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15 07 2015
L'Amministrazione di Ignazio Marino ingaggerà con un bando da 3,5 milioni di euro i super tecnici che per due anni decideranno come e dove tagliare le spese del Campidoglio.
Poco più di 3,5 milioni d'euro (iva inclusa) da spendere. Da spendere per decidere come risparmiare. È un bando di gara ma potrebbe finire di diritto nei paradossi di Zenone, l'atto uscito ieri dall'Amministrazione di Ignazio Marino. È tutto nero su bianco: il Comune di Roma cerca professionisti che per 2 anni (24 mesi) dovranno supportare il Campidoglio per il contenimento della spesa. In soldoni: Marino ‘acquista' la mannaia sui conti dell'Ente ma non sarà lui a impugnarla e a calarla sui romani. Saranno i "tecnici", nella migliore delle tradizioni recenti della spending review all'italiana a decidere le sforbiciate. Tecnici, di prima categoria e, ovviamente, ben pagati: 6 miliardi del vecchio conio per gli «interventi di razionalizzazione e contenimento della spesa di Roma Capitale» e per gli acquisti delle società interamente partecipate dal Campidoglio.
Comune di Roma, arrivano i super tecnici per tagliare le spese
L'Amministrazione Marino dunque non sarà commissariata dopo lo scandalo Mafia Capitale ma sarà, di fatto, controllata nei centri di spesa e nei contratti. Gli atti saranno passati al lumicino da questa task force che prevede un capoprogetto, un manager, cinque consulenti senior e quattro tecnici junior. Questa sorta di ‘The Untouchables' all'ombra der Cupolone dovranno – si legge nel capitolato tecnico del bando: «Proporre metodologie, modelli, operativi, soluzioni e strumenti finalizzati al raggiungimento dell'obiettivo». E qual è, l'obiettivo? La parola d'ordine è «razionalizzare». Ovviamente significa tagliare o quanto meno spendere il meno possibile. Ma anche «assicurare il puntuale e costante monitoraggio di tutta la spesa per beni e servizi – si legge – al fine di identificare eventuali andamenti anomali e porre in essere le eventuali correzioni». Si scrive ‘andamenti anomali', si legge spesa gonfiata. E nella città di Mafia Capitale non è cosa da poco.
I settori tenuti sotto sorveglianza sono un po' tutti quelli dei grandi appalti integrati di una Amministrazione come quella di una grande capitale europea: le forniture di energia elettrica, riscaldamento, utenze idriche, assicurazioni, illuminazione pubblica, fitti passivi, manutenzione di verde, di immobili pubblici e di case popolari, servizi scolastici e servizi ai cittadini e infine, cultura e turismo.
Il Fatto Quotidiano
01 06 2015
La liquidazione del patron del Consorzio Venezia Nuova scoperta da tre amministratori straordinari, nominati da Raffaele Cantone, che sono riusciti a bloccare solo l'ultima tranche da 1,15 milioni
Un milione di liquidazione ogni due di tangenti distribuite. Il patron del Mose, il grande burattinaio della cricca in San Marco, il “santo finanziatore” della politica in Laguna (e non) si era auto-riconosciuto un trattamento di fine rapporto dal Consorzio Venezia Nuova (Cvn) di 7 milioni di euro. I tre amministratori straordinari nominati dall’autorità anticorruzione hanno trovato la sorpresa approvando il bilancio consuntivo al 31 dicembre 2014 del Cvn e hanno tentato di limitare i danni riuscendo a bloccare poco più di un milione: l’ultima tranche. L’unica non ancora corrisposta.
Del resto l’ottantenne Giovanni Mazzacurati per far andare avanti i lavori del Mose e ottenere i finanziamenti del Cipe si è dato un gran da fare. La mole di lavoro è riassunta nell’ordinanza di arresto a carico di 35 persone emessa il 4 giugno 2014 dai magistrati veneziani che hanno stretto le manette attorno ai polsi, tra gli altri, all’ex governatore veneto e ministro Giancarlo Galan e all’allora sindaco di Venezia Giancarlo Orsoni.
Secondo la ricostruzione degli inquirenti, Mazzacurati ha corrotto tutti i corruttibili. Generali della Guardia di Finanza fino ai Magistrati delle Acque, passando per ministri, sottosegretari, presidenti di Regione, assessori, fondazioni politiche, sottosegretari, finanzieri. Chiunque potesse essere utile alla causa. Un gran lavoro: corruzione, concussione, riciclaggio, finanziamento illecito. Oltre a 25 milioni di sovrafatturazione e 40 milioni di euro sequestrati agli oltre cento indagati.
I magistrati avrebbero voluto fermare anche Mazzacurati, ma lui, nel frattempo, era volato a San Diego nella villa a La Jolla affittata dal 2005, dove viveva la moglie a spese del Consorzio. Ancora oggi è in California. Del resto l’ingegnere era già stato detenuto agli arresti domiciliari nel luglio 2013 nel primo filone dell’inchiesta.
Le dimissioni dalla presidenza del Consorzio le presentò il mese precedente e vennero accolte dal consiglio direttivo il 28 giugno. Infine il 20 dicembre 2013 firma l’accordo che riconosce “all’ingegnere la somma complessiva di euro 7.000.000 a completa tacitazione di ogni pretesa e/o richiesta, a qualsiasi titolo fondata sul cessato rapporto lavorativo”. Dell’importo previsto dalla transazione non è stata corrisposta una parte pari a 1.154.000. Ed è intenzione degli amministratori straordinari, si legge nella nota integrativa al bilancio, “procedere ad un approfondimento in punto di fatto e di diritto circa la sussistenza di tale debito”. Ciò che è stato versato non sarà recuperabile ma gli amministratori vogliono in pratica tentare di non versare quel milione, considerata l’inchiesta penale e i “meriti” dell’ingegnere. Anche perché la liquidazione non è l’unica sorpresa emersa dai resoconti finanziari.
Mazzacurati deve ancora versare alla società 317.797 euro per azioni della Thetis Spa ricevute il 27 settembre 2007 e mai pagate. L’importo doveva essere corrisposto il 31 dicembre 2013 ma il 18 settembre 2014 Mazzacurati, già a San Diego, ha comunicato “di non essere nella possibilità di adempiere al pagamento”. Insoluto che ovviamente grava sul conto finanziario. Bilancio che, ripulito da ogni fronzolo e riordinato correttamente dai tre amministratori nominati da Raffaele Cantone, registra una perdita di 28 milioni 700 mila euro. A fronte di debiti verso banche per 521 milioni complessivi e verso imprese controllate di 13 milioni. Nonostante i costi di produzione siano passati dai 584 milioni del 2013 ai 350 del 2014. Saranno ora le imprese consorziate al Cvn a dover recuperare i mezzi finanziari per il ripianamento dei conti.
Questi i risultati della gestione Mazzacurati. L’ingegnere purtroppo non ricorda più nulla. Interrogato a San Diego si è sostanzialmente rimangiato quanto raccontato ai pm di Venezia nel 2013 dopo il primo arresto. Tanto che martedì scorso, ricevuto il verbale d’interrogatorio, il gip Alberto Scaramuzza ha stabilito che l’ingegnere “soffre di demenza senile” ed è da ritenersi “inattendibile” perché non è in grado di “ricordare pienamente i fatti avvenuti”. Chissà se si dimentica anche di quel milione di liquidazione che deve ancora ricevere.
Linkiesta
01 11 2014
Dai costi, alle code: vizi e virtù della sanità italiana, costretta a dimagrire per sopravvivere
Francesco Cancellato
La Legge di Stabilità prevede tagli pesanti alla sanità? Questione di punti di vista, come al solito. Secondo Sergio Chiamparino, Presidente della Regione Piemonte e della Conferenza della Regioni e delle Province Autonome, sì: «La manovra è insostenibile per le Regioni a meno di non incidere sulla spesa sanitaria, che rappresenta l’80% della spesa regionale», ha dichiarato lo scorso 16 ottobre. Secondo il Presidente del Consiglio, che gli ha risposto piccato a mezzo social network poco dopo, no: «Comincino a tagliare i loro sprechi invece di aumentare le tasse», ha chiosato, aggiungendo bellicoso che è «inaccettabile che i tagli riguardino i servizi sanitari». In realtà, a quanto pare, una clausola “taglia sanità”, così l’ha definita Beppe Grillo sul suo blog, ci sarebbe già: all’articolo 35 comma 1 della Legge di Stabilità si dice infatti che se le regioni a statuto ordinario non riusciranno a tagliare i 4 miliardi di spending review pattuiti, allora interverrà il Governo, «considerando anche le risorse destinate al finanziamento corrente del Servizio sanitario nazionale». La dove fa più male, in altre parole.
Al di là della polemica politica, tuttavia, la domanda è un’altra: la sanità italiana è una macchina efficiente, addirittura la terza al mondo come afferma Bloomberg? Esistono margini per tagliare le spese senza diminuire gli standard qualitativi attuali, buoni o meno che siano? Soprattutto, quali sono le regioni più virtuose nella gestione della spesa sanitaria e quali lo sono meno? Domande complesse, queste, cui dare risposte non è semplice. Perlomeno, se non ci si vuole limitare al tema sui costi standard e sulle siringhe che in Sicilia costano 10 centesimi in più che in Veneto. Tema tanto importante, quanto controverso, in merito al quale, peraltro, Renzi ha annunciato novità. Non il solo, tuttavia.
Partiamo dalla base della piramide: nel 2013, la spesa pubblica per la sanità ammontava a 109,3 miliardi. Una cifra, per la cronaca, pari al 13,7% della spesa pubblica complessiva. Le previsioni per il 2014 parlano di una crescita di circa 2 miliardi che la porterà a 111,5 miliardi di euro, il 2% circa in più. Tanto, ma nemmeno troppo. L’ufficio studi di Confartigianato ha calcolato che stando ai dati dell’Istat, la spesa sanitaria tra il 2003 e il 2013 la spesa sanitaria è cresciuta del 32,7%. Un ritmo doppio rispetto all’aumento del Pil nel medesimo periodo, pari al 16,3%.
D’accordo, le siringhe siciliane costano tanto. I dati, tuttavia, raccontano che tra il 2003 e il 2012 le regioni che hanno aumentato maggiormente la loro spesa sanitaria sono quelle del nord. A guidare la classifica due territori a statuto speciale: il Friuli-Venezia Giulia, con una crescita della spesa sanitaria pari al 49,6% e la Provincia Autonoma di Trento, che in dieci anni ha visto aumentare i costi del 47,8%. Nelle prime posizioni ci sono anche la Lombardia (+46,9%), l’Emilia-Romagna (+44,7%) e la Toscana (+42,6%). Queste ultime, sono anche le regioni che, secondo il Ministero, hanno la sanità migliore d’Italia, insieme al Veneto.
Non che le regioni del sud abbiano tagliato i costi, al contrario. Tuttavia, gli aumenti sono stati molto più contenuti: in Sicilia, ad esempio, sono aumentati del +31,2%, in Calabria del 31,1%, in Campania del +26,8% e in Abruzzo con il +20,9%. Curiosità, parliamo di sistemi sanitari regionali commissariati, e forse qualcosa c’entra. Unica eccezione? La provincia autonoma di Bolzano, che è riuscita a mantenere livelli di eccellenza aumentando i costi di soli 27,3% punti percentuali. Questione di mentalità teutonica? Forse. Tuttavia, in rapporto agli abitanti, la spesa della sanità altoatesina è la più alta d’Italia: 2291 euro per abitante contro una media nazionale di 1903. Rispetto alla Campania, circa seicento euro in più a persona.
Se i costi della sanità sono aumentati così tanto, in questi anni, è anche perché c’erano i soldi per farlo. Dal 2003 al 2013, infatti, i ricavi del Sistema Sanitario Nazionale sono cresciuti del 39,6%, con picchi oltre il 45% in Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, provincia di Trento e Lombardia. Meno, molto meno in Campania (32,8%), Basilicata (32,3%), Liguria (31,2%), Molise (31%) e Calabria (30,2%).
Oddio, si scrive ricavi, ma si legge tasse e trasferimenti: il 35,1% della spesa sanitaria è coperto dall’Addizionale Regionale Irpef e dall’imposta regionale sulle attività produttive, per gli amici Irap. Gran parte del resto (il 46,6%) è invece un trasferimento statale, che proviene dal Fondo per il fabbisogno sanitario ex D.L. 56/2000. In pratica: la sanità è regionale nel senso che le regioni amministrano soldi che provengono, in buona parte, da un fondo finanziato dal gettito Iva e dalle accise sui carburanti.
Ovviamente, anche in questo caso ci sono differenze piuttosto notevoli. In Lombardia le imposte regionali coprono il 52,5% del fabbisogno sanitario, in Campania e Puglia il 19,5%, in Calabria, addirittura, il 9,3%. In quest’ultima regione, il fondo statale copre l’85,8% del fabbisogno. Se vi sembra un’ingiustizia, mettete sull’altro piatto della bilancia il fatto che il Pil della Lombardia (331 miliardi di euro) è più di dieci volte quello della Calabria (29 miliardi).
Chi produce ricavi propri, invece sono soprattutto Emilia-Romagna e Toscana, regioni a stragrande maggioranza di ospedali e strutture pubbliche d’eccellenza, che arrivano rispettivamente al 5,6% e al 5,5%. Poca roba, in ogni caso. I ticket, infine, portano solo l’1,3% dei ricavi complessivi della sanità italiana, nonostante nel 2013 il 50,2% degli italiani abbia usufruito di almeno una visita specialistica, escluse quelle odontoiatriche.
La maglia nera? La sanità laziale (ma sta migliorando)
Nel 2012, ultimo anno di cui sono disponibili i dati, il sistema sanitario nazionale, nel suo complesso, ha accumulato un disavanzo di circa 1 miliardo di euro. Se pensate sia una cifra da far strabuzzare gli occhi, sappiate che solo dieci anni fa, nel 2004, la perdita accumulata dalla sanità italiana era di 5,7 miliardi. Stiamo migliorando, insomma. A colpi di ospedali e reparti che chiudono e di aliquote che salgono – il gettito Irap e addizionale Irpef è cresciuto del 18,9% in dieci anni.
Anche in questo caso, tuttavia, ci sono situazioni estremamente diverse. Rimaniamo per un attimo nel 2004: in quell’anno di disavanzo record, la sanità lombarda ha chiuso con un avanzo di 131,3 milioni di euro, quella laziale con perdite per 1,7 miliardi. Ancora nel 2012, la sanità laziale aveva un deficit di 644 miliardi di euro, che cumulato a quelli dei dieci anni precedenti concorre a scavare un buco di circa 13 miliardi di euro. A braccetto con il Lazio, c’è la Campania, con un disavanzo 2012 di 121 milioni di euro e di 7,6 miliardi nel decennio.
Non sarà Trip Advisor, ma l’Istat ci ha provato, a stilare una classifica dei sistemi sanitari sulla base della soddisfazione degli utenti, chiedendo un’opinione a chi era stato ricoverato nei tre mesi precedenti. Il risultato farà piacere a Renzi: più alto è il disavanzo, maggiore è l’insoddisfazione. Accade in Campania, maglia nera nazionale, con il 29,2% di utenti non contenti del servizio offerto. Accade nel Lazio, che si ferma a 23,1% di insoddisfatti, comunque ben poco lusinghiero. Accade in Calabria, dove la percentuale di pollice verso raggiunge il 28,2%.
Non saremmo italiani, se non ci lamentassimo del cibo offerto, che lascia perplesso il 29,7% della popolazione, con un picco di 45,5% di utenti insoddisfatti in Abruzzo. I servizi igienici sono molto carenti in Sicilia (37,8% di insoddisfatti), ma sorprendentemente pure in Toscana (21,2%) che su questo tema fa peggio anche del Lazio (19,1%). Relativamente al personale infermieristico, invece, la maglia nera è la Calabria (26,1%), mentre è nelle Marche che il personale medico gode di peggior stima (21,9% di insoddisfatti) da chi vi ha avuto a che fare.
Veniamo alle note liete, invece. Ad esempio, all’assistenza medica valdostana, della quale solo due utenti su cento hanno da ridire. O ancora, al personale infermieristico altoatesino, che raggiunge livelli di gradimento analoghi. Bolzano, peraltro, si porta a casa anche il titolo di sistema sanitario in cui si consuma il miglior cibo, laddove invece è l’Umbria la regione con i migliori servizi igienici negli ospedali.
Immaginiamo un’ipotetica coda agli sportelli dell’Asl che nel 2002 era lunga cento metri. Ecco, nel 2012 i metri sono diventati 113,6. Una progressione costante che è figlia, molto probabilmente, della concentrazione dei servizi ospedalieri in sempre meno e sempre più grandi strutture. In questo senso, a mostrare le problematiche maggiori sono regioni adriatiche come Abruzzo, Puglia e Molise, che occupano tre delle ultime cinque posizioni. Pessimi risultati anche per le “solite” Lazio, Campania e Calabria, così come i tre gradini più alti del podio sono occupati, al solito, da Bolzano, Trento e Aosta. Tra gli altri, infine, spiccano i risultati di Emilia-Romagna e Marche.
A fine 2011, il sistema sanitario nazionale contava 643.169 dipendenti. Tanto per dare l’idea, l’1,1% della popolazione italiana, il 2,7% della popolazione attiva. Se non è il primo datore di lavoro del paese, poco ci manca, insomma. Tra tutti questi addetti, uno su dieci è amministrativo. Troppi? Troppo pochi? Difficile dirlo. Intuitivamente, in una macchina sanitaria innovativa ed efficiente di gente alla scrivania non ce ne dovrebbe essere molta, perlomeno in relazione al personale medico. Al contrario, ci si aspetterebbe un esercito di amministrativi nelle regioni più inefficienti. La realtà è diversa, invece: la quota di personale amministrativo sul totale è infatti più alta in Piemonte e a Bolzano (13,7%) che in Sicilia (10,9%) o nel Lazio (12,5%). Non tutto è come sembra, insomma. E nel caso della sanità italiana, questo adagio vale ancora di più.
Corriere della Sera
06 10 2014
Il Cardarelli di Napoli paga per i servizi di pulizia oltre il doppio del Sant’Orsola di Bologna. Le disparità in un comparto che vale 50 miliardi all’anno
di Simona Ravizza
Chissà se il Cardarelli di Napoli è davvero più pulito del Sant’Orsola di Bologna. Le camere dei pazienti, i bagni e i corridoi dovrebbero essere impeccabili. I costi per la pulizia dell’ospedale napoletano sono più del doppio rispetto a quelli emiliani e rappresentano il record a livello nazionale: 17.583 mila euro per posto letto contro i 6.518 del Sant’Orsola. La media è di 7.957 euro. Magari al De Lellis di Catanzaro salvano i malati per telefono, visto che la spesa per le utenze telefoniche è il triplo di altri ospedali italiani (2.782 euro contro 910 a posto letto). E com’è possibile che tra il Careggi di Firenze e il Niguarda di Milano - a parità di dimensioni - ci sia una differenza di dieci volte per l’elettricità (6.737 euro contro 604 a posto letto)?
Dall’elaborazione degli ultimi dati disponibili del ministero della Salute pubblicati online sull’attività economico-sanitaria (2011) emerge una fotografia su possibili sprechi e inefficienze. Di quanti soldi ha bisogno ogni anno un ospedale per sopravvivere? Basta dividere i costi messi a bilancio con i posti letto per avere risultati sorprendenti. Le cure mediche offerte ai malati sono le stesse, ma la spesa è enormemente differente tra un ospedale e l’altro. All’Umberto I di Roma sono necessari più di 500 mila euro per ogni letto utilizzato, mentre al San Matteo di Pavia ne bastano 380 mila. Per la spesa di medici e infermieri (tra dipendenti, universitari e precari) il Policlinico Giaccone di Palermo sopporta un costo di 182 mila euro per ciascun letto contro i 130 mila dell’ospedale universitario di Parma.
In gioco ci sono soldi pubblici. La spesa degli ospedali vale più di 50 miliardi l’anno (sui 112 complessivi). E sapere come vengono usati è fondamentale. Per il governo Renzi a caccia di 20 miliardi per la manovra 2015 i tagli alla Sanità sono l’obiettivo numero 1. Ma i governatori sono insorti dichiarando che si mette a rischio la tenuta del servizio sanitario nazionale e quindi la salute dei cittadini. Bloomberg sembra dargli ragione: per il network mondiale d’informazione finanziaria, l’Italia è il terzo sistema sanitario più efficiente al mondo (preceduta solo da Singapore e Hong Kong). Chi ha ragione? È possibile ridurre i costi senza intaccare la qualità delle cure?
Tutti i numeri sono da prendere con le molle. L’obiettivo non è stilare classifiche (sempre opinabili) tra spendaccioni e virtuosi. Le enormi disparità di spesa fanno capire, però, che troppo spesso ci sono costi non collegati strettamente alla cura dei malati. Qui dentro si nasconde un tesoretto. I risparmi possibili. E le cifre in ballo sono da capogiro. La differenza tra ospedali obbliga a una riflessione. Se fosse possibile all’Umberto I spendere per posto letto quanto il San Matteo di Pavia (entrambi storici policlinici universitari) l’ospedale romano ridurrebbe le uscite di 137 milioni di euro l’anno (un quarto del bilancio).
I dati sono stati analizzati con l’aiuto del Centro studi sanità pubblica dell’Università Bicocca di Milano, insieme al fondatore Giancarlo Cesana e al ricercatore Achille Lanzarini. Numeri, tabelle, statistiche. È un mare magnum.Anche i più consolidati luoghi comuni sull’efficienza del Nord vengono messi in dubbio. L’ospedale universitario di Udine (dov’è in corso un piano di tagli contro un buco da 10 milioni) costa 170 mila euro in più a posto letto rispetto al suo omologo di Messina. Nella stessa Sardegna il Brotzu di Cagliari spende per tecnici, amministrativi e, in generale, personale non sanitario il triplo a posto letto rispetto all’ospedale universitario di Sassari (34 mila euro contro 11 mila). Per medici e infermieri al San Giovanni/Addolorata di Roma la spesa per posto letto è di 172 mila euro contro i 140 mila di Padova, ma lo stipendio del personale pubblico è uguale in tutt’Italia. La differenza è spiegabile, dunque, solo con un diverso numero di lavoratori in corsia: ma ne ha troppi il San Giovanni/Addolorata o troppo pochi Padova? Un interrogativo simile nasce se si butta un occhio ai giorni di ricovero: nella Chirurgia generale del San Giovanni/Addolorata la degenza media è 11 giorni contro i 7 di Padova. Un caso?
Una cosa è certa: i costi della sanità sono un caos. E per cambiare, forse, non servono tagli lineari che penalizzano tutti allo stesso modo, ma manager capaci di individuare le spese improduttive e di riorganizzare l’attività. Premiando i medici e gli infermieri più bravi. E senza investimenti è dura. I costi bassi dell’energia di Niguarda? Sono iniziati con un investimento lungimirante di 22 milioni per un cogeneratore.
La Repubblica
07 07 2014
L’Italia ha speso cifre ingentissime in corsi di cui non si conoscono né costi né benefici. Inclusione sociale, solo 233 nuovi impieghi contro i 30-50 mila di Germania e Francia. 500 mila progetti di formazione non sono serviti a creare lavoro.
di VALENTINA CONTE
IN 5 ANNI sono stati messi in campo 504 mila progetti di formazione, per una spesa di quasi 7 miliardi e mezzo di euro. Con quali benefici? La risposta dello studio degli economisti Roberto Perotti e Filippo Teoldi è tranciante: i benefici sono ignoti. Dei progetti finanziati con fondi strutturali europei nessuno è in grado di valutare gli effetti.
Una montagna di miliardi, sfuggita di mano. Ogni anno l’Italia spende cifre impressionanti in progetti finanziati con fondi strutturali europei, eppure nessuno è in grado di valutarne gli effetti. Se ad esempio favoriscono davvero l’inclusione sociale, se creano nuova occupazione e se questa è strutturale e come viene retribuita. Anzi, va persino peggio. Non solo non conosciamo l’efficacia della spesa, ma ogni euro di fondi ricevuti ce ne costa due in tasse: uno da versare all’Europa come membri dell’Unione e un altro come cofinanziamento, obbligatorio per utilizzare quei fondi.
Eppure, nonostante il clamoroso black-out informativo, in cinque anni sono stati messi in campo ben 504 mila progetti di formazione, per una spesa di quasi 7 miliardi e mezzo. Con quali benefici? La risposta dello studio curato dagli economisti Roberto Perotti e Filippo Teoldi e pubblicato sul sito lavoce.info è una sola: i benefici sono ignoti.