Il mezzanino della stazione Centrale disegnato dal pennarello nero di Saria è una piccola opera d'arte. Più grande degli altri bambini accovacciati coi fogli e i colori, particolarmente talentuoso, capace di scrivere anche in inglese, il giovane autore è uno dei 40 mila rifugiati siriani che hanno attraversato Milano dall'inizio dell'"emergenza", un anno e mezzo fa. 
Alessandra Coppola, Il Corriere Della Sera ...

Il Fatto Quotidiano
16 03 2015

E’ stata una battaglia violentissima, combattuta in inferiorità ma con grande tenacia, contro un nemico che vuole distruggere la libertà. L’abbiamo combattuta per tutto il mondo“. Ismet Hasan è il ministro della Difesa del cantone di Kobane. Snocciola numeri di morti e feriti (1.200 caduti per l’Isis, 670 per lo Yekîneyên Parastina35 Gel, l’Unità di Protezione Popolare) come un qualsiasi ministro, con la sola differenza che nelle mani tiene stretta la sua arma e ha gli occhi di chi dietro una scrivania non si è seduto spesso. Coordina la difesa della città, ma è anche responsabile dell’inseguimento delle truppe del Califfato nel deserto siriano. Racconta di scontri e combattimenti senza mai perdere la calma, con alle spalle il figlio che, vigile, gli fa da guardia del corpo.

Entrare a Kobane a pochi giorni dalla liberazione da l’impressione di piombare in un’apocalisse. Si capisce quasi subito che in questa città non è stata combattuta solo una battaglia per il suo controllo: una volta capito che l’assedio sarebbe durato più del previsto, i miliziani dello Stato Islamico, hanno messo in atto una campagna di distruzione totale 1della città e dell’esperienza politica rivoluzionaria di cui è portatrice. Camminando per le strade appena liberate si ha subito la sensazione che Kobane fosse una vivace e popolosa città di confine, con centinaia di negozi a colorare le strade polverose. Le merci sono rimaste intatte al loro posto, solo impolverate malgrado le vetrine e le serrande siano letteralmente esplose a causa dei bombardamenti. Gli edifici rimasti in piedi nonostante il volume di bombe cadute presentano i segni della battaglia: interi piani crollati, automobili scaraventate al secondo piano, fori di proiettile ai lati.

Kobane era una città di 60 mila abitanti, adagiata ai piedi delle colline, con il centro città schiacciato dal prossimo confine. Per mesi ha parlato attraverso il rumore delle bombe e delle mitragliatrici. Kobane è stata testimonianza di un assedio brutale, di uno scontro fra ideologie che si frappongono: da una parte i miliziani jihadisti dell’Isis e dall’altra i guerriglieri curdi, organizzati nelle Ypg. L’assedio è durato 134 giorni, dalla metà di settembre, quando le prime bombe dell’Isis sono cadute in città e i primi rifugiati curdi hanno attraversato il confine, al 26 gennaio quando lo Ypg ha dichiarato ufficialmente che Kobane era stata liberata.

Niente si è salvato dalla furia distruttrice del Califfato. Si cammina tra le macerie facendo attenzione a dove si mettono i piedi, la città è ancora disseminata di bombe inesplose e solo un minimo contatto potrebbe farle brillare. Agli incroci sono appesi teli e tappeti, sono un metodo rudimentale ma efficace per muoversi da una strada all’altra senza essere presi di mira dai cecchini dell’Isis. Le barricate invece sono costruite con le macerie delle abitazioni e con qualsiasi altro mezzo sia stato possibile recuperare: auto, trattori, furgoni e persino autobus. Tutti ovviamente crivellati di proiettili. Il silenzio è rotto dal rombo dei bombardieri della coalizione in cielo e da qualche esplosione o raffica di mitragliatrice che ancora viene sparata entro i confini cittadini. Si attraversano interi quartieri senza incontrare anima viva, solo in lontananza si scorgono alcuni mezzi dello Ypg che si muovono verso il fronte, ormai a qualche decina di chilometri.

5“Saremo sempre grati a chi ha combattuto per noi”
Sono loro, i combattenti dello Ypg, coloro che strenuamente hanno difeso Kobane. Sono per lo più ragazzi, tra i 20 e i 30 anni, indossano la divisa mimetica ma portano scarpe da ginnastica. Sulle loro spalle campeggia l’immancabile Kalashnikov, arma simbolo di tutte le rivolte. Lo personalizzano con adesivi tricolori: rosso, giallo, verde, i colori della Rojava. Hanno le facce tirate, tese ma non lesinano sorrisi e strette di mano. Si concedono anche in foto, però prima mettono bene in mostra l’arma. Sono curdi siriani, ma anche turchi, iraniani, iracheni. Sono venuti da tutte le regioni del Grande Kurdistan per aiutare i loro fratelli assediati, per portare loro solidarietà e competenza. Sono giovani ma hanno sulle spalle tutto il peso di una guerra, di un assedio immane, sono pronti a morire per la loro terra. “Sono venuti curdi da tutto il mondo per aiutare i propri fratelli a difendere Kobane. In città hanno combattuto anche stranieri, persone che hanno lasciato tutto nei loro paesi pur di aiutarci a difendere la libertà e la democrazia nella Rojava. Gli saremo per sempre grati. Ogni qualvolta ci sarà bisogno di combattere per la libertà in altri paesi noi saremo sempre al loro fianco“, aggiunge Ismet Hasan.

Meglio affrontare Isis che scappare in Turchia “E’ un nemico”
I guerriglieri ostentano sicurezza anche quando in lontananza esplodo alcuni colpi di mortaio mentre tutti intorno abbassano la testa e cercano riparo. Alcuni di loro sono a Kobane dall’inizio dell’assedio perché non hanno voluto andarsene, hanno preferito prendere le armi per difendere le loro case piuttosto che cercare rifugio in Turchia, da molti considerata al pari di un nemico. In effetti in questi mesi i curdi asserragliati in città hanno dovuto combattere non solo l’Isis, ma anche con l’esercito turco42, guardiano non sempre imparziale del confine su cui Kobane è appoggiata. Più volte i militari di guardia si sono resi complici dei miliziani del Califfato, come a fine novembre quando un camion che avrebbe dovuto trasportare aiuti umanitari è stato fatto passare dal confine turco per poi rivelarsi un’autobomba dell’Isis che ha provocato morti e feriti tra i combattenti curdi.

Kobane, la furia di Isis contro il confederalismo democratico

Dall’altra parte c’è invece l’Isis, ora solamente Is. Per loro Kobane era solo un’altra piccola città sulla mappa, da conquistare per avere il pieno controllo della frontiera con la Turchia. Forse nemmeno si aspettavano una resistenza così forte, ma quando combatti per la tua terra e la tua casa, per i tuoi figli e con i tuoi figli, puoi immaginare che sarà più dura che altrove. Infatti l’Isis si era rivolto su Kobane solo dopo aver fatto razzia degli arsenali iracheni, potendo così schierare sul campo una potenza di fuoco che, si immaginava, solo un esercito organizzato avrebbe potuto contrastare. In città hanno combattuto tra le file dell’Isis miliziani provenienti da tutto il mondo, ma la maggior parte di loro era di origine cecena, mobilitati soprattutto nella parte est della città. Proprio in questi quartieri si sono svolti i combattimenti più aspri che non hanno lasciato un 32singolo edificio in piedi. Sono state le radio sottratte ai miliziani caduti a confermare la loro presenza in città. Per mesi, gli unici segni visibili dell’Isis sono state le bandiere nere, che sventolavano dagli edifici più alti, e le colonne di fumo che i loro bombardamenti provocavano in centro città. Ora rimangono solo alcuni cadaveri, segno tangibile della battaglia appena conclusa. I guerriglieri dello Ypg e le persone che fanno parte dell’organizzazione clandestina che li supporta non si stancano di ripetere quanto l’Islam propagandato dallo Stato Islamico non sia veritiero, originale, al contrario sarebbe l’Islam curdo quello che varrebbe la pena esportare. Un Islam che parla di uguaglianza di genere, di libertà di culto, di partecipazione: un Islam di pace che insieme all’ideologia politica alla base della rivoluzione in Rojava, il confederalismo democratico, può diventare un pericolo per il Medio Oriente contemporaneo perché scardina tutti quei principi sui cui si fonda la politica mediorientale. Insomma, un precedente pericoloso in un’area dominata da Emiri, Califfi e Generali, segnata dalla negazione di libertà individuali e collettive e dalle molte esecuzioni. Può darsi che anche per questo l’Isis, con l’avvallo di qualche paese dell’area, abbia deliberatamente e ostinatamente provato a radere al suolo Kobane.

Ismet Hasan si guarda intorno e sogna la ricostruzione, ma al momento è impossibile pensare di far rientrare tutti i rifugiati per i semplici motivi che non esistono più le 24abitazioni e le strade sono disseminate di bombe inesplose. Servirà una bonifica, ma soprattutto molto tempo. Anche l’elettricità è totalmente insufficiente per i bisogni di una città e manca l’acqua potabile. Per questi motivi stanno cercando di fermare l’afflusso di coloro che vogliono precipitosamente tornare nelle proprie case, nonostante la battaglia sia finita solo da qualche giorno. Nel prossimo futuro si attendo ancora battaglie e morti, c’è da riconquistare buona parte del territorio perso e le centinaia di villaggi curdi ancora in mano all’Isis.

di Davide Mozzato e Marco Sandi
Foto di Marco Sandi

(Mozzato e Sandi sono parte di una delegazione di Rojava Calling e sono entrati a Kobane il 30 gennaio, 4 giorni dopo la liberazione. Per entrambi era la seconda esperienza sul confine turco-siriano).

Articolo21
16 03 2015

Dimenticare o ricordare? Ho letto molto spesso, sui giornali, quanto sia importante la memoria. Ma in occasione dei questa metà di marzo evidentemente ce ne siamo dimenticati. Quale occasione migliore per l’esercizio della memoria di questi giorni. Il 14 marzo del 2005 ben più di un milione di arabi libanesi di ogni confessione scendevano in piazza per dire no all’occupazione siriana imposta dagli Assad. Dunque un libanese su tre era in piazza quel giorno. E sapevano bene cosa rischiavano “manifestandosi”. Il 15 marzo del 2011 quel vento arrivava a Damasco. E anche i siriani trovavano il coraggio di farlo, di scendere in piazza per dire no al regime degli Assad. Quale coraggio ci volesse lo abbiamo capito dopo: città rase al suole, centinaia di migliaia di morti, popolazioni private per centinaia di giorni di vitto, medicinali. Oggi in Siria ci sono 3,6 milioni di bambini che vagano tra le macerie, abbandonati, rimossi, randagi.

Dimenticare o ricordare? Ho letto molto spesso, sui giornali, quanto sia importante la memoria. Ma questo 2015 non si è dimostrato sin qui rorido di ricordi per i martiri libanesi. E sì che di martirio in questi tempi se ne parla, ma dei martiri libanesi uccisi per strada a Beirut, nel 2005, dieci anni fa, sotto i nostri occhi, non negli anfratti ridotti a inferi terreni del Califfato nero, ma tra vetrine di grandi marche e affollati caffè, non c’è traccia nella nostra memoria. Non c’è traccia di Georges Hawi, comunista e di famiglia cristiana, non c’è traccia di Samir Kassir, progressista e di famiglia cristiana, non c’è traccia di Pierre Gemayyel, liberale e di famiglia cristiana, non c’è traccia di Gebran Tueni, editore e di famiglia cristiana, non c’è traccia di Antoine Ghanem, deputato anche lui di famiglia cristiana. Questo sangue, come quello di Rafiq Hariri e di altri 22 esseri umani che viaggiavano con lui, ucciso per primo per le strade di Beirut, l’ex premier sunnita, non suscita riflessioni neanche dieci anni dopo. Né quello cristiano né quello musulmano, sangue dieci anni fa versato per un’idea, quella del vivere insieme.

Dimenticare o ricordare? Forse il punto è che ricordare questi martiri arabi della libertà, della democrazia, è scomodo, ci obbligherebbe ad andare al di là della conta tra “noi” e “loro”. E già, ma chi siamo “noi”? E chi sono “loro”? Dove collocare le vittime gassate alla periferia di Damasco? Con “loro”? O con “noi”? E quei criminali che hanno sparato a Beirut, dieci anni fa? Cosa volevano? Cinque di loro sono rinviati a giudizio dal Tribunale Internazionale, sappiamo chi sono, chi li teleguidava. Eppure. Eppure il sangue di quei cittadini arabi, cristiani scesi in strada con i loro fratelli musulmani, è finito nel dimenticatoio.

Con la lama dell'Isis alla gola

Il filo della scimitarra mi sfiorava la giugulare. Ai Beatles - era questo il soprannome che avevamo dato ai tre miliziani piaceva molto la messinscena. Mi avevano fatto sedere per terra. Scalzo. La testa rapata e la barba incolta e indosso l'"uniforme" arancione che ha reso così tristemente famosa la prigione americana di Guantanamo. Finte esecuzioni, video, scimitarre. Il racconto del giornalista spagnolo rapito dai terroristi e tornato a casa.
Javier Espinosa, Corriere della Sera ...

Il sogno infranto dela Siria

Della Siria di quattro anni fa non riesco a ricordare altro. Volti oscuri. Una piccola piazza affollata nei quartieri  liberati di Aleppo. Bambini che cantano in coro, stonando, un motivo rivoluzionario che parla di dignità. L'oratore, un ragazzo con appena un filo di barba, issato su un palco improvvisato che stramaledice il dittatore Bashar. Le luci sono accese, perfino un faro illumina la piazza. Perché non le spengono?
Domenico Quirico, La Stampa ...

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