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Che genere di città

  • Venerdì, 10 Aprile 2015 08:35 ,
  • Pubblicato in INGENERE

InGenere
10 04 2015

Nell'organizzazione spaziale delle città le disparità di genere tendono ad assumere le stesse caratteristiche che si riscontrano nella struttura sociale. Lo spazio urbano è stato modellato a misura del genere 'dominante': il modo in cui le donne vivono e si muovono nella città si differenzia in relazione al diverso ruolo che esse ricoprono nella società. A decidere sul corpo delle città sono principalmente gli uomini, dato che la politica è un ambito ancora fortemente dominato dal genere maschile, malgrado il crescente numero di donne in posti di comando. Nella polis, così come nella città, infatti, il pensiero e l’opera delle donne continua ad essere poco influente, anche se da tempo le professioni dell’ambiente costruito attingono dal genere femminile.

Kate Henderson, la direttrice della Town and Country Planning Association, che nel Regno Unito rappresenta una tradizione lunga un secolo nell’ambito della pianificazione urbanistica, ha dichiarato di avere spesso modo di sentirsi isolata, in quanto ad appartenenza di genere, nel contesto professionale in cui opera. La sua esperienza può essere spiegata con il fatto che malgrado sia aumentato negli anni il numero delle professioniste del settore, sono rimaste basse le possibilità che esse siano influenti sulle politiche urbane.

Eppure è stata una donna, Jane Jacobs, a scrivere oltre mezzo secolo fa Vita e morte delle grandi città americane, una delle letture critiche più note dello sviluppo urbano contemporaneo. Due anni più tardi, nel 1963, Betty Friedan descrisse la storia dello sviluppo delle città americane durante il ventesimo secolo come una vicenda di puro esercizio del potere di un genere sull’altro. The Feminine Mystique è una spietata denuncia dell’oppressione delle donne attraverso il grande progetto suburbano che ha portato oltre la metà della popolazione statunitense a vivere in agglomerati monofunzionali, destinati ad essere i settori residenziali di metropoli in continua espansione e luoghi di confinamento delle frustrazioni femminili. La situazione descritta da Revolutionary Road – il romanzo di Richard Yates del 1961 – diventava indagine sociologica e denuncia di una strategia per confinare le donne nello spazio domestico.

In molti paesi le donne hanno assunto un ruolo determinante nelle economie nazionali, ma il tema di come la forma della città ed il paesaggio urbano tengano conto dell’universo femminile difficilmente viene affrontato. Nello spazio pubblico i corpi femminili sono ancora relegati nell’immaginario della domesticità o ancorati al desiderio sessuale maschile e tutto ciò è considerato normale, basta percorrere le strade di una città qualsiasi. Non è certo una novità che il corpo femminile sia utilizzato per finalità commerciali, ma che sia possibile evitare questa interferenza con il paesaggio urbano, soprattutto se essa finisce per rafforzare i peggiori stereotipi di genere, lo prova la decisione della città di Grenoble di rinunciare ai proventi derivanti dalla cartellonistica pubblicitaria.

La recente proposta di regolamentare la prostituzione di strada nel quartiere dell’EUR a Roma - non a caso un'area della città a forte specializzazione funzionale, che sta facendo i conti con una fallimentare gestione urbanistica - rappresenta molto bene quanto il vecchio immaginario maschile, che associa prostituzione a degrado, sia diventato l’argomento che consente di non prendere in considerazione i veri problemi di quell’area. C’è una evidente ipocrisia nel far credere all’opinione pubblica che la priorità sia mettere ordine nella situazione attuale, già dominata dalla forte presenza di prostitute, e nel non affrontare le conseguenze di scelte urbanistiche che hanno lasciato in eredità una serie di contenitori non finiti, come La Nuvola sede del Nuovo Centro Congressi, o abbandonati, come nel caso del vecchio parco di divertimenti Luneur.

Se almeno a livello simbolico la città continua ad essere lo spazio degli uomini e, implicitamente, la casa quello delle donne, non saranno certo gli edifici disegnati da architetti donna a fare la differenza, nemmeno se essi ricordano parti del corpo femminile come nel caso del progetto di Zaha Hadid per lo stadio dei mondiali di calcio in Qatar. Il tema della rigida separazione funzionale delle città, che ha penalizzato le donne in virtù del tributo che pagano alle necessità della specie - per usare le parole di Simone de Beauvoir - è stato affrontato da Dolores Hayden nel 1980 in What Would a Non sexist City Be Like? Da urbanista, Hayden, riconduce la questione del sessismo insito nell’organizzazione urbana ai suoi aspetti spaziali, riconoscendo tuttavia che il problema è politico, nel senso più pieno del termine. Il saggio, che ha evidenziato la necessità di considerare lo spazio costruito non più secondo categorie rigide, contiene una serie di soluzioni progettuali in grado di superare la separazione tra abitazioni e luoghi di lavoro. L’intento è di scardinare le basi dello sviluppo urbano contemporaneo al di là di un diverso progetto spaziale: sono le basi sociali ed economiche, che affidano alle donne il lavoro domestico non retribuito, a dover essere radicalmente trasformate.

La questione da porre al centro della progettazione delle città, resta quindi la stessa contenuta nel libro di Jane Jacobs. Qui, l’autrice, attraverso la sua esperienza di donna che vive, osserva, si misura con lo spazio urbano, ha saputo mettere in crisi i dogmi dell’urbanistica novecentesca e i suoi effetti sulla città contemporanea, individuando la necessità di scardinare le categorie funzionalmente rigide attraverso una serie di soluzioni progettuali in grado di superare la separazione tra abitazioni, luoghi di lavoro, servizi e spazio pubblico, dentro le quali le donne hanno finito per essere categorizzate secondo codici dettati da una visione dominante e maschile. La città contemporanea, in altre parole, può essere frutto di un diverso progetto spaziale, a patto che il suo ordinamento sociale sia radicalmente trasformato.

Michela Barzi

Gli orrori hanno un sesso difficile da nominare

E' vero che non tutti gli uomini uccidono, che la cultura maschile da secoli non ha seminato solo morte, ma dato vita anche a opere sublimi di civiltà; è vero che l'amore, la solidarietà, il pacifismo non le sono estranei. Forse è per questo che esitiamo a nominare alcune verità. La prima è che la violenza, dalle guerre tra Stati alle guerre civili dovute al fanatismo o a problemi sociali, alla persecuzione delle minoranze, è Stata praticata dal sesso maschile, sia pure con l'aiuto e la complicità delle donne. La seconda considerazione è che l'amore e l'odio, considerate pulsioni contrapposte, non si danno mai isolatamente, vincolate come sono l'una all'altra.
Lea Melandri, Il Manifesto ...

Abbatto i muri
30 03 2015

E’ solo mia l’impressione che ogni volta che Luisa Muraro esprime il suo pensiero allo stesso tempo spira un vento fortemente reazionario?
Non è la prima volta che il suo punto di vista contrasta la questione dei generi, tra l’altro distorcendo l’opinione di Judith Butler, rendendola funzionale alla negazione stessa di quel che Butler racconta. Perché, così Muraro scrive: “la gender theory dei cinque generi ha qualcosa di doppiamente aberrante” e perché “la differenza sessuale si avviava ad essere esclusa dalle cose umane, per essere sostituita da un travestitismo generalizzato senza ricerca soggettiva di sé“.

Che differenza c’è tra questi concetti e quelli che vengono descritti da chi parla di "Ideologia del Gender"? In generale il femminismo della differenza non è mai stato incline a cedere qualcosa ad altri femminismi. Da sempre, in Italia, si è imposto egemonizzando dibattiti e monopolizzando spazi. Ma, come ha scritto qualcuno, a momenti ci ha prolassato l’utero e, più in generale, non è neppure più un pensiero, così come viene espresso, attorno al quale si possa fare una seria discussione femminista. Di che parliamo se non della paura di andare oltre la differenza tra uomini e donne? Ed è inutile che Muraro la racconti con tante belle parole e tante somme citazioni, perché il succo del suo discorso è proprio quello lì.

Chi ha mai detto che i generi sono cinque? Certo che possono essere anche di più. Chi ha mai detto che per ogni genere non si stabiliscano delle differenze? E siamo già oltre quel che dice la Muraro, perché noi ragioniamo di differenza tra persona e persona, e non tra generi. Perché esiste la questione di genere, di classe, razza, specie. Si chiama femminismo intersezionale ed è quello che attraversa le battaglie politiche a partire da un punto di vista che non sia ancorato al binocolo ricavato da una fica. Chi ha detto che il “travestitismo” voglia annullare le differenze? A me sembra che l’unico ragionamento incline a fare questo sia esattamente quello della Muraro. Dubito infatti che Muraro abbia in mente un ragionamento filosofico che riconosca diritti e legittimità a chi non si definisce attraverso un anacronistico riduzionismo biologico.

Lei dice che il pensiero della differenza ha scardinato quel copione maschilista che riconosceva alle donne d’essere nate come mancanti di qualcosa. Costole di qualcuno, derivazioni maschili. Ma dopo aver detto – e perdonate il mio tono, ma si sa che io m’ispiro per la maggior parte al De vulgari eloquentia di Dante Alighieri (e ho citato un pezzo grosso anch’io) – che la donna non deriva proprio da nessuno e che è persona, diversa, perché mai riesce tanto difficile capire che non per questo è obbligata, per amor delle accademiche, a restare immobile a contemplar la figa, perché ogni altra ricerca sarebbe stata bollata come “aberrante” e mancante “di ricerca soggettiva del se‘”?

Questo è un nodo che bisogna sciogliere, perché se il pensiero della differenza ha rimesso in discussione la collocazione delle donne ora sarebbe il caso di smettere di nascondersi dietro la parola “femminismo” per citare termini quali “travestitismo”. Mi pare di leggere chi dice che le persone trans non sono altro che illuse che vorrebbero essere donne ma giammai potranno raggiungere tanta e tale perfezione. Mi sembra di leggere chi dice che un gay è effeminato. Sostanzialmente io vedo, nel ragionamento di chi ci spiega come procede il pensiero della differenza, che l’unica differenza che viene riconosciuta è quella che somiglia a loro.

La “ricerca soggettiva del se‘” non viene meno se una donna è tale anche se non ha l’utero, perché avere l’utero non è un valore aggiunto e la trans non è una derivazione “mancante di qualcosa” così come prima le donne erano considerate dagli uomini. Però sono grata alla Muraro che ci ha spiegato così bene perché altre femministe, non lei da quel che so, ad un certo punto diventano omo/transofobe. Nel ragionamento che riconosce solo un valore binario non c’è spazio per nient’altro. Le attribuzioni di caratteristiche sono assegnate e in barba alla presunta ricerca di se’ quel pensiero inibisce la possibilità di dirsi altro che prescinda da una figa e un pene.

L’orgoglio di vedere espresse le differenze donnesche non più in termini dispregiativi, ma addirittura come un mezzo per elevarsi più vicine a Dio, deve aver creato una sorta di corto circuito ideologico, rendendo statico, imperturbabile e dogmatico un pensiero che dovrebbe invece essere laico. Quando si parla di donne differenti si parla infatti di donne migliori. Siamo meglio di tutti quanti. I governi con le donne a fare da ministre sono meravigliosi, gli Stati guidati da donne sono strepitosamente efficienti, l’economia in mano alle donne restituisce al mondo l’armonia, la pace, la serenità eccetera eccetera. Le donne mettono fine alle guerre, se c’è n’è una che combatte e uccide è una stranezza, poiché si dice che avrebbe introiettato caratteristiche proprie del maschile. Immaginate cos’è la somma di queste convinzioni quando si parla di altri generi.

Parrebbe un capovolgimento, una sorta di perversa distorsione della realtà: le trans sono considerate per metà uomini che tenderebbero alla conquista della femminilità. Però in se’ sarebbero ancora maschi e dunque conserverebbero tutte le peggiori caratteristiche di cui l’uomo è portatore sano. Le trans sono un pericolo per il femminismo, dicono alcune rappresentanti del femminismo radicale statunitense e britannico. Vanno bandite dalle assemblee perché sono delle infiltrate e i gay sono ancora peggio. Usano gli uteri delle donne per ottenere un figlio gratis. E cos’è una donna se non una madre attaccatissima a quel che esce fuori dalla vulva? Senza tenere conto di quelli che ieri si chiamavano Francesca e oggi Antonio, perché esistono anche loro e non si capisce dove le femministe della differenza potrebbero collocarli.

Sicché di sovradeterminazione in sovradeterminazione si capisce perché alla fine ci troviamo a considerare che esiste un femminismo che mentre ti indica la via si allea con paternalisti, forze che procedono per far regredire la nostra ricerca del se’, soggetti autoritari che non hanno problemi a delegittimare chiunque non appartenga al duo donna/uomo. Mentre noi tentiamo di allontanarci dall’incastro che suggerisce il nostro essere donne – la sessualità riproduttiva, la maternità come realizzazione di se’ – c’è chi parla di grande madre, di dolore della madre surrogata, scimmiottando una mistica della maternità, propria di altre correnti di pensiero, ma con una punta di orgoglio femminista. E vabbè, sarà come dite voi ma di contraddizioni io ne vedo sinceramente troppe. La domanda a questo punto è: dobbiamo considerare il termine “travestitismo” offensivo se riteniamo di sposare la teoria queer? Cosa sono le persone che non si dicono precisamente uomo e donna: figli di un Dio o di una Dea minore?
Saluti, cordiali, e ora vado a travestirmi.


Monica Pepe intervista Giorgia Serughetti, autrice del libro "Uomini che pagano le donne" (Ediesse)

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