Il Fatto Quotidiano
20 03 2015
“Faremo tutto il possibile per rendere vincente la nostra candidatura per la Coppa d’Asia 2019”. La precisazione del presidente della federcalcio Ali Kafashian ha subito chiarito quanto poco la spinta ideale abbia pesato sulla imminente apertura degli stadi iraniani alle donne straniere.
Con la rivoluzione di Khomeini il diritto sportivo a Teheran è ripiombato nel Medioevo. I grandi eventi agonistici latitano dal 1976, anno in cui la principale competizione calcistica continentale fece tappa nell’antica Persia. Due anni prima era stata la volta delle olimpiadi asiatiche, poi più nulla. Oggi l’Iran vive un nuovo risveglio sportivo, nonostante il crollo degli incentivi alla attività fisica dovuti a intransigenza religiosa e anni di embargo: nel 2014 la nazionale di Queiroz è tornata ai Mondiali, le 12 medaglie ai Giochi di Londra rappresentano il record di sempre per il Medio Oriente.
È il momento di monetizzare da un punto di vista organizzativo, ma l’assegnazione di un torneo internazionale non può prescindere da passi in avanti sul tema dei diritti. Nelle scorse settimane le pressioni sulla Repubblica Islamica sono aumentate: “Esiste in Iran un bando collettivo per le donne allo stadio, tutto ciò non può più essere tollerato” aveva scritto Joseph Blatter sul bollettino della Fifa in occasione della giornata internazionale della donna. Parole che smentivano quanto detto poche settimane prima dal segretario generale della confederazione asiatica Alex Soosay, secondo cui le restrizioni iraniane non rappresentano un problema nei rapporti con la federcalcio locale.
Lo sdegno di Blatter è andato parzialmente a segno, ma il rapporto tra gentil sesso e sport sotto il governo di Rouhani rimane complicato. Il caso più clamoroso risale allo scorso 20 giugno, data dell’arresto di Ghoncheh Ghavami. L’attivista britannica di origine iraniana passò cento giorni in isolamento per avere assistito al match di World League di pallavolo maschile tra Iran e Italia. Vuole Teheran che l’accesso agli stadi sia vietato per proteggere le donne da eventuali comportamenti lascivi da parte degli spettatori di sesso maschile. La minaccia della federazione internazionale pallavolo di bandire l’Iran da ogni competizione fruttò, per lo meno, la decisione di consentire alle tifose non nate in patria di entrare al palazzetto durante i match. Come ora avverrà con il pallone.
L’episodio che coinvolse Ghoncheh, derubricato dal regime a fermo per “propaganda anti governativa”, ebbe eco mondiale e pose i riflettori su una aberrazione che non è solo iraniana. A dicembre una giovane è stata arrestata a Gedda perché scoperta sugli spalti a godersi la sfida tra Al-Ittihad e Al-Shabab. Aveva comprato il biglietto su internet e spiegò di non essere a conoscenza della legge che vieta alle donne saudite di partecipare a eventi sportivi. Anche la monarchia araba, che vanta una legislazione persino più rigida di quella di Teheran, dichiara in questo modo di preservare le cittadine da indecenze e promiscuità.
Qualche giorno fa Human Rights Watch ha denunciato l’impossibilità per bambine e ragazze nelle scuole del paese di prendere parte alle lezioni di educazione fisica. Una riforma del 2013 aveva messo fine a questa discriminazione, ma secondo l’ong il divieto è ancora in atto. Mentre donne fondano squadre di calcio e gruppi sportivi, alcuni leader religiosi arabi continuano a tuonare contro “pratiche demoniache” come il calcio e altre attività che corrompono l’animo femminile e rischiano di compromettere le loro abilità riproduttive.
Altrove i problemi per lo sport femminile non sono di natura giuridica, ma economici. Discriminazioni infinitamente meno gravi rispetto a quelle in atto in alcuni paesi mediorientali, ma che finiscono per limitare le possibilità di espansione anche delle discipline più praticate.
In estate in Canada i mondiali femminili saranno giocati su campi di erba sintetica, circostanza che fa infuriare le principali atlete internazionali. In Italia le calciatrici non sono ritenute meritevoli di una diretta tv. Una buona notizia, per chiudere, arriva da Londra: a agosto per la prima volta la finale di FA Cup in gonnella sarà ospitata nel leggendario stadio di Wembley.
Dario Falcini
La Stampa
13 03 2015
Per la prima volta nel mondo un gruppo di disabili mentali partecipa a una gara internazionale ad Amsterdam contro altri atleti, che non saprei come chiamare: abili? Campioni? Normali? Loro sono l’«otto con» della Società Canottieri Armida di Torino, e nelle cartelle consegnate alla Federazione c’è un lungo elenco di diagnosi mediche, di referti senza anima, di tutte quelle parole che definiscono solo una sofferenza nei suoi recinti: la sindrome down, o autistica, o Cat-eye, atassia cerebellare, disabilità intellettivo-relazionale. Domani e domenica alla Heineken Roeivier Kamp di Amsterdam, però, quelle sentenze non servono e saranno tutti uguali, attaccati ai remi, senza fiato e senza voce, abili e non, come uno qualsiasi di noi che ci ha provato una volta nella vita, come tutti quelli che hanno vissuto la felicità di una sfida, che sono riusciti a scalare una montagna. Matteo Bianchi, numero uno dell’equipaggio, dice che non vede l’ora, che ci metteranno l’anima.
Le lezioni dello sport
Forse tremeranno un po’ le gambe. Come a Mickael Gerard, di professione magazziniere, centravanti della squadra di dilettanti del Calais, finita a giocare contro i professionisti del Nantes la finale di Coppa di Francia del 2000 davanti agli 80mila spettatori del Parc des Princes. Disse: «Quando entrai lì dentro le gambe facevano fru fru. Poi non pensai più niente. Ci penso adesso, perché non dimenticai più». Eric Abidal, terzino sinistro della squadra più forte del mondo, il Barcellona di Guardiola, colpito da un tumore al fegato, miracolosamente guarito, ricadde di nuovo e fu salvato da un trapianto. Oggi, a 35 anni, gioca ancora, nell’Olympiakos, e dice che «lo sport ti insegna cose che ti salvano: la condivisione, il coraggio, la forza di volontà». Sono lezioni che possono imparare tutti, che vanno oltre le barriere delle parole.
Lo spettacolo del pianista
Alessandro Rossi non parla con nessuno, sta sempre in silenzio, anche quando gli altri si mettono insieme a scherzare. Un giorno che l’Armida li aveva portati in gita, «a un certo punto sentimmo arrivare una musica meravigliosa», racconta Gianluigi Favero, il presidente. Era lui. «Aveva trovato un pianoforte in qualche angolo di una sala. E s’era messo a suonare. Restammo senza parole. Suonava come un dio». Rossi ha 24 anni, lavora a Cirié e confeziona oggetti per alberghi. Nella cartella medica c’è scritto: sindrome di Asperger. Non c’è scritto che suona come un dio. E’ il numero 5 dell’equipaggio. Quello vicino a lui sulla barca è Giovanni Rastrelli, il numero 4. Sembra quello che parla più di tutti. Farebbero una strana coppia insieme. Giovanni va all’Armida da cinque anni e mezzo, come racconta lui con la precisione di uno studente che s’è preparato le risposte per l’esame, e si trova molto bene, dice. Frequenta la scuola alberghiera e l’hanno preso qui per uno stage a fare il cameriere. Ama altri sport, ma «questo è il più bello perché si sta insieme». Numero 6 del lotto è Umberto Giacone, e poi c’è Matteo Bongiovanni, numero 3, che da grande sogna di «fare il montatore per il cinema o la tv». La gara di Amsterdam non è più un sogno. Adesso ci vanno. Nessuno ha una fidanzatina, tranne Andrea Appendino, che «esce con Margherita Merlo», come racconta Manuel Vaccaro, il vecchio del gruppo con i suoi 28 anni, numero 2 dell’equipaggio. Anche questo non c’è scritto sulla cartella, che s’è innamorato. C’è scritto: sindrome down. Sono in due, l’altro è Lorenzo Sforza che adesso non c’è. Matteo Bianchi lo precisa come in un verbale di polizia: «Lavora in un bar. In via San Pio 15». Il loro timoniere sarà uno dei loro allenatori, Filippo Cardellino, un ragazzone che li sta spronando militarmente sulle acque levigate del Po. L’altro allenatore è quella che ha realizzato tutto questo, questa gara della normalità, 200 equipaggi iscritti, e anche loro a vedere fin dove arrivano nel mondo. Si chiama Cristina Ansaldi. E’ dall’anno scorso che ci lavora.
«È disabile chi si arrende»
L’Armida è la prima società sportiva italiana nella cura dei disabili. «Ci sono 70 ragazzi con problemi fisici e mentali che frequentano da noi i corsi di canottaggio», come spiega Gianluigi Favero. Ci vuole sempre tempo e dedizione per conquistare le cose. C’è riuscito Pistorius dopo anni di battaglie. Andrea Zanardi, grande pilota ridotto in carrozzella, lotta senza mai perdere il sorriso, come un tempo. La squadra di Calais, invece, non era fatta di disabili, ma di miseri impiegati come il capitano Reginald Becque che lavorava in un’azienda di scaffalisti, o di falliti, come Cedric Schille e Jerome Dutitre, che da grandi promesse del calcio erano finiti nel nulla, senza stipendio nella squadretta di un piccolo paese sulla Manica schiacciato dalla disoccupazione. A Parigi lottarono fino alla fine e persero per un rigore ingiusto proprio sul filo di lana. In città li accolsero come degli eroi, come se avessero vinto. Forse hanno vinto davvero loro. Un giorno lo capiremo. Il dottor Pierdante Piccioni, uscito da un coma di poche ore che gli aveva cancellato 12 anni della sua vita, ha dovuto lottare con tutte le sue forze per tornare a fare il medico. Quando ce l’ha fatta, ha detto a tutti che ha voluto dimostrare a tutti di non essere un referto: «Sono una persona e questo una risonanza magnetica non può saperlo. Disabile lo sei quando smetti di combattere, lo sei solo se sei convinto di esserlo».
Pierangelo Sapegno
Corriere della Sera
13 02 2015
I migliori in campo, i peggiori fuori.
Sfondavano le porte degli spogliatoi, sul pullmino fumavano sigarette (e non solo quelle), litigavano tra loro se non si passavano il pallone e con l'allenatore ogni volta che venivano sostituiti.
"Non si poteva più andare avanti così", dice sconsolato, ma per niente pentito, Felice Farina, 67 anni, imprenditore in pensione, il presidente della Sospirese, la società di Sospiro, nel Cremonese, che ha ritirato per motivi disciplinari la squadra Allievi dal campionato (girone B della fase primaverile).
Un fatto senza precedenti. ...