La Repubblica
20 06 2013
Sei siti storici siriani sono in pericolo per via delle violenze che stanno devastando il paese da oltre due anni. E' la denuncia dell'Unesco, il cui comitato si è riunito in questi giorni in Cambogia, che ha inserito i sei luoghi nella lista dei siti Patrimonio dell'Umanità a rischio. Tra i siti, la città vecchia di Aleppo che ha subito "danni considerevoli". Per l'Unesco le informazioni circa distruzioni "parziali" dei sei siti messi nella lista dei patrimoni a rischio non sono sempre verificabili e spesso diffuse soltanto sui social network. Tuttavia, "data la situazione di conflitto, non ci sono più le condizioni per garantire la conservazione e la tutela del valore universale eccezionale di questi sei beni". Aleppo in particolare, sottolinea l'organizzazione, "ha subito danni considerevoli".
Oltre alla città vecchia di Aleppo, gli altri siti siriani considerati Patrimonio dell'Umanità e inseriti nella lista dei beni a rischio sono: la città vecchia di Damasco, quella di Bosra, il sito archeologico di Palmira, Krak dei Cavalieri e Qal'at Salah El-Din e antichi villaggi del nord.
Osservatorio Iraq
20 06 2013
Sono ormai 1.450.000 i rifugiati siriani ufficialmente registrati, e 200 mila quelli in ‘lista d’attesa’. Questi gli ultimi dati diffusi dell'Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR), numeri che fotografano quello che è già diventato uno dei conflitti più sanguinosi del Medio Oriente.
Se poi si contano tutti quelli che cercano rifugio oltreconfine ma senza registrarsi, i disperati in fuga diventano almeno due milioni. Nessuno poteva prevedere un simile esodo. All'inizio della crisi, la migrazione avveniva con il contagocce, successivamente si è trasformata in flusso regolare e adesso è diventata un torrente in piena che minaccia di travolgere anche i paesi vicini.
Questa improvvisa accelerazione è strettamente legata alle dinamiche del conflitto. Durante il primo anno, le violenze non avevano ancora raggiunto i livelli attuali e solo poche migliaia di siriani avevano deciso di scappare dal paese.
A fine 2011, l'Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR) aveva registrato soltanto 10.265 rifugiati in tutta la regione.
La battaglia di Homs nel febbraio 2012 segna una svolta nel conflitto: è il primo utilizzo sistematico da parte dell'esercito siriano delle armi pesanti e dell'artiglieria. Il flusso di persone inizia lentamente ad aumentare. Nel luglio 2012, l'UNHCR supera la soglia dei 100.000 rifugiati registrati.
La seconda ondata arriva durante l'estate: esplodono le battaglie di Aleppo e Damasco, iniziano i bombardamenti aerei.
Il conflitto diventa sempre più violento ed entra in un vicolo cieco in cui né il governo né le forze di opposizione sembrano avere la meglio. A giugno 2013 si contano più di 90.000 morti e oltre 4.000.000 di sfollati. L'economia nazionale collassa, la disoccupazione sale alle stelle, l'inflazione aumenta, i beni di prima necessità diventano scarsi e troppo cari. Di conseguenza negli ultimi cinque mesi il numero di rifugiati supera ogni previsione sino a raggiungere le cifre attuali, attorno al milione e mezzo di persone.
E i numeri sono in continua crescita: ogni giorno l'UNHCR registra in media tra 5.000 e 10.000 nuovi arrivi.
Grandi masse che hanno colto tutti impreparati. Le Nazioni Unite, con la collaborazione dei governi locali e di un grande numero di Ong, hanno messo in piedi gradualmente un sistema di assistenza umanitaria: ma la sua realizzazione è stata lenta e difficoltosa, e i fondi insufficienti, con la conseguenza che centinaia di migliaia di siriani sono tuttora scoperti e non ricevono gli aiuti necessari.
I principali paesi di accoglienza sono il Libano, la Giordania, la Turchia, l'Iraq e l'Egitto; ma l'ingresso per i profughi non è sempre garantito. Finora i governi di Beirut e del Cairo hanno mantenuto aperte le loro frontiere e i casi di respingimento o deportazione di rifugiati sono stati molto limitati.
Il governo di Amman ha lasciato entrare liberamente i civili siriani, ma ha imposto delle forti restrizioni ai palestinesi siriani. Molti di loro sono stati respinti e costretti a restare in Siria; molti altri sono stati internati nel campo speciale di Cybercity, senza la possibilità di muoversi liberamente.
In Turchia, inizialmente il governo ha mantenuto le frontiere aperte, ma dall'autunno del 2012 ha cercato di limitare il flusso imponendo rigidi controlli ai posti di confine e respingendo un gran numero di profughi. In tal modo ha incoraggiato la creazione spontanea di diversi campi di sfollati all'interno della Siria, sprovvisti di molti servizi di base e possibili bersagli di bombardamenti aerei o azioni violente.
In Iraq la grande maggioranza dei rifugiati siriani è di origine curda ed è stata accolta nella regione autonoma del Kurdistan iracheno, la più stabile e sicura del paese. Ciò è dovuto anche al fatto che il governo di Baghdad, nell’ottobre del 2012 ha chiuso il posto di frontiera di Al Qa'im, limitando fortemente l'accesso dei rifugiati alle regioni arabe del paese (anche se ora è stato riaperto).
In questi cinque paesi le strutture di accoglienza sono ampiamente insufficienti: soltanto un quinto dei siriani è alloggiato in campi attrezzati. I campi di Zaatari in Giordania (che ospita oltre 100.000 persone) e Domiz nel Kurdistan iracheno (circa 50.000), gestiti dai governi locali in collaborazione con l'Onu e con varie Ong internazionali, garantiscono la sussistenza ma non offrono delle condizioni di vita dignitose: sono sovrappopolati, i bagni e le cucine comuni inadeguati, e le condizioni igieniche preoccupanti.
Il governo giordano ha promesso e rinviato più volte, sin dall'autunno del 2012, la costruzione di un secondo grande campo; dopo molti ritardi, dovrebbe essere finalmente aperto nell'estate del 2013. Il governo turco invece ha costruito con le sue risorse 17 campi più ridotti nelle regioni sud-orientali, ai confini con la Siria, in cui alloggiano circa 200.000 persone. Le Nazioni Unite e le Ong non sono autorizzate a lavorare in questi campi, ma i servizi di base sono garantiti e le condizioni di vita sono abbastanza dignitose.
Infine, in Libano le autorità hanno da subito escluso la costruzione di campi di rifugiati per un motivo strettamente politico: la paura di ripetere l'esperienza dei profughi palestinesi.
La grande maggioranza dei siriani abita quindi nelle campagne e nelle città dei paesi d'accoglienza, e riceve aiuti umanitari più limitati: le Nazioni Unite coprono una parte del fabbisogno di cibo con un sistema di buoni alimentari, mentre una miriade di piccole e grandi Ong offrono una serie di servizi sociali, sanitari e educativi. Ma non lavoro e alloggi. Le famiglie con maggiori risorse riescono ad affittare una casa o un appartamento con i loro risparmi. Molti altri non possono permetterselo e sono costretti a sopportare condizioni degradanti, all'interno di edifici in costruzione, garage, magazzini e scuole abbandonate.
In Libano la situazione è particolarmente drammatica, sia per l'alto costo della vita che per la scarsità di edifici residenziali a disposizione, situazione che costringe molte persone ad alloggiare in tende e baracche. Nelle zone rurali sono sorti sorta una moltitudine di accampamenti spontanei, spesso lontani dagli assi principali e dai servizi pubblici, e privi di acqua potabile e attrezzature igieniche.
La grande presenza di rifugiati costituisce poi un enorme carico sulle economie e sulle società dei paesi di accoglienza. Ciò è evidente soprattutto in Libano e in Giordania, in cui il numero di siriani (oltre mezzo milione in ciascun paese) è molto elevato rispetto alla ridotta popolazione locale (rispettivamente quattro milioni e sei milioni). La pressione demografica dei rifugiati ha causato un raddoppio degli affitti e un forte aumento dei prezzi del cibo e dei beni di prima necessità.
Se da un lato la piccola e media borghesia dei paesi di accoglienza sta facendo affari proprio grazie all’arrivo dei siriani - affitti più alti del normale, prodotti a prezzi rincarati, manodopera a bassissimo costo - dall'altro la popolazione povera si trova ancora più in difficoltà. Fattori economici che hanno causato un aumento graduale delle tensioni tra gli abitanti locali e i rifugiati: diversi gli episodi di violenza e non si esclude un peggioramento delle relazioni nei prossimi mesi.
All'impatto economico della crisi, si aggiungono - in alcuni paesi - le tensioni politiche.
In Turchia una parte della popolazione, tra cui molti cittadini di confessione alevi e molti turchi arabofoni di confessione alawita, ha protestato diverse volte contro la grande presenza di rifugiati siriani e contro il sostegno del governo di Ankara all'opposizione siriana. Ci sono state notevoli tensioni culminate in un attentato esplosivo a Reyhanli, una cittadina accanto alla frontiera siriana, nel maggio del 2013.
In Libano le diverse forze politiche hanno assunto posizioni contrapposte sul conflitto in Siria: la coalizione dell'8 marzo difende il governo siriano, mentre quella del 14 marzo si è schierata con l'opposizione. L'appoggio politico si è trasformato gradualmente in sostegno militare: mentre Hezbollah è entrato in Siria per combattere a fianco dell'esercito regolare, i partiti sunniti hanno facilitato il passaggio di armi e di combattenti libanesi a favore dell'opposizione.
Finora però il paese dei cedri è riuscito a mantenere una certa stabilità, nonostante una serie di scontri aperti tra le opposte fazioni nella città di Tripoli e in alcune zone di frontiera.
La situazione potrebbe peggiorare con il prolungarsi del conflitto in Siria, anche se le tensioni esistenti si ripercuotono già anche sui rifugiati siriani: molti di loro si sentono inquieti e si stabiliscono per precauzione nelle zone abitate da membri della loro stessa confessione.
In conclusione, il numero di rifugiati continuerà a crescere e la loro situazione a peggiorare, mentre i controlli alle frontiere si faranno più rigidi.
Allo stesso tempo i paesi di accoglienza saranno sempre più sotto pressione e a rischio destabilizzazione, soprattutto il Libano dove i siriani non sono più i benvenuti, con la conseguenza che qualcuno di loro, schiacciato dall'insostenibile costo della vita, si arrischia persino a tornare al suo paese, sfidando il pericolo dei bombardamenti e degli scontri armati.
Ciononostante, i fondi internazionali per gli aiuti rimangono insufficienti a soddisfare i bisogni di tutti i rifugiati. La loro situazione è spesso considerata come un problema accessorio rispetto agli sviluppi politici e militari del conflitto in Siria. Ignorata e dimenticata dal mondo, la crisi umanitaria dei siriani avanza inesorabilmente verso un punto di rottura.
*I contenuti di questo articolo sono stati realizzati nell'ambito del progetto Focus on Syria. I dati sui rifugiati siriani sono aggiornati al 18 giugno 2013.
La Repubblica
05 06 2013
DAMASCO - La conferma arriva dalle Nazioni Unite: in Siria si combatte utilizzando anche le armi chimiche. Nel rapporto presentato a Ginevra dalla commissione d'inchiesta dell'Onu sulle violazioni dei diritti umani nel conflitto in Siria, basato su interviste con vittime, personale medico e altri testimoni, gli autori sono giunti alla conclusione che "ci sono fondati motivi di ritenere che quantità limitate di sostanze tossiche siano state utilizzate". Almeno in quattro attacchi: a Damasco, a Idlib e in due occasioni ad Aleppo. "Non è stato possibile, sulla base delle prove disponibili, determinare i precisi agenti chimici utilizzati e chi ne avrebbe fatto uso", precisano gli autori del rapporto. Tuttavia è improbabile che a utilizzarle siano stati i ribelli, perchè tutte le denunce raccolte erano contro le autorità governative fedeli al regime di Bashar Al-Assad.
Crimini di guerra realtà quotidiana. La prova definitiva, assicura la commissione d'inchiesta, arriverà solo dopo i test sui campioni prelevati direttamente dalle vittime o sul sito del presunto attacco. Una cosa però è certa:"Il conflitto in Sira ha raggiunto nuovi livelli di brutalità" e i"crimini di guerra e contro l'umanità sono diventati una realtà quotidiana" nel Paese. Il rapporto, che copre il periodo tra il 15 gennaio ed il 15 maggio, documenta almeno diciassette possibili massacri. Le forze governative si sarebbero macchiate di "omicidi, torture, stupri, spostamenti e sparizioni forzate", ma anche "esecuzioni sommarie, arresti illegali e saccheggi" ai danni degli oppositori. Crimini di cui sarebbero colpevoli anche i ribelli, accusati di mettere in pericolo la popolazione posizionando obiettivi militari in zone civili.
Il flusso di armi in Siria. L'arrivo di armi ai diversi gruppi in lotta è l'altro problema denunciato dal rapporto: "Il flusso di armi in Siria - si legge nel documento - nuoce alle prospettive di una soluzione politica del conflitto, alimenta la moltiplicazione degli attori armati ai livelli nazionale e regionali ed ha conseguenze devastanti per i civili". Per i quattro esperti della Commissione, la comunità internazionale dovrebbe contrastare l'escalation del conflitto in Siria, limitando i trasferimenti di armi. Una rassicurazione è arrivata dal presidente Vladimi Putin: il capo del Cremlino ha rivelato che l'accordo per il trasferimento dei sistemi di difesa aerea avanzati S-300 a Damasco non è ancora stato attuato perché "si tratta di un'arma seria e non vogliamo turbare l'equilibrio nella regione".
La linea rossa. Il presidente Usa Barack Obama aveva detto che l'uso di armi chimiche sarebbe stata "una linea rossa" da non oltrepassare, ma finora alle minacce non sono seguite risposte concrete da parte della comunità internazionale. Intanto, dall'inizio degli scontri, secondo l'Onu hanno perso la vita più di 70 mila persone.