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Il mare davanti alla Libia brulica di uomini, donne e bambini in fuga dalla Siria e dall'Eritrea. Sono 1.700 i profughi raccolti tra ieri e venerdì sui barconi in avaria nel Canale di Sicilia e trasportati in Sicilia. Cargo, mezzi della Marina militare, motovedette: tutti impegnati in questa ennesima operazione di soccorso che - secondo le previsioni del Viminale - segna l'avvio di una massiccia stagione di sbarchi.
La Stampa ...

Amnesty International
10 04 2015

Siria, tra barili bomba e cecchini: Amnesty International denuncia la sofferenza dei civili assediati a Yarmouk

Secondo Amnesty International, almeno 18 civili tra cui una bambina di 12 anni e un operatore umanitario sono stati uccisi a Yarmouk da quando il gruppo armato che si è denominato Stato islamico ha attaccato e conquistato gran parte del campo per rifugiati palestinesi.

Altre migliaia di persone sono a rischio poiché, in risposta all'occupazione del campo da parte dello Stato islamico, le forze governative siriane hanno intensificato i cannoneggiamenti e gli attacchi aerei, ricorrendo anche ai barili bomba. I civili sono anche finiti sotto il fuoco dei cecchini e in mezzo agli scontri tra lo Stato islamico e un altro gruppo armato, composto prevalentemente da palestinesi, denominato Aknaf Beit al-Maqdis.

"Per i civili intrappolati a Yarmouk, ogni giorno è una straziante lotta per la sopravvivenza. Dopo aver sofferto un crudele assedio governativo durato due anni, ora sono bloccati dal fuoco dei cecchini e dall'intensificarsi dei cannoneggiamenti e degli attacchi aerei" - ha dichiarato Hassiba Hadj Sahraoui, vicedirettrice del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International.

Nonostante l'escalation dei combattimenti, sia le forze siriane che lo Stato islamico impediscono l'accesso agli aiuti medici e umanitari, privando così decine di feriti delle cure mediche e dell'assistenza necessarie per salvare le loro vite. Una delle due strutture mediche ancora funzionanti a Yarmouk, l'Ospedale Palestina, è stato colpito il 1° aprile da un missile che ha ferito sei volontari.

"Le principali ferite sono causate dalle bombe e dai cecchini. Le peggiori patologie riguardano il cuore e i polmoni, cui vanno aggiunte la diarrea e le infezioni, il tutto acuito dalla malnutrizione. C'è grave scarsità di medicine e di attrezzature mediche, abbiamo bisogno urgente di liquidi per la reidratazione, sacche di sangue e antibiotici" - ha riferito un operatore sanitario ad Amnesty International.

A Yarmouk non vi sono più organizzazioni di soccorso.

"C'è un disperato bisogno che le agenzie umanitarie indipendenti entrino immediatamente e senza ostacoli a Yarmouk, per cercare di alleviare questa sofferenza senza fine" - ha sottolineato Sahraoui.Secondo attivisti locali, la 12enne Zeinab Daghestani è stata uccisa da un cecchino il 7 aprile mentre cercava di spostarsi verso la zona meridionale di Yarmouk, più tranquilla. Tra gli altri civili uccisi c'è Majed al-Omari, operatore umanitario della Fondazione Jafra, un'organizzazione di soccorso, ucciso dal fuoco incrociato il 3 aprile. Jamal Khalefe, 27 anni, media-attivista, è stato ucciso lo stesso giorno durante un pesante bombardamento. Un altro giovane rifugiato palestinese, Hussein Taha, è stato ucciso il 6 aprile quando la sua abitazione è stata centrata da un barile bomba.

Gli abitanti di Yarmouk hanno riferito ad Amnesty International che nell'ultima settimana sono stati sganciati circa 25 barili bomba, per lo più di notte.

I civili del campo rifugiati sono in trappola tra le violenze dello Stato islamico e i bombardamenti delle forze governative. Le zone intorno a via Palestina, via Mansoureh e del cimitero dei martiri, ancora prevalentemente abitate da civili sebbene alcuni combattenti dello Stato islamico vi abbiano preso posizione, sono bersaglio di attacchi governativi.

"L'uso dei barili bomba contro una popolazione assediata e alla fame è l'ennesima dimostrazione che il governo siriano viola il diritto internazionale umanitario e mostra disprezzo verso i civili. Risparmiare la vita di questi ultimi non pare un'opzione da prendere in considerazione quando le sue forze decidono di bombardare una zona" - ha commentato Sahraoui.

"Colpire con armi pesanti e con barili bomba aree popolate da civili è un crimine di guerra. Tutti gli attacchi di questo tipo devono essere fermati immediatamente. Tutte le parti in conflitto devono prendere ogni precauzione possibile per ridurre al minimo i danni ai civili" - ha aggiunto Sahraoui.

"Per la popolazione civile va sempre peggio: siamo senza acqua, senza cibo, senza medicinali" - ha detto ad Amnesty International un abitante di Yarmouk.

Nel campo rimangono assediati circa 18.000 civili. Quasi due anni di brutale assedio da parte del governo, dal luglio 2013, hanno causato una devastante crisi umanitaria. Da luglio 2013 a marzo 2014 sono morte almeno 194 persone, soprattutto per denutrizione e assenza di cure mediche.

Un attivista di Yarmouk ha comunicato ad Amnesty International che altri due civili sono morti di fame questa settimana."La dimensione della sofferenza e della disperazione a Yarmouk è inimmaginabile. Tutte le parti in conflitto devono garantire immediato accesso alle agenzie umanitarie per venire incontro alle necessità della popolazione civile e aiutare coloro che vogliono lasciare il campo per raggiungere zone più sicure" - ha concluso Sahraoui.

L'entrata dello Stato islamico a Yarmouk, avvenuta il 1° aprile, sarebbe stata facilitata da Jabhat al-Nusra, un gruppo armato i cui combattenti erano già presenti nel campo e si stavano scontrando con altri gruppi tra cui Aknaf Beit al-Maqdis, che si ritiene vicino all'organizzazione palestinese Hamas, e Jaish al-Islam. Alcuni abitanti hanno riferito che tre combattenti palestinesi sono stati decapitati dallo Stato islamico dopo essere stati catturati.

Prima del 2011, Yarmouk era il più grande campo per rifugiati palestinesi della Siria e ospitava anche molte migliaia di cittadini siriani.

Per interviste:Amnesty International Italia - Ufficio Stampa
Tel. 06 4490224 - cell. 348 6974361, e-mail: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

 

la Repubblica
09 04 2015

Sul volo Alitalia da Istanbul a Roma, Aya si toglie l'hijab, il velo delle donne musulmane. Per lei, siriana, che ha 19 anni, indossarlo è una costrizione e con quel gesto liberatorio, le sembra si apra una nuova vita. Sul futuro della ragazza pesa però una grossa ipoteca: un condrosarcoma nel suo calcagno sinistro. In Siria, dopo l'operazione per rimuovere il cancro, i medici le hanno detto che il tumore è tornato. Le resta poco da vivere se non accetta di farsi amputare il piede. "Preferisco morire piuttosto", risponde.

Quei duemila euro spesi per il passaporto (falso). Ma su quel volo i pensieri cupi hanno lasciato il posto ad un'unica certezza: l'Europa è il mondo libero e il peggio sembra ormai alle spalle. Seduto accanto a lei c'è Fady, il suo compagno, arrivato dalla Svezia, dove si è rifugiato nel 2013 in fuga da Homs, luogo simbolo della carneficina siriana. Nella corsa contro il tempo e contro il tumore, Fady ha comprato per Aya un passaporto falso, spendendo 2000 euro. Il volo da Istanbul è uno di quelli considerati a rischio di immigrazione illegale dalla polizia di frontiera di Fiumicino. L'aeroporto di Roma è uno degli accessi all'area Schengen più a sud d'Europa, una porta per i popoli del Mediterraneo. Così gli agenti si preparano a controllare i passeggeri già all'atterraggio, molto prima del controllo passaporti.

Fady farebbe di tutto per Aya. Si è innamorato di lei a prima vista, quando l'ha vista in un video a casa del cugino, che vive in Germania ed ha sposato la sorella di Aya. La prima volta le ha parlato via Skype, lui in salvo in Europa, lei ancora in Siria. Aya non vorrebbe sposarsi perché, dice, potrebbe presto morire di cancro e non vuole rendere infelice un uomo. Fady allora cerca un sistema per portarla in Svezia. Prova con il ricongiungimento familiare, ma servono dai sei mesi a un anno. Chiede all'ambasciata tedesca in Libano un visto per le cure mediche, ma viene negato per ragioni burocratiche. "La donna che amo è in pericolo, non solo per la guerra, ma anche per la malattia" protesta Fady.

Rischiare il tutto per tutto. Decide così di rischiare il tutto per tutto. Aya e Fady si incontrano in Libano. Si sposano. Ripartono dalla Turchia con il passaporto falso per lei. Nel viaggio verso la Svezia decidono di fare scalo a Roma. "Chissà com'è bella la città eterna - pensa Aya - con i suoi monumenti, la sua cultura". Per questo chiede al marito di poterci trascorrere qualche giorno in luna di miele. "Sapevo che era illegale farla viaggiare con un passaporto falso, ma ero forte, perché sentivo che era la cosa giusta da fare per salvarla, dopo aver tentato ogni via legale", racconta oggi l'uomo da una casa di Acilia.

L'arrivo a Fiumicino. È il 6 ottobre 2014 quando la coppia atterra all'aeroporto Leonardo Da Vinci. I poliziotti in borghese fanno i controlli sotto l'aereo. Vedono quella ragazza, che nella foto sul passaporto porta l'hijab, mentre lì davanti a loro non lo porta. tutti e due vengono così portati negli uffici della polizia al Terminal 3, a destra del controllo passaporti. Un corridoio e una serie di stanze con le sedie rosse. Più si aggrava la posizione, più si scivola in fondo. Gli agenti trovano nello zaino di Fady il vero passaporto della donna, quello siriano. L'uomo ricorda quei momenti che resteranno per sempre impressi nella sua mente. "Ho provato a spiegare che Aya era mia moglie, ma il certificato di matrimonio era in arabo e non ci hanno creduto. Ho provato a dire loro che si trattava di una donna malata, ma non è servito".

Moglie e marito vengono separati. Tolgono loro il telefono e il passaporto. Per lui si aprono le porte del carcere di Civitavecchia, con l'accusa di essere un trafficante. Lei viene costretta a salire sul primo volo per Istanbul. Prima di partire, riesce a lasciare un biglietto con il numero di telefono della sorella che vive in Germania ad un algerino in attesa di essere respinto. Quando la sorella di Aya e suo marito ricevono la chiamata, si mettono subito in marcia verso Roma. Guideranno per 15 ore, verso Fiumicino.

Dietro le sbarre a Civitavecchia. Nei due giorni che passa in carcere, Fady pensa sempre alla sua donna. "Siamo in Europa - riflette fra sé e sé - al massimo le prenderanno le impronte e le faranno chiedere asilo in Italia, hanno detto che la rimandano in Turchia solo per spaventarci". Quando esce dal carcere cerca un modo per raggiungerla. Chiede agli agenti di poter fare una telefonata, ma non gli viene concesso. Non ha un soldo. Non vuole prendere un treno senza biglietto, per timore dei controlli. Non gli resta che andare a piedi per fino a Fiumicino: 70 chilometri. "Ogni tanto chiedevo informazioni - racconta Fady - per sapere se ero sulla strada giusta e la gente mi prendeva in giro, pensavano fossi pazzo", ricorda. Dopo diciotto ore di cammino, arriva a Fiumicino e apprende dalla polizia che Aya è stata davvero rimandata in Turchia. All'aeroporto di Istanbul la ragazza ha rischiato di essere rispedita in Siria. Pericolo scampato per un soffio, grazie alla sorella che dall'Europa le ha comprato un biglietto aereo Istanbul - Beirut. Così Aya si ferma in Libano.

Il rientro in Italia di Aya. Riesce incredibilmente a rientrare in Italia un mese dopo, con un permesso per cure mediche, grazie all'intervento decisivo del senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione Diritti Umani del Senato, allertato da una rete di attivisti e dalla giornalista dell'Ansa Marinella Fiaschi. Manconi ha tenuto le fila tra il Ministero dell'Interno, l'Ambasciata italiana in Libano, la famiglia e l'Ospedale San Camillo, dove la prende in cura il professor Santoro, chirurgo oncologo.

La storia prende così una buona piega. Da questo momento in poi, la storia sembra andare in discesa. La coppia di sposi si riabbraccia in aeroporto. Grazie ad una biopsia, si scopre poi che la diagnosi dei medici siriani era sbagliata: le masse presenti nel calcagno non sono tumorali, per il momento. Aya deve sottoporsi a controlli periodici e continuare a monitorare la situazione. Fady è stato nel frattempo condannato ad un anno e mezzo di carcere, ma è libero con la condizionale. "Il giudice ha capito che non sono un trafficante ed ho falsificato il passaporto di Aya solo per ragioni umanitarie", spiega oggi dall'appartamento alla periferia di Roma, dove ora gli sposi sono bloccati. "Il problema è trovare un modo legale per farli arrivare entrambi in Svezia", specifica l'Associazione A Buon Diritto del senatore Manconi. Lui potrebbe partire subito. Ma non vuole lasciare qui sua moglie. Le pratiche per il ricongiungimento familiare sono state avviate dall'ambasciata svedese in Italia. Non si sa quanto tempo ci vorrà.

Intanto a Fady gli bloccano lo stipendio. Nel frattempo, Fady si vede bloccare il suo stipendio da rifugiato in Svezia, perché non è presente sul territorio. A Roma, la coppia si sostiene grazie alla solidarietà ricevuta da Marinella Fiaschi, che li ha ospitati in casa, poi ha attivato una colletta per pagare le spese legali e per prender loro un appartamento in affitto. Migliaia di euro sono ancora necessari per la parcella dell'avvocato. "I soldi possono darteli tutti, l'amore no. L'amore è molto più costoso - dice Fady - Marinella per me è come una seconda madre italiana. L'affetto che tutte queste persone ci hanno dato in Italia è straordinario. Ora sappiamo che a Fiumicino l'errore è stato commesso da un funzionario, non da tutto un Paese". Parole di un uomo che conosce bene il prezzo dell'amore. In fuga e in lotta contro le frontiere e i tribunali per strappare alla morte la donna che ha sposato.

Raffaella Cosentino

La bambina che si è arresa al fotografo

  • Mercoledì, 01 Aprile 2015 10:25 ,
  • Pubblicato in Flash news

The Post Internazionale
01 04 2015

L'immagine del fotoreporter che ha spezzato il cuore della rete
di Sabika Shah Povia

Hudea è una bambina siriana di quattro anni. Ha percorso circa 150 chilometri dalla sua casa di Hama, in Siria, per poter raggiungere il campo profughi di Atmeh, nel nord del Paese, insieme agli unici superstiti della sua famiglia: la madre e due fratelli.
Osman Sağırlı è un fotogiornalista turco che crede che per documentare al meglio la sofferenza degli sfollati, specie in zone di guerra come la Siria, sia necessario catturare gli sguardi dei bambini all'interno dei campi.

“Sono i bambini a riflettere i loro sentimenti con innocenza”, ha detto in un'intervista alla Bbc.
Hudea conosce bene gli orrori della guerra. Il suo sguardo si incrocia con quello del fotografo turco che le punta contro la macchina fotografica per immortalarla in uno scatto che non ha bisogno di parole per descriverne il disagio.

Hudea è terrorizzata. Alza le mani in segno di resa, si morde le labbra e spalanca gli occhi.
“Stavo usando un teleobiettivo,” racconta il fotografo turco. “Ma lei pensava fosse un'arma”.
L'immagine è stata pubblicata lo scorso gennaio sul giornale turco Türkiye, per cui Osman copre guerre e catastrofi da 25 anni, ma è diventata virale soltanto martedì scorso quando la fotogiornalista di Gaza Nadia Abu Shaban l'ha condivisa su twitter, ottenendo quasi 20mila retweet.
Quest'immagine riassume visivamente le conseguenze della guerra civile in Siria sui bambini. Secondo l'Unicef, sarebbero 5.6 milioni i bambini siriani che hanno urgente bisogno di assistenza umanitaria.

La Repubblica
23 03 2015

SANA'A - Lo Yemen è "sull'orlo della guerra civile" e nel Paese - che occupa la zona meridionale della penisola arabica - si rischia uno scenario combinato Siria-Libia. L'allarme è stato lanciato dall'inviato speciale all'Onu Jamal Benomar che ha analizzato la situazione yemenita nel corso di una riunione urgente del Consiglio di sicurezza dell'Onu.

Il Paese è caduto negli ultimi mesi in una spirale di violenza dovuta all'avanzata delle milizie scitite Houthi (in un paese a maggioranza sunnita) che ha costretto il presidente Abd Rabbo Mansour Hadi a rifugiarsi nella città meridionale di Aden, da dove sta mettendo insieme truppe per contrastare i ribelli. "Sollecitiamo tutte le parti - ha detto l'inviato Onu - a rendersi conto della gravità della situazione e a cessare le ostilità e le violenze. Il dialogo pacifico è l'unica opzione che abbiamo".

Per l'inviato dell'Onu sarebbe illusorio pensare che le milizie Houthi possano prendere il controllo di tutto il Paese, o che Hadi possa mettere insieme un numero sufficiente di truppe per liberarlo. Benomar ha sottolineato "il timore che al-Qaeda usi l'instabilità del Paese a suo vantaggio". E non è solo al-Qaeda a preoccupare: anche lo Stato islamico si sta rafforzando in quest'area.

Il Consiglio di sicurezza Onu "ha condannato le azioni unilaterali portate avanti dalle milizie Houthi che minano il processo di transizione politica in Yemen, e mettono in pericolo la sicurezza, la stabilità, la sovranità e l'unità del Paese". In una dichiarazione adottata all'unanimità, i quindi membri hanno espresso "profonda preoccupazione per l'insufficiente attuazione della risoluzione 2201" e ribadito la disponibilità ad "adottare ulteriori misure contro qualsiasi parte in caso di mancata attuazione delle proprie disposizioni".

I quindici hanno deplorato il fatto che gli Houthi non abbiano attuato la richiesta di ritirare le proprie forze dalle istituzioni governative e di normalizzare la situazione della sicurezza nella capitale Sana'a e in altre province. Il Consiglio ha poi sostenuto la legittimità del presidente Hadi, invitando tutte le parti e gli Stati membri ad astenersi da qualsiasi azione che mini l'unità, la sovranità, l'indipendenza e l'integrità territoriale del Paese, e ad "accelerare un negoziato inclusivo mediato dalle Nazioni Unite per continuare la transizione politica".

Che il paese sia sull'orlo di una situazione libica lo conferma anche Abdel-Malek al-Houthi, leader del movimento Houthi. Il dirigente sciita però non sottolinea tanto gli scontri tra le due fazioni in guerra, quanto l'avanzata jihadista. Venerdì, una serie di attacchi contro moschee sciite frequentate dai sostenutori del movimento, hanno fatto oltre 140 morti e centinaia di feriti. In un discorso trasmesso in televisione, al-Houthi ha detto che combatterà con decisione contro lo Stato islamico e contro al-Qaeda.

Eppure in queste ore le mosse del movimento sono dirette contro le milizia sunnite fedeli al presidente deposto Hadi. I miliziani Houthi hanno conquistato domenica larghi settori della città di Taiz, aeroporto compreso. Taiz è la terza città del paese e combattenti si stanno schierando intorno a Aden, la seconda città del paese, porto cruciale e capitale ombra di Hadi dopo la sua fuga da Sana'a. Aden stessa è stata centro di violenti scontri nei giorni scorsi, soprattutto giovedì. E nelle ultime 72 ore il compound presidenziale dove si è rifugiato Hadi è stato attaccato da raid aerei per ben tre volte, costringendo il presidente legittimo a fuggire "in un luogo sicuro".

Controllando Taiz e avanzando verso Aden, gli Houthi potrebbero prendere il controllo del distretto di Bab al-Mandeb, ovvero avere il controllo del passaggio nello stretto tra il golfo di Aden e il mar Rosso, snodo cruciale per i traffici mondiali.

Nonostante sia l'Onu sia i leader del Golfo (tutti sunniti, Arabia Saudita in primis) sostengono la legittimità del presidente Hadi, il movimento Houthi ha l'importante appoggio dell'Iran, dove lo sciismo è maggioranza, tanto che Teheran è intervenuta ieri chiedendo ad Hadi di rinunciare al suo ruolo per risparmiare al paese ulteriore spargimento di sangue. Il vice ministro degli esteri iraniano Hossein Amir Abdollahian ha sintetizzato così la posizione del suo Paese: "La nostra aspettativa è che il presidente Hadi si dimetterà piuttosto che ripetere i suoi errori, che giochi un ruolo costruttivo nel prevenire la spaccatura dello Yemen e la trasformazione di Aden in un luogo sicuro per i terroristi".

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