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Ingenere.it
15 09 2015

Ora che le scuole stanno per ricominciare, vorrei tornare a parlare di un tema che mi interessa molto, che suscita irrazionali terrori e giunge a ispirare interventi assurdi, fuori dalla storia, dallo spazio e dal tempo[1].

Paure e ansie si alimentano intorno a qualcosa che non corrisponde a come viene descritto e la cui presentazione allarmista sembra piuttosto servire ad allontanare l’attenzione dal fulcro del problema.

I paladini della famiglia tradizionale e gli agguerriti oppositori della cosiddetta (ed inesistente) ideologia del gender vogliono far credere a schiere di genitori intimoriti che la posta in gioco sia difendere i nostri figli dalla fantomatica possibilità che qualcuno voglia promuovere l'autoerotismo nelle scuole della prima infanzia. Come se poi ci fosse davvero bisogno di promuoverlo, l’autoerotismo; lo sanno bene quelle e quelli di noi che hanno ricordi che arrivano ai propri primi anni di vita o hanno figli/e di quell'età. Mentre la posta in gioco è ben più alta e, per certi versi, ancora più rivoluzionaria di quanto il sesso, nelle sue infinite sfaccettature, possa mai essere.

Buona parte del gran malinteso si basa tutto sulla confusione tra sesso e genere.

E devo ammettere che all'inizio ho fatto fatica anche io a capirla, questa differenza.

Poi mi è stata spiegato molto chiaramente, con il caso Lady Oscar.

Un pomeriggio una mia amica molto intelligente, estenuata dalle mie domande, ha trovato un esempio alla mia portata, e mi ha permesso di capire:

"È facile, devi pensare ai vestiti"

"Prego?"

"Nella maggior parte dei casi i vestiti nascondono il sesso e svelano il genere"

"Ovvero?"

"Ovvero, prendi me. Per come sono vestita – maglia, gonna, orecchini, anelli, rimmel, rossetto e shatush - e per come mi comporto tu presumi che io sia un essere umano di sesso femminile. Ma la certezza biologica del mio sesso non ce l’hai perché è ben nascosta centimetri sotto la mia gonna colorata. Ed è probabile che tu questa certezza non riesca a verificarla mai. Al contrario, se con un po' di accortezza mi fossi presentata vestita da uomo, e mi fossi comportata da uomo, – hai presente Lady Oscar in battaglia? - con la stessa certezza tu avresti presunto che io fossi un uomo. Ecco: il sesso è fisico, biologico, nella maggior parte dei casi chiaro in natura sin dalla nascita, ma condiviso in modo esplicito solo con una ristretta cerchia di persone intime (fatta eccezione per le escursioni estive a Capocotta). Il genere, invece, è culturale, esplicitato, simbolico, frutto di costruzioni storico-sociali che definiscono e spesso prescrivono, in una complementarità che può risultare coercitiva, cosa tu possa o non possa fare in quanto uomo o in quanto donna".

Da quel momento in poi mi è parso chiaro, come già era chiaro a Lady Oscar, che il punto non è parlare di sesso ma piuttosto di stereotipi, possibilità e potere, e di come gli stereotipi legati al genere vengano trasmessi e si consolidino nella società e nelle scuole, soprattutto quando non c’è una riflessione sull’impatto che possono avere iniziative intraprese in totale buona fede.

Anche qui, una storia illuminante.

A chiusura dei tre anni della materna di mia figlia siamo stati invitati alla recita di fine anno. Ammetto di non amare particolarmente le recite in generale, ma in questo caso lo spettacolo a cui siamo stati sottoposti è stato piuttosto inquietante. Bambini e bambine, divisi in due gruppi rigorosamente separati per genere, impegnati a cantare successi anni ’60, i maschietti con le rose a chiedere la mano a bambine invitate a fare le smorfiosette e dire "no" fino a quando i piccoli non si mettevano in ginocchio da loro.

A parte la scelta della colonna sonora, ché, diciamocelo, gli anni ‘60 in Italia e nel mondo hanno prodotto innovazione e cambiamento di grande impatto anche in ambito musicale e si poteva pescare a mani basse da un repertorio di alto livello praticamente immenso, la scena era abbastanza allarmante.

E, attenzione, ancora una volta, qui non si parla esplicitamente di sesso.

Si parla, piuttosto, di rendere stereotipati e di ipersessualizzare i comportamenti e le relazioni, di caricarli di un significato sessuale che non avrebbero per bambini di quella età e di trasmettere l’idea stereotipata che il genere a cui appartieni determina i tuoi comportamenti e delimita le tue aspettative: se sei femmina l’unica cosa che puoi fare é fare la smorfiosa ed aspettare che un uomo venga a dichiararti il suo amore in ginocchio portandoti una rosa, e, se sei maschio, almeno nella forma dovrai conquistarti quell’amore, piegandoti a portare quella rosa (e sentendoti di poter esigere, in nome di quella rosa, eterna riconoscenza e quotidiani favori). E a parte l’idea in sé superata e fastidiosa che in una relazione sia necessario mettersi in ginocchio, mi sembra triste che l’orizzonte di mia figlia, ma anche di mio figlio, debba essere aspettare che lo si mandi a prendere il latte per tornare con l’amore della propria vita.

Si vabbè, si potrebbe dire, sono solo canzonette.

Certo, sono solo canzonette.

Ma è proprio per questo che andrebbero prese così seriamente.

Per il potere che hanno i messaggi semplici e ripetitivi. Soprattutto se appresi a scuola.

Per questo, per evitare messaggi troppo semplici e ripetitivi, mi piacerebbe che si potesse avviare una riflessione su quali effetti possa avere una scelta animata da buon senso ma dal messaggio quantomeno ambiguo.

Sarò fissata, ma mi piacerebbe che a un bambino e a una bambina di cinque anni venisse proposto uno scenario di riferimento diverso. Che fossero chiamati – a scuola, in una recita di fine anno - a lavorare sul proprio corpo nello spazio, sulle potenzialità che lo spazio, la musica, la danza offre e sulle diverse modalità che ciascuno ha, in base alle proprie potenzialità fisiche ed emotive (e anche quando queste potenzialità si discostano dalla norma), di muoversi nello spazio e di esprimere queste emozioni. Come, ad esempio, è stato fatto nella recita, questa volta bellissima, di quest’anno di mia figlia (che nel frattempo, per fortuna, è passata alle elementari). Una recita in cui bambini tra loro diversi (inclusa una bambina con difficoltà motorie) hanno espresso, individualmente e all’interno del gruppo, le proprie identità.

Più in generale, mi piacerebbe che tutti/e potessero proiettare le proprie aspettative senza confini di genere, cogliere e offrire rose senza doversi mettere in ginocchio. E sognare di poter diventare astronauti, come Astro Samanta, oppure cuochi, o pittrici, come Frida Kahlo, o pentantatleti, oppure maestri, artigiane, cantanti, poeti, politiche, spazzini, o qualsiasi infinita altra cosa che apra la propria capacità di immaginarsi. E anche adulti e adulte felici, genitori, se lo vorranno, amici, amiche e amanti, mogli, mariti e nonni.

Mi piacerebbe che potessero scoprirsi per quello che sono e che potessero sentirsi liberi di essere come sono. Senza che qualcuno li limiti, li redarguisca o li faccia soffrire perché non aderiscono ai modelli di genere dominanti. Mi piacerebbe che mio figlio potesse andare a scuola vestito dei colori che preferisce, anche se questi sono il rosa, l’arancio e il verde acido, e che mia figlia potesse chiedere e ricevere per il suo compleanno un arco con le frecce senza sentire nessun commento del tipo “ma sei sicura che sia un regalo da bambina?”. E mi piacerebbe che quando si chiede ai bambini e alle bambine di descrivere cosa fanno mamma e papà l’opzione “Papà si occupa della casa” e “mamma viaggia molto per lavoro” non fossero guardate come opzioni marziane, alla stregua di “viviamo sott’acqua in una casa dalle pareti di vetro”, ma fossero una delle tante opzioni possibili e lecite.

E mi piacerebbe che ci fossero più maestri nelle scuole (una sorta di quote di genere), per favorire una maggiore presenza di modalità differenziate di guardare alla realtà e offrire approcci diversi ed integrati di crescita e sviluppo.

Questo, per me, è il punto.

Per questo credo che sia necessario ragionare sugli stereotipi di genere e mettere in discussione la famiglia tradizionale.

Perché tra le nuove forme di famiglie, comprese quelle con due mamme o due papà, ci sono anche quelle in cui gli orientamenti sessuali rispondono alla tradizione, alla norma (che ricordiamocelo, rimane un concetto preso in prestito dalla statistica, che definisce come “normale” il fenomeno maggiormente diffuso), ma i ruoli di genere no.

Perché avere sedici figli ed esibirli sul palco di Sanremo insieme ad una madre a cui è a malapena consentito articolare una parola, può essere una scelta, e io la difendo alla stessa stregua delle altre, ma non può essere il modello unico di riferimento.

E con questo bisogna confrontarsi, discutere, capire e accettare.

E questo è il vero punto, quello che fa paura: mettere in discussione ruoli tradizionali, dare alle donne (e agli uomini) potere di scelta, permettere a ciascuno di scoprire ed essere libero di essere quello che é.

Senza il senso del peccato, senza il rimorso di essere sbagliate, senza l’ansia di non corrispondere a desuete aspettative.

Da queste inibizioni, ansie, giudizi e aspettative io vorrei difendere mio figlio e mia figlia.

E credo che ragionare di genere e stereotipi nelle scuole materne sia un primo passo importante.

E mi rendo conto che questo passaggio potrebbe avere un vero ruolo davvero dirompente rispetto alle norme sociali.

E capisco che faccia paura.

Tuttavia, mi dispiace, ma opporsi è una battaglia persa.

Perché la società, seppure lentamente, sta cambiando.

 

NOTE

[1] Si veda la folle lista di libri per bambini messa all’indice dal Sindaco di Venezia

Internazionale
07 08 2015

Il caso. Isis Anchalee è una giovane ingegnera informatica di San Francisco. L’azienda in cui lavora come programmatrice, la californiana OneLogin, l’aveva scelta tra i testimonial per una campagna di assunzioni ma il suo bell’aspetto ha scatenato una serie di critiche sui social network. Diversi utenti hanno criticato l’azienda: “Perché non hanno scelto un vero ingegnere o un’impiegata invece di una modella?”, è stato il tenore dei commenti pubblicati sulla pagina Facebook. È stato allora che la donna ha deciso di rispondere sul suo blog agli stereotipi sessisti che ancora circondano il suo ambiente. “Non volevo attirarmi tante attenzioni, ma sfrutterò questa situazione per gettare un po’ di luce sul tema del genere nell’ambiente delle nuove tecnologie”.

I dati parlano chiaro. In media, il 30 per cento della forza lavoro nell’industria tecnologica è rappresentata da donne, quando le donne sono ormai il 59 per cento del totale della forza lavoro statunitense e il 51 per cento della popolazione, secondo gli ultimi dati dell’Us census bureau. Da un altro sondaggio pubblicato nel giugno 2013, risultava che le donne occupano solo il 14,3 per cento dei posti nei consigli d’amministrazione delle cento aziende tecnologiche con il miglior fatturato negli Stati Uniti. E secondo l’organizzazione Narrow the gap, a parità di incarico, le donne impiegate nelle aziende hi-tech ricevono in media 200 dollari alla settimana in meno. Questa realtà ha spinto il presidente Barack Obama a promuovere una serie di politiche per migliorare la situazione.

Le esperienze personali. “La realtà è molte persone sono bene intenzionate ma non vedono tutta la merda che deve affrontare in questo ambiente chiunque non si identifichi con un maschio”, ha scritto Anchalee citando un paio di esperienze personali. “Ho visto uomini lanciarmi biglietti da un dollaro in uno studio professionale (l’ha fatto un impiegato di quello studio, durante l’orario di lavoro). Ho visto un ingegnere durante un corso di specializzazione mandarmi un messaggio per proporre “un’amicizia con benefit” mentre affrontavo i colloqui di selezione nella scuola per cui lavorava. Vorrei sottolineare che i responsabili di queste azioni sconvenienti non sono persone cattive. Parlo di uomini socialmente inseriti, intelligenti, insomma, ragazzi normali”.

La mobilitazione internazionale. Da qui la domanda retorica proposta da Anchalee che ha dato il titolo a una vera e propria mobilitazione sul genere, attraverso il web: “Che aspetto dovrebbe avere un’ingegnera?”. L’hashtag #ilooklikeanengineer ha avuto un vasto seguito negli ultimi giorni su Twitter andando a coinvolgere ingegnere di tutto il mondo, dalla Nasa alle comunità islamiche.

Anchalee ora lavora a una community sul tema (www.ilooklikeanengineer.com) e sta raccogliendo fondi per promuovere la discussione sul genere e le diversità nel suo settore. Ha anche annunciato una manifestazione a San Francisco per giovedì 13 agosto.

Centomila euro. Il gender gap del pallone

  • Lunedì, 06 Luglio 2015 12:00 ,
  • Pubblicato in INGENERE

Ingenere
06 07 2015

Soldi. Sono quelli che mancano al calcio femminile, soprattutto in Italia. Mentre il business del calcio maschile impazza a tutti i livelli

Centomila euro. Di questa cifra si discuteva il 5 marzo 2015 nella famigerata riunione della Lega nazionale dilettanti, al termine della quale è stato redatto il verbale contenente l’ormai famosa fase dell’(ormai) ex presidente della stessa Lega, Felice Belloli: “Basta! Non si può sempre parlare di dare soldi a queste quattro lesbiche!”. Concentratasi – giustamente – l’attenzione e l’indignazione dei più sull’ultima parola urlata come un insulto (lesbiche), è entrato in ombra l’altro termine, cruciale, della frase: soldi. Quelli che mancano al calcio femminile, soprattutto in Italia. E che ruotano all’impazzata attorno a quello maschile, a tutti i livelli, dalle stelle ai pulcini, come le dettagliate cronache che spaziano dal mondano al penale ci informano quotidianamente. Ma qual è l’economia del calcio femminile? Come e di cosa vivono le atlete? Quanto è profondo il gender gap del pallone, nel paese dei Belloli e dei Tavecchio? E tra le campionesse di Canada 2015, che innalzeranno al cielo la loro coppa nello stadio di Vancouver il 5 luglio, al termine del mondiale più partecipato della storia del calcio femminile?

Gloria, piedi d’oro e tasche vuote

Gloria Marinelli, classe 1998, attaccante del Grifo Perugia, è una giovane promessa del calcio femminile. Ha giocato l’anno scorso il Mondiale under 17 nel Costa Rica, nel quale la nazionale italiana è arrivata al terzo posto. E i giorni vittoriosi del mondiale sono stati anche gli unici nei quali la giovane calciatrice ha guadagnato qualcosa. “Ottocentotrentasei euro, come rimborso spese. Trentuno euro al giorno, per essere precisi”, racconta ridendo suo padre Mauro – che allena un’altra squadra ed è grande sponsor della figlia. Grande e unico: “Il calcio è la sua passione, da sempre, e penso che sia giusto aiutare i figli a seguire le loro passioni. E sono il primo a essere convinto del fatto che non lo si fa per soldi, con l’idea di diventare ricchi”. Ma sta di fatto che, per Gloria come per tutte le sue talentuose colleghe, senza l’aiuto della famiglia non c’è possibilità di crescere, nel calcio. “Fino ai quattordici anni si allenano nelle squadre miste, con i ragazzi. Dopo, serve che ci sia una squadra solamente femminile: e in molti posti non c’è”, spiega Marinelli. La sua famiglia vive ad Agnone, nobile ma piccolo paese nel Molise, e quando è stato chiaro che Gloria voleva continuare a giocare la famiglia ha dovuto fare una scelta: farla partire, a proprie spese. Anche perché l’aveva chiamata nel suo vivaio una squadra di serie A, il Grifo Perugia. Il primo gender gap nasce proprio nel vivaio: se una squadra di serie A 'punta' un ragazzino di talento, lo prende a colpi di centinaia di migliaia di euro dal suo club, e al maschietto vanno in tasca almeno 100.000 euro l’anno. Per i club femminili, invece, non c’è storia: alle 'grandi' riescono a dare uno stipendio da statale, ma per le ragazze del vivaio spesso non ci sono che piccoli rimborsi spese. “Mia figlia si è trasferita a Perugia, per evitare di lasciarla sola è andata con lei la sorella più grande, che adesso studia lì. L’affitto e tutte le spese le paghiamo noi. Finora abbiamo speso 20mila euro”.

Come mai? Come ha raccontato Luisa Rizzitelli, presidente dell’Associazione nazionale atlete, il secondo gender gap è scritto nella legge: “le donne italiane, dalla prima all’ultima, non hanno accesso ad una legge dello Stato, la n. 91 del 1981 che regola il professionismo sportivo”. La legge delega al Coni la scelta delle discipline alle quali concedere il professionismo, cioè riconoscere il fatto che si fa dello sport la propria fonte di reddito principale. E le varie federazioni hanno concesso il professionismo ai livelli più alti di calcio, basket, ciclismo, motociclismo, boxe e golf: ma solo ai maschi. In nessuna disciplina dello sport in Italia è previsto che le donne siano professioniste. Sono tutte dilettanti, dalla massa delle neo-atlete che si allenano nelle piscine, sui campi e nelle palestre fino a Federica Pellegrini, Valentina Pezzali, Tania Cagnotto. Per gli sport più popolari, quelli con maggior seguito, rimediano gli sponsor, delle squadre e delle singole atlete. Altra entrata fondamentale, ma anche questa legata alla popolarità dello sport, sono i diritti tv. Ma questo sistema, se 'salva' o rende anche ricche le punte di eccellenza dello sport femminile, non copre la massa delle atlete, che, essendo eterne 'dilettanti' per legge, sono anche impossibilitate ad avere uno stipendio sportivo. E la mancanza di riconoscimento professionale comporta l’assenza di tutti i diritti a questo collegati: tutela assicurativa, pensioni, sanità. Retribuzione e congedi in gravidanza? Neanche a parlarne. “Per molte l’unica strada è quella di fare il concorso per la Guardia di finanza, entrare nelle Fiamme Oro”, dice Marinelli. E infatti il pantheon delle nostre atlete è pieno di poliziotte, finanziere, carabiniere.

È il mercato, bellezza?

Si potrebbe pensare che questa sia la dura legge del mercato: i soldi vanno dove rendono, cioè dove uno sport ha molto pubblico. Senonché, una delle ragioni di esistenza delle federazioni sportive è proprio quella di promuovere la diffusione degli sport, e dunque aiutare anche la nascita di un mercato. Per ora, i club calcistici sono molto restii a fondare squadre femminili, poiché all’inizio il settore non potrà che essere in perdita: di qui la richiesta di fondi che tanto ha irritato Belloli. Ma senza finanziamenti, anche i grandi colossi si muovono a rilento: guardare per credere cosa succede nella serie A, dove in teoria entro l’anno tutti i club dovrebbero aprire una squadra femminile. Tutto ciò è successo, con il solito anticipo, negli altri paesi europei. Ne sanno qualcosa in Germania, dove i forti investimenti nel calcio femminile hanno fruttato. Se alla finale del campionato femminile qualche settimana fa ha presenziato Angela Merkel in persona, qualche motivo c’è. In Germania il calcio femminile ha 5.486 club e 250mila giocatrici, da noi i club sono 365 e le calciatrici circa 1.300.

Ma anche laddove il mercato è già arrivato, seguendo i grandi numeri del rettangolo verde femminile, ferve la polemica sul gender gap. Negli Stati uniti, per esempio, mentre il calcio maschile è sport di recente popolarità, quello femminile ha ottimi numeri, come risultati e come pubblico. Eppure, Bustle.com ha confrontato la situazione di due star nei rispettivi campi: Sidney Leroux, una delle protagoniste dei mondiali femminili in Canada (campionessa olimpica del 2012), guadagna tra i 60.000 e i 92.000 dollari l’anno (sponsorizzazioni incluse), mentre Jozy Altidore, suo coetaneo della nazionale maschile, prende 6 milioni di dollari escluse le sponsorizzazioni. Alle polemiche sul pay gap, la Fifa risponde mostrando i diversi incassi dei mondiali maschili e femminili: “Ci vorranno 23 coppe del mondo perché si possa raggiungere la stessa paga”, ha detto il segretario generale della Fifa Jerome Valcke, dimenticando che la missione della sua organizzazione non è quella di far profitti, ma di far sviluppare il calcio ovunque e per tutti. Aspettare il 2107 per avere la parità dei salari è un po’ troppo. Soprattutto per atlete che si sono mostrate molto combattive, non solo in campo ma anche per la difesa dei propri diritti. Proprio in vista dei mondiali, in Canada ha tenuto banco una forte polemica sul tipo di manto usato per gli stadi, molto più scadente, pericoloso e nocivo di quello dei maschi. Mentre si è scoperto che il business del mondiale femminile sarà più piccolo di quello maschile, ma è in crescita: quest’anno ci sono 24 squadre (otto in più che nelle scorse edizioni), e sono stati staccati un milione di biglietti. Il Canada, unico paese che si è presentato per ospitare i mondiali (c’era anche lo Zimbabwe ma si è ritirato), stima un impatto di 263 milioni di dollari come effetto-Mondiali. E finalmente il calcio femminile è sbarcato anche su Fifa16, il popolare videogioco calcistico che finora lo aveva del tutto ignorato. Chissà che gli uomini (e le donne) del business non fiutino l’affare prima dei dirigenti degli organi federali del calcio. A proposito, da noi la composizione di genere di questi consessi è totalmente, al 100 per cento, maschile.

La battaglia per i soldi va di pari passo con quella contro gli stereotipi. Che si combatte anche, e bene, a colpi d’ironia. C'è un resoconto in italiano del divertente video fatto dalle atlete norvegesi contro i luoghi comuni più diffusi. Stefania Bianchini, campionessa mondiale di boxe e kickboxing, ha raccontato nel suo libro La combattente quanto pregiudizi e stereotipi abbiano danneggiato la stessa pratica sportiva, a partire dai colpi che erano concessi o proibiti nel combattimento. E poi pesa il modo di raccontare lo sport femminile: la battaglia contro gli stereotipi costruiti da chi scrive e parla di sport ha anche un blog apposito, Un certo genere di sport. In questo senso, Belloli è stato involontario sponsor del calcio femminile, sollevando una rivolta generalizzata. A partire dalle stesse atlete italiane. In un'intervista rilasciata al Corriere, Martina Rosucci, numero 10 della nostra nazionale, tra la difesa appassionata del suo sport e l’attacco al 'moralismo bigotto' risolve così gli sconcertanti giudizi estetici del tipo le calciatrici sono tutte brutte: “E Chiellini è bello?”.

Paola Zanca, Il Fatto Quotidiano
27 giugno 2015

Le ministre Boschi e Giannini hanno speso un po' del loro tempo prezioso per rassicurare i senatori di Area Popolare: nessuna "teoria gender" varcherà la soglia della scuola pubblica italiana. Tranquilli: nei libri che studiano i vostri figli, ...
Le ministre Boschi e Giannini hanno speso un po' del loro tempo prezioso per rassicurare i senatori di Area Popolare: nessuna "teoria gender" varcherà la soglia della scuola pubblica italiana. Tranquilli: nei libri che studiano i vostri figli, continueremo a raccontare di donne che cucinano e puliscono e di uomini che girano il mondo e portano a casa il pane.
Paola Zanca, Il Fatto Quotidiano ...

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