Associazione 21 Luglio
14 07 2015
Roma, 14 luglio 2015 – Senza alcun preavviso, facendo saltare le positive consultazioni avviate nelle scorse settimane, questa mattina il Comune di Roma ha proceduto allo sgombero forzato dell’insediamento informale rom di Val d’Ala, nella periferia nord-est della Capitale. La comunità rom, 21 persone di nazionalità rumena tra cui tre bambini e due donne incinte, si trova ora, in segno di protesta, sotto l’Assessorato alle Politiche Sociali del Comune, accompagnata da una delegazione dell’Associazione 21 luglio.
È la seconda volta in un anno che gli stessi rom di Val d’Ala vengono sgomberati dallo stesso insediamento. Lo sgombero forzato del 9 luglio 2014 costò alle casse comunali circa 170 mila euro, considerando le operazioni di sgombero in quanto tali, l’accoglienza temporanea nella ex Fiera di Roma e il rimpatrio assistito delle famiglie. Solo alcuni mesi dopo, lo scorso febbraio, le stesse persone sono ritornate a Roma, reinsediandosi nella medesima area dalla quale erano stati sgomberati.
Il caso Val d’Ala, come ha più volte denunciato l’Associazione 21 luglio, assomiglia a un vero e proprio gioco dell’oca ed è emblematico di quanto sia miope, costosa ed inefficace la politica degli sgomberi forzati nella Capitale.
Lo sgombero odierno – il 59esimo realizzato nel 2015 dall’Amministrazione capitolina, a fronte dei 34 nell’intero anno precedente – è avvenuto alle prime luci dell’alba alla presenza degli uomini dei Carabinieri, della Polizia Municipale e della Guardia Forestale. L’azione è stata ordinata dal Gabinetto del Sindaco, previa comunicazione all’Assessorato alle Politiche Sociali. Presente sul posto anche il Presidente del Municipio III Paolo Marchionne.
L’azione si configura ancora una volta in violazione degli standard previsti dal diritto internazionale in materia di sgomberi. Nessuna notifica dello sgombero, né verbale né scritta, è stata consegnata alla comunità e nessuna soluzione alternativa abitativa adeguata è stata offerta alle famiglie rimaste da oggi all’addiaccio.
Soltanto pochi mesi fa, a febbraio 2015, la Commissione Europea contro l’Intolleranza e il Razzismo (ECRI) aveva richiamato l’Itala a causa dei continui sgomberi forzati che non rispettano le procedure internazionali perpetrati nel nostro Paese.
Nei mesi scorsi, in seguito alle notizie sull’imminenza dello sgombero a Val d’Ala, era stato avviato con a segreteria dell’Assessorato alle Politiche Sociali un positivo tavolo di consultazioni che avrebbe dovuto portare all’individuazione di soluzioni alternative percorribili ed efficaci, con il coinvolgimento delle singole famiglie. Il tavolo e il dialogo intrapreso avevano di fatto scongiurato lo sgombero forzato. Il caso Val d’Ala sarebbe diventato così il modello, per l’Amministrazione, per dare una sterzata rispetto alla politica degli sgomberi forzati e affrontare la questione degli insediamenti informali nella Capitale ascoltando le richieste sia degli abitanti del quartiere che delle comunità rom direttamente coinvolte.
Proprio oggi ci sarebbe dovuto essere un nuovo incontro tra una delegazione dell’Associazione 21 luglio, i rom di Val d’Ala e la segreteria dell’Assessore Francesca Danese per proseguire il positivo dialogo sulla questione. Lo sgombero forzato odierno, invece, manda in frantumi quella che poteva essere una preziosa occasione per offrire un segnale di rottura, nella Capitale, rispetto alle politiche fallimentari degli ultimi decenni.
«Siamo estremamente preoccupati dell’incapacità di questa Amministrazione di comprendere e gestire la questione degli insediamenti informali nella Capitale. Una incapacità che purtroppo degenera nella reiterazione di sgomberi forzati e nella sistematica violazione dei diritti umani di uomini, donne e bambini», afferma l’Associazione 21 luglio.
Il Manifesto
13 07 2015
Uno dei tanti luoghi comuni che circondano i rom vuole che questa minoranza si ostini a vivere nei campi rifiutando la sola idea di trasferirsi in una casa come tutti. Luogo comune da mesi alimentato insieme ad altri da una propaganda razzista verso le comunità rom e sinti che vivono nel nostro Paese (e composte nella maggioranza dei casi da cittadini italiani), e utile ad accrescere un allarme sociale buono solo per le campagne elettorali. Sarà un caso, ma passata l’ultima tornata elettorale sono diminuite in televisione le magliette con stampate sopra ruspe pronte ad «abbattere» i campi rom.
Eppure il tarlo razzista ha ben scavato in un’opinione pubblica sempre più allarmata. «Nella classifica dell’odio sociale rom e sinti oscillano sempre tra la prima e la terza posizione nelle indagini sociologiche. E’ come se questa moltiplicazione di odio avesse fatto cadere il tabù del razzismo, che oggi si dichiara senza più imbarazzi» spiega il senatore Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani del Senato introducendo i lavori del convegno «Superamento dei campi, esperienze a confronto». Un allarme che appare ancora più ingiustificato se si pensa che in Italia rom e sinti sono in tutto 160 mila, e di questi solo 40 mila vivono nei campi. A fronte di una popolazione di 60 milioni di abitanti.
Eppure non è scritto da nessuna parte che debba essere per forza così. In Europa ci sono Paesi con presenze molto più numerose di rom e sinti in cui è stato possibile raggiungere livelli di integrazione molto alti. In Spagna, ad esempio, all’inizio degli anni 2.000 vivevano 800 mila rom, dei quali 80 mila nella sola Madrid, città che contava nella sua area metropolitano 6,5 milioni di abitanti. La metà di quegli 80 mia erano stranieri e 13 mila risiedevano nei campi. «Nel 1998 prese avvio un programma di integrazione con la creazione di un ente pubblico e l’obiettivo di superare i campi, un progetto reso possibile grazie anche all’utilizzo dei finanziamenti previsti dal fondo europeo sociale», spiega il senatore del Pd Francesco Palermo. Nel 2011 si è cominciato a chiudere i campi, oggi praticamente tutti dismessi avviando un percorso di integrazione delle famiglie rom. «La cosa interessante — prosegue Palermo — è che il 96% delle famiglie riallocate dichiara oggi di sentirsi integrate e la metà ha acquistato la casa in cui vive».
E in Italia? Se si supera il fragore della propaganda razzista, si scopre che anche da noi non mancano esperienze positive. Tenute magari un po’ in sordina proprio per non aizzare le solite proteste. Ad Alghero, ad esempio, dagli anni ’80 vivevano un centinaio di rom in un campo alla periferia della città. A settembre del 2014 un censimento ne ha contati 51, tra i quali 30 minori. «Grazie a un finanziamento regionale di 250 mila euro — racconta il sindaco Mario Bruno — abbiamo avviato un progetto per trasferire queste persone in una casa. In città il 60% della case sono seconde abitazioni chiuse per gran parte dell’anno. Abbiamo presentato le famiglie ai proprietari, offrendo la garanzia del comune per l’affitto e lentamente siamo riusciti a vincere le differenze». Il 29 gennaio scorso il campo è stato chiuso definitivamente. Allo stesso tempo l’amministrazione ha avviato un piano di edilizia popolare per gli algheresi senza una casa.
Interessante anche l’esperienza di Torino. Qui già nel 1998 era stato avviato un piano di ricollocamento in casa che ha coinvolto più di 500 famiglie rom. Poi la crisi economica ha costretto molte di queste a tornare nei campi per l’impossibilità di continuare a pagare un affitto, per quanto popolare. «Un problema che non riguarda ovviamente solo i rom ma anche i torinesi, al punto che stiamo pensando a nuove forme di edilizia pubblica», spiega il vicesindaco Elide Tisi. Due anni fa è stato avviato un progetto per circa 600 rom che vivevano in un campo situato in una area considerata a rischio. E’ stato stipulato un «patto di emersione», in cui i rom si sono impegnati a iscrivere i bambini a scuola e a rispettare regole della convivenza, e l’amministrazione a trovare degli alloggi in cui trasferirli, ma anche un lavoro nei paesi di origine, favorendo così i rimpatri volontari.
A Roma, invece, 25 famiglie rom sono state alloggiate in uan casa popolare grazie a un bando del 2012 indetto dall’allora giunta Alemanno. Si stanno inoltre costituendo 5 cooperative di donne rom.
A Milano, infine, il comune sgombera i campi offrendo però subito un’alternativa, come spiega l’assessore all sicurezza Marco Granelli: «Inizialmente si tratta di centri di emergenza sociale dove i rom possono restare al massimo per sei mesi, durante i quali viene avviato un percorso di integrazione. Ma ci sono anche appartamenti gestiti insieme al terzo settore dove le famiglie alloggiano per tre anni durante i quali anziché pagare l’affitto destinano i soldi a un fondo da utilizzare per l’avvio di un’attività. Sono i primi passi verso un’abitazione definitiva».
l'Espresso
09 07 2015
Iniziare dalle persone rom, dai singoli individui e cittadini, deponendo i provvedimenti adottati per categoria e disarticolando un'idea di rappresentanza che si è ormai dimostrata inutile; partire dalle specifiche necessità, competenze e aspirazioni per elaborare percorsi di inclusione diversi da persona a persona. Questo è il cuore della proposta per il superamento dei campi rom contenuta nelle delibere di iniziativa popolare "Accogliamoci": un cambio di prospettiva radicale rispetto a decenni di politiche inefficaci perché destinate a un gruppo indistinto, come se "i rom" fossero un corpo monolitico e non un insieme di individui, ciascuno con la propria singolarità. Del resto è proprio su questa semplicistica idea di categoria, sia pure declinata in una direzione diversa, che hanno fatto leva i peggiori pregiudizi, quelli che tuttora attraversano dolorosamente il paese: i rom che rubano, che non vogliono lavorare, che non vogliono integrarsi, che sono culturalmente diversi dagli altri.
È possibile rispondere a quei pregiudizi, è ragionevole pensare di affrontarli e disinnescarli utilizzando la loro stessa prospettiva? È ipotizzabile venirne a capo continuando a riferirsi genericamente ai rom, anziché spostare lo sguardo sulle singole persone?
Evidentemente no. Il fallimento delle politiche degli ultimi decenni sta tutto qua: nel voler fronteggiare una questione che riguarda qualche migliaio di individui muovendosi tra le due deformazioni del pregiudizio verso un gruppo etnico e dell'illusione di poterlo rappresentare nella sua totalità, azzerando le differenze, spesso assai rilevanti, che lo attraversano. Il risultato, per ora, nella sola città di Roma, è di 25 milioni di euro l'anno di spesa, con gli effetti che tutti conosciamo.
Quello che allora serve è un cambio di prospettiva difficile da accettare e forse perfino da comprendere, per chi fino ad oggi ha vissuto e ha ragionato, in un modo o nell'altro, nell'ottica del gruppo: eppure è indispensabile, se si ha davvero l'ambizione di restituire ai rom, alle singole persone rom, la qualifica di individui e cittadini che dovrebbe spettare loro come spetta a chiunque altro; se ai rom, finalmente, si vuole dare voce davvero, al di là della necessità di salvaguardare un patrimonio culturale che può restare intatto anche nella valorizzazione dell'individualità, e che anzi proprio grazie a quella valorizzazione potrebbe finalmente mettersi al riparo dal degrado e dalla marginalità, sopravvivendo invece di scomparire: inclusione senza tentativi di assimilazione.
Superare i campi rom superando la segregazione, da chiunque essa venga promossa e malgrado le sue intenzioni, attraverso un'indagine conoscitiva sulla situazione di ogni singolo nucleo familiare e l'implementazione di un piano di inclusione sociale, abitativa e scolastica con tempi stabiliti e monitorati, utilizzando i finanziamenti europei per finanziare i progetti abitativi non soltanto dei rom, ma anche degli altri cittadini. Ecco come si può fare. Un cambio di prospettiva e un modello che in altri Paesi, come ad esempio la Spagna, hanno funzionato. A Madrid, nel 2007, vivevano circa 70.000 persone rom, di cui 12.000 nei campi: a partire dal 2011 il Comune ha deciso di chiudere i campi e di investire in educazione e formazione, diventando in pochi anni un modello in tutta Europa. Finora sono stati chiusi 110 insediamenti e 9.000 persone hanno avuto accesso ad alloggi e a percorsi di integrazione. L'obiettivo è chiudere definitivamente tutti i campi entro il 2017.
Tutti i progetti sono stati finanziati con fondi europei destinati all’integrazione dei cittadini rom: ma il nostro paese non ha mai fatto richiesta di quei fondi, preferendo sperperare milioni di euro per la politica di segregazione nei campi. Sarebbe il caso di cambiare prospettiva, anche qua.
Alessandro Capriccioli
* Alessandro Capriccioli, segretario di Radicali Roma è membro comitato promotore di Accogliamoci”, un'iniziativa promossa da Radicali Roma, Associazione 21 luglio, A buon diritto, Arci Roma, Cild, Possibile,Un ponte per, Zalab, Asgi.