livello regionale. Questi decreti, tuttavia, hanno svolto di fatto la funzione di legalizzare ex-post la posizione di lavoratori immigrati già presenti in Italia, dove erano occupati clandestinamente. La prassi, insomma, è rapidamente diventata quella di entrare nel paese clandestinamente (lasciando ad esempio scadere un visto turistico), trovare un datore di lavoro interessato a legalizzare la posizione professionale e poi aspettare un “decreto flussi” per fare domanda di accoglimento. In totale, a partire dalla loro introduzione, i decreti flussi hanno permesso l'ingresso (o regolarizzazione) di circa 1,7 milioni di lavoratori immigrati.

 

Ma poiché lo stock totale di migranti era comunque più alto dei quanto fosse possibile assorbire con singoli decreti flussi annuali, dal 1986 a oggi si sono registrate 7 “amnistie” (1986, 1990, 1995, 1998, 2002, 2009 e 2012, adottate in maniera rigorosamente bipartisan da governi di centro, di sinistra, di destra e di tecnici). Queste hanno legalizzato quasi 2 milioni di immigrati clandestini: ossia poco meno della metà della popolazione attualmente presente in Italia. Nel 2002, ad esempio, la legalizzazione di 650mila immigrati irregolari ha condotto a un aumento del 70% della popolazione totale di origine straniera. Quella delle amnistie, tuttavia, è stata una politica fallimentare sotto vari aspetti. Innanzitutto dal lato della stabilizzazione del numero di migranti irregolari. Che è cresciuto dopo ogni amnistia a livelli paragonabili a quelli precedenti, anche a rispecchiare un incentivo ad entrare illegalmente in attesa della successiva legalizzazione. Inoltre, analizzando gli effetti delle amnistie sulla criminalità, Fasani e Pinotti mostrano che queste avrebbero ridotto il numero di crimini, in particolare in quelle regioni con una più elevata percentuale di lavoratori stranieri sul totale. In particolare, secondo le loro stime, per ogni aumento del 10% nel numero di immigrati legalizzati c'è stata una riduzione dello 0,3% nei procedimenti contro gli immigrati nell'anno successivo al provvedimento di amnistia. Questo effetto, tuttavia, scompare due anni dopo i provvedimenti.


Un analogo discorso può essere fatto per gli effetti delle quote dei decreti flussi. Nel 2007, le richieste sono state inoltrate attraverso dei click-days (tre nel 2007, il 15 il 18 o il 21 dicembre). Collegandosi al sito del ministero dell'interno, i richiedenti potevano presentare la loro domanda in un orario fissato, seguendo la logica "first-come-first-served": le domande venivano accettate fino all'esaurimento dei permessi disponibili. Nel loro rapporto, Fasani e Pinotti utilizzano dati ministeriali sulle domande di permesso di soggiorno (sul momento in cui sono state presentate, a che ora, e da quale provincia), collegandoli a dati del Sistema di Indagine Interforze sulla storia criminale dei richiedenti, in modo da sapere se, nell'anno successivo al click-day questi avessero commesso crimini di qualche tipo. In questo modo, i due ricercatori hanno potuto studiare se l'ottenimento dello status di lavoratore regolare ha avuto un effetto sulla probabilità di commettere crimini. Questo dietro l'assunto che la logica del click-day è fondamentalmente casuale. Sebbene possono esserci differenze (ad esempio di attitudini e motivazione verso il proprio status legale, che possono essere legate alla probabilità di commettere crimini) tra un individuo che presenta la propria domanda appena possibile e uno che la presenta con molte ore di ritardo, non ci sarà invece molta differenza tra un individuo che clicca per inviare la domanda di permesso un minuto prima o un minuto dopo l'assegnazione dell'ultimo posto disponibile. Ciononostante, Fasani e Pinotti trovano che la concessione dello status di lavoratore regolarmente soggiornante (una questione di secondi, a volte) diminuisce di per se e in maniera significativa la probabilità di commettere crimini.


Insomma, le restrittive politiche italiane in termini di permesso di soggiorno hanno contribuito a elevare i tassi di criminalità registrati, incentivando periodi di lavoro irregolari in attesa della successiva sanatoria. Il che lascia con due alternative: o uno sforzo di polizia molto superiore di quello presente, oppure chiudere l'attuale gap tra l'effettivo numero di immigrati permessi dalle quote e il numero di potenziali lavoratori stranieri, spesso già presenti in Italia. La prima soluzione potrebbe disincentivare nuovi ingressi irregolari, dando l'immagine di un giro di vite sull'immigrazione clandestina, ma avrebbe costi fiscali enormi, probabilità di successo limitate, e peserebbe probabilmente sull'economia italiana. Infatti, un recente studio condotto da due economisti, Gianmarco Ottaviano e Giovanni Peri, mostra che, contrariamente a quanto spesso ritenuto, i lavoratori stranieri non competono al ribasso sui salari dei lavoratori dei paesi d'origine - anzi, la domanda di lavoratori stranieri è complementare (e non sostituta) di quella dei lavoratori d'origine così che, nelle zone a maggiore integrazione, si registra un aumento di produttività e salari grazie alla maggiore specializzazione produttiva. Stime confermate da un recente studio sui paesi Ocse, secondo cui un moderato aumento dell'immigrazione aumenterebbe il benessere dei lavoratori nativi dell'1,25 per lavoratori ad alta qualifica e dell'1% per lavoratori a bassa qualifica. L'Italia sarebbe tra i paesi che più beneficerebbero da una politica sull'immigrazione più informata.


@NicoloCavalli

Secondo l'Istat, nel 2013 si sono trasferiti oltreconfine circa 82 mila italiani, 14 mila in più rispetto al 2012, il record negli ultimi dieci anni. Si contano 4,482 milioni expat che hanno spostato la residenza all'estero, 141 mila in più in un anno. ...

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