L’ITALIA RISULTA PER NUMERO DI ABITANTI, IL PAESE CON IL PIÙ ALTO TASSO DI OMOFOBIA SIA SOCIALE CHE POLITICA E ISTITUZIONALE.
Il 31 marzo 2009 uno studio reso noto dall’Agenzia per i diritti Fondamentali (FRA) dell’Unione Europea ha evidenziato che il problema dell’omofobia, sta danneggiando la salute e la carriera di quasi 4 milioni di persone in tutta Europa.
L’Agenzia Ue per i Diritti Fondamentali ha detto che in molti paesi la polizia non riesce a gestire i crimini legati all’omofobia (abusi verbali ad attacchi mortali) e che molti governi e scuole non affrontano la questione con la dovuta serietà.
Il direttore dell’agenzia Morten Kjaerum ha sottolineato come in molti paesi Ue questi attacchi non vengono nemmeno denunciati e ha sollecitato un miglioramento del sistema di denunce.
Questo crea un circolo vizioso che spinge le vittime a rimanere “invisibili” invece di dichiarare apertamente il proprio orientamento sessuale o denunciare alle autorità gli abusi subiti.
“Fin dalla più tenera età, le parole dispregiative usate per gay e lesbiche a scuola insegna a queste persone a rimanere nell’ombra”, spiega lo studio pubblicato oggi.
“Spesso sono vittime di discriminazioni e molestie sul posto di lavoro e in molti paesi non possono rendere legale la loro relazione di coppia”.
Il rapporto indica che gay, bisessuali e transgender nella vita di tutti i giorni sono oggetto di pregiudizio e di discriminazioni che colpiscono tutti gli ambiti sociali, dal posto di lavoro, alla scuola alla sanità.
Lo studio consiglia caldamente di denunciare in modo anonimo i crimini di omofobia per combattere il problema, evidenziando progetti pilota in Danimarca, Paesi Bassi e Slovenia.
Alcuni casi gravi di discriminazione hanno coinvolto le autorità d’asilo, con ufficiali che hanno negato rifugio a fuggitivi perché non credevano che fossero perseguitati per il loro orientamento sessuale.
In termini di sanità, la discriminazione può spingere le vittime ad evitare di chiedere aiuto e, in alcuni casi, queste persone sono state curate partendo dal presupposto che il loro orientamento sessuale fosse “un problema o una malattia”.
Lo studio, che ha messo insieme ricerche condotte in 27 paesi, riporta che oltre la metà dei cittadini dell’Unione Europea sostiene che la discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale sia molto diffusa nella propria nazione.
Bulgaria, Estonia, Lettonia, Polonia e Romania sono risultate le più ostili nei confronti delle manifestazioni “gay pride” e si sono verificati attacchi in contro-manifestazioni. In altri cinque paesi, Repubblica Ceca, Cipro, Ungheria, Italia e Malta ”appelli a migliorare i diritti di omosessuali e transegender sono stati accolti da risposte negative da alcuni politici e da rappresentanti di istituzioni o di gruppi religiosi”.
Soltanto tre stati dell’Ue, Belgio, Paesi Bassi e Spagna, danno pieni diritti ai matrimoni tra persone lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e transgender, mentre la maggior parte degli altri paesi non dà loro alcun diritto in questo senso.
Nei Paesi Bassi, l’82% degli intervistati si è dichiarato a favore dei matrimoni con partner dello stesso sesso, rispetto all’11% in Romania e al 12% in Lettonia.
Il livello di accettazione, continua lo studio, è piuttosto elevato anche in Francia, Austria, Svezia e Spagna, dove figure politiche e religiose hanno partecipato a dimostrazioni gay pride per dare visibilità alla questione.
Ma l’apertura mentale tende a diminuire quando si chiede un’opinione sull’eventualità che gli omosessuali adottino dei bambini.
Anche se la rappresentazione dell’omosessualità sui media è leggermente migliorata, continuano a prevalere gli stereotipi, conclude lo studio.
L’Italia risulta per numero di abitanti, il paese con il più alto tasso di omofobia sia sociale che politica e istituzionale.
Il documento ricorda, inoltre, come in Italia la presenza vaticana costituisca un elemento decisivo di sostegno all’ideologia omofobica e discriminatoria.
Per quanto riguarda l’Italia però un terreno fondamentale per la lotta all’omofobia è rappresentato dai media perché, mentre l’atteggiamento della carta stampata è relativamente positivo (salvo la cronaca nera), permane una fortissima difficoltà nei mezzi radio-televisivi dove, quando si parla di omosessualità, prevale una presenza religiosa omofoba quasi sempre senza contradditorio. Inoltre, sempre più spesso, i media italiani danno ampio spazio a battaglie “contro l’omosessualità” ad opera di uomini di spettacolo, calciatori e cantanti, che in nome di una non meglio specificata “lobby gay”, evidenziano che l’orientamento sessuale sia sempre più una scelta che fa moda, piuttosto che una naturale inclinazione dell’individuo quale essa in realtà è.
La rapida approvazione di una normativa anti-omofobia rappresenterebbe un segnale molto forte di controtendenza sia sul piano legislativo che su quello culturale e politico. I numerosi appelli affinchè il Parlamento italiano estenda le aggravanti della legge Mancino del 1993 anche ai reati d’odio contro gay e trans, sono rimasti finora inascoltati per l’opposizione delle gerarchie vaticane.
Fonte:
Per il Summary report (parte II) dell’Agenzia per i Diritti Fondamentali dell’Unione europea in lingua inglese: http://fra.europa.eu/fraWebsite/attachments/hdgso_part2_summary_en.pdf
(La parte I del report - quella legale - è in sezione Diritti delle donne).
Per il Summary report (parte II) dell’Agenzia per i Diritti Fondamentali dell’Unione europea in lingua francese: http://fra.europa.eu/fraWebsite/attachments/hdgso_part2_summary_fr.pdf
(La parte I del report - quella legale - è in sezione Diritti delle donne)
Per il capitolo del report relativo all’Italia:
“The social situation concerning homophobia and discrimination on grounds
of sexual orientation in Italy”:
http://fra.europa.eu/fraWebsite/attachments/FRA-hdgso-part2-NR_IT.pdf
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16/05/2009 - Arcigay - Diritti Umani
Arcigay
REPORT dei principali episodi di violenza omofoba e transofoba accaduti in Italia nel 2008 e 2009
Come noto, in Italia non esiste alcuna legge che riconosca un’aggravante specifica per i reati commessi in odio a persone omosessuali, bisessuali e transgender.
È di conseguenza impossibile avere una rilevazione statistica attendibile, o reperire informazioni ufficiali da parte delle Forze dell’ordine in merito a reati di carattere omofobico, semplicemente perché non esiste una specifica fattispecie di reato.
Di conseguenza è estremamente difficile che all’atto della denuncia la vittima di violenza dichiari la matrice omofobica del gesto patito, sia perché ciò non costituirebbe una aggravante, sia in virtù di una forte omofobia interiorizzata, largamente diffusa nel nostro paese, che porta ad una vera e propria autocensura.
La medesima autocensura fa sì che moltissimi casi di violenza omofobica rilevati dalle reti territoriali delle Associazioni di tutela rimangano, o per decisione delle vittime o per una giusta delicatezza nei confronti delle stesse, in un ambito di estrema riservatezza che non le rende pubbliche e rilevabili.
La mancanza di una reale percezione di tutela e l’omofobia interiorizzata determinano che la stragrande maggioranza dei casi di violenza omofobica non vengano nemmeno denunciati.
I dati contenuti nel report non hanno pertanto alcun reale valore statistico, sono solo una fotografia della realtà, rilevata esclusivamente dalle notizie apparse sui media.
Luca Trentini
Responsabile nazionale Arcigay Diritti Umani e Lotta alla violenza
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I testi sono tratti da articoli comparsi sulla stampa e sono aggiornati al 12.05.09
Arcigay non è responsabile dei contenuti
Riepilogo casi registrati nel report
gennaio 2008 - maggio 2009
Omicidi: 15
Violenze ed aggressioni: 71
Estorsioni: 12
Atti di bullismo: 7
Atti vandalici: 9
Anno 2008
Omicidi: 9
(4 in Lombardia, 2 nel Lazio, 2 in Campania e 1 in Sardegna)
Violenze ed aggressioni: 45
(13 in Lazio, 7 in Lombardia, 6 in Emilia-Romagna, 4 in Veneto, 3 in Campania, 3 in Liguria, 3 nelle Marche, 2 in Piemonte, 2 in Toscana, 1 in Sicilia, 1 in Calabria)
Estorsioni: 7
(2 in Liguria, 2 nelle Marche, 1 in Sardegna 1 in Toscana, 1 in Puglia)
Atti di Bullismo: 5
(2 in Lombardia, 1 in Piemonte, 1 in Toscana, 1 in Sicilia)
Atti vandalici: 9
(4 in Friuli Venezia Giulia, 2 in Lazio, 1 in Emilia-Romagna, 1 in Sardegna, 1 in Veneto)
Anno 2009 (primi 5 mesi)
Omicidi: 6
(1 in Campania, 1 in Lombardia, 1 in Veneto, 1 in Liguria, 1 in Sardegna, 1 in Puglia)
Violenze ed aggressioni: 26
(6 in Lazio, 3 in Lombardia, 3 in Sardegna, 2 in Friuli Venezia Giulia, 2 in Emilia Romagna, 2 in Campania, 2 in Toscana, 1 in Umbria, 1 in Puglia, 1 in Abruzzo, 1 in Piemonte, 1 in Veneto, 1 in Trentino)
Estorsioni: 5
(2 in Veneto, 1 in Emilia Romagna, 1 in Piemonte, 1 in Toscana)
Atti di Bullismo: 2
(1 in Veneto e 1 in Puglia)
http://www.arcigay.it/files/arcigay/ReportArcigay_omofobia_2008_2009_17maggio.pdf
Da Global Forum on gender statistics Conferenza (Roma, 10 - 12 dicembre 2007) :
Estratto dell'intervento:
di Linda Laura Sabbadini, Istat- Direzione Centrale per le indagini su condizioni e qualità della vita consultabile integralmente all'URL http://www.istat.it/english/lunedipomeriggio/Sabbadini%20italiano.pdf
(...)
3-NUOVE SFIDE PER LA MISURAZIONE: LA DISCRIMINAZIONE
Il genere influisce anche sulle diversità e vulnerabilità legate ad altre differenze quali razza/appartenenza etnica, classe sociale, età, disabilità, orientamento sessuale, ecc.., spesso rafforzandole. Molte ricerche hanno messo in luce questo aspetto ma a livello di statistiche ufficiali siamo ancora molto indietro nella concettualizzazione e operazionalizzazione dei concetti.Su come definire e misurare la discriminazione sono stati sviluppati studi dagli anni ’70 negli Stati Uniti, a partire dalla disuguale partecipazione al lavoro delle donne, dei migranti e degli afroamericani. Col passare degli anni altri tipi di discriminazioni hanno ricevuto crescente interesse, in particolare in relazione ai disabili, alle persone di diverso orientamento sessuale, agli anziani. Misurare la sistematica posizione svantaggiata nella società dovuta a caratteristiche personali considerate differenti dalla norma è fondamentale.
Le analisi condotte mettono in luce in alcuni casi come non solo si esprima una discriminazione per etnia, o per generazione, ma che questa è accompagnata da una discriminazione di genere, che si configura come una ‘discriminazione nella discriminazione’.
Per esempio in Italia, la situazione degli immigrati nel mercato del lavoro non è particolarmente positiva: pur presentando più alti tassi di occupazione degli italiani (67,3% contro 57,9% nella media del 2006) ciò avviene al prezzo dell’inserimento nei lavori di più bassa specializzazione, minor reddito, in aziende più piccole e maggiormente vulnerabili. Tra l’altro gli immigrati con quel lavoro, di reddito più basso devono mantenere in proporzione famiglie con un numero di componenti più alto (il 46,8% delle famiglie immigrate con 4 o più componenti sono monoreddito rispetto al 36,0% delle italiane). Sembrerebbe esistere soltanto un problema di differenza tra immigrati e italiani, in realtà non è così perchè la condizione delle donne immigrate è comunque peggiore (tassi di occupazione dell’84,2% per gli uomini e del 50,7% per le donne). Le donne migranti presentano tassi di occupazione più bassi degli uomini e più alti delle donne italiane. Ma se si analizzano i tassi di occupazione per ruolo in famiglia emerge che le donne migranti in coppia con figli hanno un tasso di occupazione più basso anche delle italiane (41,5% contro 48,3%). I problemi di conciliazione lavoro e famiglia sono per le migranti molto più gravi in un Paese come l’Italia dove la rete di servizi sociali per l’infanzia è scarsa, i servizi privati alle famiglie sono molto costosi e le migranti non possono avvalersi delle reti di aiuto informale, fondamentale supporto per le donne italiane. Le immigrate dunque, in Italia soffrono un doppio problema e spesso una doppia discriminazione sia essa diretta o indiretta rispetto al lavoro. Ma che succede rispetto agli altri aspetti della vita sociale ed economica? Quanto e come si esprime la discriminazione nella discriminazione? Esistono scarsissime fonti per rispondere a questa domanda, dovremmo cominciare a lavorare di più su questi aspetti.
Sull’orientamento sessuale della opolazione la situazione è ancora più critica perché non esistono studi ancora sufficienti. Si parla di discriminazione basata sull’orientamento sessuale in riferimento a qualsiasi svantaggio subito da una persona in virtù della sua non eterosessualità, anche nel caso di un silenzio autoimposto (Bonini Baraldi 2004). Sarebbe fondamentale ricostruire i possibili legami con episodi discriminatori nell’esperienza lavorativa sia che essi vengano riconosciuti come tali dagli intervistati sia che non lo siano, o nell’accesso all’abitazione o più in generale nella vita sociale. Sarebbe fondamentale comprendere quando e per quali fasce della popolazione le esperienze punitive siano vissute come atti discriminatori in ragione del loro orientamento non eterosessuale oppure come semplici risultati di cattive performance lavorative. Sarebbe fondamentale capire se esiste oppure no una differenza di genere. La statistica ufficiale è molto indietro nella stessa misurazione della consistenza delle famiglie con partner dello stesso sesso e dovrebbe cominciare a darsi una strategia su questo terreno. Il fatto che da studi internazionali non condotti a livello di statistiche ufficiali il numero di lesbiche è più basso del numero di gay e che in alcuni Paesi la differenza tende a diminuire cela forse un clima di condanna sociale più pesante nei confronti delle donne? I dati quasi inesistenti non permettono di dare una risposta adeguata al problema, né di capire se esistono differenze nell’esposizione al rischio di discriminazione, ma esiste ormai una domanda crescente della società civile e dei policy makers su questo terreno e dovremo prima o poi riuscire a dare una risposta.
È ancora poco studiata la discriminazione dovuta alla condizione di disabilità anche nel mondo del lavoro rispetto ad altre cause di discriminazione quali sesso, razza e origine etnica, e età. La gran parte degli studi si è concentrata sulla discriminazione nella fase di accesso al lavoro, la segregazione occupazionale, e la bassa qualifica attribuita (da cui deriverebbe anche una discriminazione salariale affatto trascurabile). Dai dati dell’Istat in Italia emerge che la disabilità è un fattore che fa incrementare l’esposizione al rischio di povertà. Complessivamente tra le persone con disabilità ben il 47% riferisce risorse scarse o insufficienti contro il 31% della popolazione non disabile e tale differenza si mantiene stabile nelle diverse classi di età. Sono peraltro i segmenti meno istruiti della popolazione ad essere maggiormente disabili, in particolare tra gli ultrasessantacinquenni è disabile il 21,2% delle persone con basso titolo di studio contro il 10,1% delle persone con titolo di studio medio alto (tra le donne anziane meno istruite la quota aumenta al 25% contro il 15% degli uomini). Le persone con disabilità, inoltre, subiscono una discriminazione anche in termini di segregazione occupazionale, perché spesso svolgono lavori con scarse barriere di entrata, o che prevedono delle quote dedicate alle c.d. “categorie protette”, in occupazioni specifiche, o svolgono le mansioni meno qualificanti all’interno delle stesse occupazioni. Restano in ogni caso tra i più vulnerabili, “gli ultimi ad essere assunti, i primi a doversene andare” come detto dall’ Ilo (2003). La quota di persone disabili tra le donne è circa il doppio rispetto a quella degli uomini (6,1% vs 3,3%) ma la differenza è imputabile soprattutto alle differenze di genere che si registrano dopo i 65 anni (22.5% contro 13.3%).
Le donne anziane peraltro cumulano più facilmente degli uomini le diverse tipologie di disabilità: quella motoria fino al confinamento, della comunicazione, delle funzioni dell’attività quotidiana: il 13,2% ne ha almeno due, mentre per gli uomini la quota scende al 7,2%. Sarebbe fondamentale capire quanto anche in questo caso lo svantaggio femminile si esprime anche nell’emergere di una diversa esposizione al rischio di discriminazione.
Un piano di rilancio delle statistiche di genere non può non prevedere un punto sulla sovrapposizione di discriminazione di genere con altri tipi di discriminazione
E’ fondamentale che in un piano di rilancio delle statistiche di genere si ponga al centro anche la misurazione delle discriminazioni e ciò venga fatto con un approccio di genere, perché la discriminazione di genere potrebbe essere trasversale a tutte le discriminazioni. Numerose sfide abbiamo di fronte. La discriminazione può avvenire in luoghi diversi, a scuola, al lavoro, in altri ambienti sociali. I meccanismi possono cambiare, possono essere espliciti e diretti, o possono essere indiretti e quindi più difficili da misurare. Inoltre, solo una piccola parte dei casi di discriminazione viene denunciata e quindi i dati amministrativi non possono essere di particolare aiuto perché raccolgono solo la punta di un iceberg come nel caso della violenza contro le donne. Una misura della discriminazione proveniente solamente dagli archivi amministrativi porterebbe una misura distorta di discriminazione così come avviene per le misure sulla violenza contro le donne.
Ovviamente è molto difficile individuare una misura oggettiva di discriminazione, misurare la discriminazione attraverso la percezione soggettiva è molto pericoloso. I tentativi condotti di recente, come l’indagine europea Eurobarometro non hanno dato felici risultati. Non permettono di misurare la reale estensione del fenomeno. L’indagine Eurobarometro ha presentato dei limiti di fondo non solo perchè non è possibile capire chi ha subito discriminazioni di quale religione, razza o etnia, ecc, ma anche perché la metodologia non è adeguata, usando termini complessi, imprecisi, inadeguati, poco conosciuti dalla popolazione. Per cogliere realmente l’eventuale esistenza di discriminazione e di sovrapposizione tra le discriminazioni è necessario progettare con cura nuovi strumenti metodologici. Una vera e propria sfida per le statistiche ufficiali, una tematica di frontiera emergente di grande valore per la progettazione di politiche adeguate su cui è necessario cominciare a lavorare.
(...)
Altri interventi qui: http://www.istat.it/istat/eventi/2007/globalforum/interventi.html Rome, 10-12 December 2007