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L’ITALIA RISULTA  PER NUMERO DI ABITANTI, IL PAESE CON IL PIÙ ALTO TASSO DI OMOFOBIA SIA SOCIALE CHE POLITICA E ISTITUZIONALE.

Il 31 marzo 2009 uno studio reso noto dall’Agenzia per i diritti Fondamentali (FRA) dell’Unione Europea ha evidenziato che il problema dell’omofobia,  sta danneggiando la salute e la carriera di quasi 4 milioni di persone in tutta Europa.

L’Agenzia Ue per i Diritti Fondamentali ha detto che in molti paesi la polizia non riesce a gestire i crimini legati all’omofobia (abusi verbali ad attacchi mortali) e che molti governi e scuole non affrontano la questione con la dovuta serietà.

Il direttore dell’agenzia Morten Kjaerum ha sottolineato come in molti paesi Ue questi attacchi non vengono nemmeno denunciati e ha sollecitato un miglioramento del sistema di denunce.

Questo crea un circolo vizioso che spinge le vittime a rimanere “invisibili” invece di dichiarare apertamente il proprio orientamento sessuale o denunciare alle autorità gli abusi subiti.

Fin dalla più tenera età, le parole dispregiative usate per gay e lesbiche a scuola insegna a queste persone a rimanere nell’ombra”, spiega lo studio pubblicato oggi.

“Spesso sono vittime di discriminazioni e molestie sul posto di lavoro e in molti paesi non possono rendere legale la loro relazione di coppia”.

Il rapporto indica che gay, bisessuali e transgender nella vita di tutti i giorni sono oggetto di pregiudizio e di discriminazioni che colpiscono tutti gli ambiti sociali, dal posto di lavoro, alla scuola alla sanità.

Lo studio consiglia caldamente di denunciare in modo anonimo i crimini di omofobia per combattere il problema, evidenziando progetti pilota in Danimarca, Paesi Bassi e Slovenia.

Alcuni casi gravi di discriminazione hanno coinvolto le autorità d’asilo, con ufficiali che hanno negato rifugio a fuggitivi perché non credevano che fossero perseguitati per il loro orientamento sessuale.

In termini di sanità, la discriminazione può spingere le vittime ad evitare di chiedere aiuto e, in alcuni casi, queste persone sono state curate partendo dal presupposto che il loro orientamento sessuale fosse “un problema o una malattia”.

Lo studio, che ha messo insieme ricerche condotte in 27 paesi, riporta che oltre la metà dei cittadini dell’Unione Europea sostiene che la discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale sia molto diffusa nella propria nazione.

Bulgaria, Estonia, Lettonia, Polonia e Romania sono risultate le più ostili nei confronti delle manifestazioni “gay pride” e si sono verificati attacchi in contro-manifestazioni. In altri cinque paesi, Repubblica Ceca, Cipro, Ungheria, Italia e Malta ”appelli a migliorare i diritti di omosessuali e transegender sono stati accolti da risposte negative da alcuni politici e da rappresentanti di istituzioni o di gruppi religiosi”.

Soltanto tre stati dell’Ue, Belgio, Paesi Bassi e Spagna, danno pieni diritti ai matrimoni tra persone lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e transgender, mentre la maggior parte degli altri paesi non dà loro alcun diritto in questo senso.

Nei Paesi Bassi, l’82% degli intervistati si è dichiarato a favore dei matrimoni con partner dello stesso sesso, rispetto all’11% in Romania e al 12% in Lettonia.

Il livello di accettazione, continua lo studio, è piuttosto elevato anche in Francia, Austria, Svezia e Spagna, dove figure politiche e religiose hanno partecipato a dimostrazioni gay pride per dare visibilità alla questione.

Ma l’apertura mentale tende a diminuire quando si chiede un’opinione sull’eventualità che gli omosessuali adottino dei bambini.

Anche se la rappresentazione dell’omosessualità sui media è leggermente migliorata, continuano a prevalere gli stereotipi, conclude lo studio.

L’Italia risulta  per numero di abitanti, il paese con il più alto tasso di omofobia sia sociale che politica e istituzionale.

Il documento ricorda, inoltre, come in Italia la presenza vaticana costituisca un elemento decisivo di sostegno all’ideologia omofobica e discriminatoria.

Per quanto riguarda l’Italia però un terreno fondamentale per la lotta all’omofobia è rappresentato dai media perché, mentre l’atteggiamento della carta stampata è relativamente positivo (salvo la cronaca nera), permane una fortissima difficoltà nei mezzi radio-televisivi dove, quando si parla di omosessualità, prevale una presenza religiosa omofoba quasi sempre senza contradditorio. Inoltre, sempre più spesso, i media italiani danno ampio spazio a battaglie “contro l’omosessualità” ad opera di uomini di spettacolo, calciatori e cantanti, che in nome di una non meglio specificata “lobby gay”,   evidenziano che l’orientamento sessuale sia sempre più una scelta che fa moda, piuttosto che una naturale inclinazione dell’individuo quale essa in realtà è.

La rapida approvazione di una normativa anti-omofobia rappresenterebbe un segnale molto forte di controtendenza sia sul piano legislativo che su quello culturale e politico. I numerosi appelli affinchè il Parlamento italiano estenda le aggravanti della legge Mancino del 1993 anche ai reati d’odio contro gay e trans, sono rimasti finora inascoltati per l’opposizione delle gerarchie vaticane.

Fonte:

http://italianspot.wordpress.com/2009/04/01/omofobia-emergenza-unione-europea-rapporto-fra-agenzia-per-i-diritti-fondamentali-ue/

Per il Summary report (parte II) dell’Agenzia per i Diritti Fondamentali dell’Unione europea in lingua inglese: http://fra.europa.eu/fraWebsite/attachments/hdgso_part2_summary_en.pdf

(La parte I del report - quella legale - è in sezione Diritti delle donne).


Per il Summary report (parte II) dell’Agenzia per i Diritti Fondamentali dell’Unione europea in lingua francese: http://fra.europa.eu/fraWebsite/attachments/hdgso_part2_summary_fr.pdf

(La parte I del report - quella legale - è in sezione Diritti delle donne)


Per il capitolo del report relativo all’Italia:

The social situation concerning homophobia and discrimination on grounds

of sexual orientation in Italy”:
http://fra.europa.eu/fraWebsite/attachments/FRA-hdgso-part2-NR_IT.pdf

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Report omofobia Italia 2008 - 2009

16/05/2009 - Arcigay - Diritti Umani

Arcigay
REPORT
dei principali episodi di violenza omofoba e transofoba accaduti in Italia nel 2008 e 2009

Come noto, in Italia non esiste alcuna legge che riconosca un’aggravante specifica per i reati commessi in odio a persone omosessuali, bisessuali e transgender.

È di conseguenza impossibile avere una rilevazione statistica attendibile, o reperire informazioni ufficiali da parte delle Forze dell’ordine in merito a reati di carattere omofobico, semplicemente perché non esiste una specifica fattispecie di reato.

Di conseguenza è estremamente difficile che all’atto della denuncia la vittima di violenza dichiari la matrice omofobica del gesto patito, sia perché ciò non costituirebbe una aggravante, sia in virtù di una forte omofobia interiorizzata, largamente diffusa nel nostro paese, che porta ad una vera e propria autocensura.

La medesima autocensura fa sì che moltissimi casi di violenza omofobica rilevati dalle reti territoriali delle Associazioni di tutela rimangano, o per decisione delle vittime o per una giusta delicatezza nei confronti delle stesse, in un ambito di estrema riservatezza che non le rende pubbliche e rilevabili.

La mancanza di una reale percezione di tutela e l’omofobia interiorizzata determinano che la stragrande maggioranza dei casi di violenza omofobica non vengano nemmeno denunciati.

I dati contenuti nel report non hanno pertanto alcun reale valore statistico, sono solo una fotografia della realtà, rilevata esclusivamente dalle notizie apparse sui media.

Luca Trentini
Responsabile nazionale Arcigay Diritti Umani e Lotta alla violenza
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I testi sono tratti da articoli comparsi sulla stampa e sono aggiornati al 12.05.09
Arcigay non è responsabile dei contenuti

Riepilogo casi registrati nel report
gennaio 2008 - maggio 2009

Omicidi: 15
Violenze ed aggressioni: 71
Estorsioni: 12
Atti di bullismo: 7
Atti vandalici: 9

Anno 2008

Omicidi: 9
(4 in Lombardia, 2 nel Lazio, 2 in Campania e 1 in Sardegna)

Violenze ed aggressioni: 45
(13 in Lazio, 7 in Lombardia, 6 in Emilia-Romagna, 4 in Veneto, 3 in Campania, 3 in Liguria, 3 nelle Marche, 2 in Piemonte, 2 in Toscana, 1 in Sicilia, 1 in Calabria)

Estorsioni: 7
(2 in Liguria, 2 nelle Marche, 1 in Sardegna 1 in Toscana, 1 in Puglia)

Atti di Bullismo: 5
(2 in Lombardia, 1 in Piemonte, 1 in Toscana, 1 in Sicilia)

Atti vandalici: 9
(4 in Friuli Venezia Giulia, 2 in Lazio, 1 in Emilia-Romagna, 1 in Sardegna, 1 in Veneto)

Anno 2009 (primi 5 mesi)

Omicidi: 6
(1 in Campania, 1 in Lombardia, 1 in Veneto, 1 in Liguria, 1 in Sardegna, 1 in Puglia)

Violenze ed aggressioni:  26
(6 in Lazio, 3 in Lombardia, 3 in Sardegna, 2 in Friuli Venezia Giulia, 2 in Emilia Romagna, 2  in Campania, 2 in Toscana, 1 in Umbria, 1 in Puglia, 1 in Abruzzo, 1 in Piemonte, 1 in Veneto, 1 in Trentino)

Estorsioni: 5
(2 in Veneto, 1 in Emilia Romagna, 1 in Piemonte, 1 in Toscana)

Atti di Bullismo: 2
(1 in Veneto e 1 in Puglia)

 http://www.arcigay.it/files/arcigay/ReportArcigay_omofobia_2008_2009_17maggio.pdf

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Istat: sempre più "normale" la "medicalizzazione" della gravidanza

Le donne scelgono (?) sempre di più il taglio cesareo per partorire. Lo rivela l' indagine multiscopo Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari, a cura dell'Istat che registra un ricorso al parto cesareo pari al 35,2% nell'anno 2004-2005 rispetto ad una media nazionale che si attestava sul 29,9% nell'anno 1999-2000.
Sono soprattutto le donne del sud a scegliere questa strada: il 45,4% secondo i dati raccolti che evidenziano anche come le donne in gravidanza abbiano un buon livello di assistenza durante la gestazione.

Le informazioni raccolte sui temi della gravidanza, del parto e dell'allattamento al seno si riferiscono all'ultimo figlio che le donne hanno avuto nei cinque anni precedenti la rilevazione e riguardano 2 milioni e 736mila donne.Con il 35,2% di nascite con parto cesareo nel 2004-2005, l'Italia conferma dunque il titolo di primo paese europeo per ricorso a tale intervento: una scelta non sempre motivata dalle condizioni di salute di madre e feto, ma piuttosto indice di una eccessiva medicalizzazione dell'evento 'nascita'.

(...)Dall'indagine dell'Istituto nazionale di statistica arrivano anche altri indicatori, fortunatamente positivi: migliora l'assistenza alle gestanti, è forte la presenza dei padri in sala parto (pur con un notevole divario tra nord e sud del paese) e cresce la durata dell'allattamento al seno.

Un altro dato riguarda i troppi controlli, non sempre necessari, in gravidanza: mentre il protocollo nazionale raccomanda infatti al massimo 3 ecografie in caso di gravidanze fisiologiche, ben il 78,8% delle donne ha fatto oltre 3 ecografie (erano il 75,3% nel 1999-2000) ed aumenta anche la percentuale di gestanti che ha fatto oltre 7 ecografie (29% contro il 23,8%). Anche la percentuale di donne che ha effettuato 7 o più visite aumenta dal 52,7% (2000) al 56,5% (2005). Una eccessiva medicalizzazione si riscontra soprattutto tra le gestanti seguite da ginecologi privati (81,7%) e tra quelle del sud e isole (32,4% e 34,4%).

Dai dati Istat risulta che si mantiene stabile, rispetto al 2000, la quota di donne che ha allattato al seno il proprio bambino (81,1%), cresce la durata media del periodo di allattamento (da 6,2 a 7,3 mesi).

L'Italia insulare si distingue per la più bassa percentuale di donne che allatta (74,2%), mentre nel nord-est è la quota più elevata (86,1%). Allattano di più le donne con un titolo di studio più alto (86,4%) rispetto alle meno istruite (76,1%).

Le donne in Italia, inoltre, godono di un 'buon livello' di assistenza in gravidanza ed è costante, rispetto al 2000, la presenza dei papà in sala parto (66,1%), minore al sud (31,1%) per una minore disponibilità da parte delle strutture del territorio.

Ma i tanti, troppi, parti cesarei in Italia non hanno nulla a che vedere con le donne. Nè tanto meno con quell'evento particolare, ma naturale, che è la nascita di un figlio: ne sono convinte alcune organizzazioni femminili e familiari che commentando i dati dell'Istat sulla crescita del numero di cesarei imputano il record nazionale per lo più ad un malcostume sanitario.

"È una cosa mostruosa - afferma Pina Nuzzo, presidente dell'Udi (Unione donne in Italia) - forzare i tempi del corpo e del parto. È ormai noto che le donne vengono fatte partorire secondo le necessità dei medici e del sistema ospedaliero, senza invece tenere conto delle necessità fisiologiche della donna e del bambino. Basta guardare quanti parti ci sono nel fine settimana". È ovvio che "il parto va guidato ed assistito ma senza forzare i suoi tempi. Il parto è un evento naturale da rispettare nei tempi e nei modi. Il parto e la gravidanza sono così medicalizzate che è stata tolta loro anche la sacralità di fare figli". "Dubito che il cesareo sia una scelta della donna", sostiene Valeria Ajovalasit, presidente di Arcidonna, per la quale "spesso ci sono ginecologi che ricorrono al taglio cesareo perchè si sentono più sicuri, per evitare rischi e difficoltà".

Dello stesso avviso Maria Rita Munizzi, presidente del Moige (Movimento italiano genitori) che imputa l'alto numero di cesarei ad un '"eccesso di prudenza dei medici. Si fanno pochi bambini e i medici non vogliono rischiare in alcun modo. Si preferisce far nascere in modo assolutamente sicuro". Munizzi, anche lei medica (è geriatra), non esclude però che ci sia una "certa leggerezza nel valutare le indicazioni cliniche del cesareo", in particolare il ‘destino' delle donne nei parti successivi al primo quando si è fatto un cesareo. "Io stessa sono stata coinvolta personalmente, avendo avuto nella prima gravidanza due gemelli partoriti col cesareo e poi altri tre figli naturalmente. È considerata una follia ma non è cosi.

Oggi, è possibile valutare il rischio, ad esempio col controllo ecografico dell'utero durante il travaglio, senza dire a priori che si è condannati al cesareo perchè fatto in precedenza. Questo è un pregiudizio". Per la presidente del Moige, fra l'altro, "la donna subisce e si affida ai consigli che dà il medico. Noi siamo a favore del parto naturale intanto perchè lo dice il nome, è naturale, la donna si ristabilisce subito e poi perchè il cesareo è un vero e proprio intervento chirurgico". Per Telefono Rosa, il record dei parti ha la sua origine nel contrasto al dolore. "Non sono medico - dice Gabriella Carnieri Moscatelli, presidente di Telefono Rosa - ma non posso pensare che le nostre donne sono così diverse dalle donne di altri paesi.

Credo che il cesareo sia un'alternativa ai dolori del parto. Il ricorso all'epidurale, come ha fra l'altro proposto giustamente il ministro della salute, potrà modificare questo atteggiamento. In questo modo, sarà ridotta la sofferenza ed anche le spese a carico del sistema sanitario".

pubblicato il 06/06/2007 12:43

fonte: http://www.provincia.grosseto.it/pariopportunita/news.php?bookmark=68&id=259
(Delt@ Anno IV, n. 123 del 6 giugno 2006)
ISTAT, "Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari. Gravidanza, parto, allattamento al seno" - Periodo di riferimento: Anni 2004-2005
Diffuso il: 05 giugno 2006, http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20060605_00/testointegrale.pdf



EPIDURALE IN SALA PARTO SOLO NEL 16% DEGLI OSPEDALI ITALIANI

I risultati di una indagine nei reparti di ginecologia degli ospedali e delle cliniche italiane, pubblicati sull'ultimo numero della rivista 'Acta Anaesthesiologica Italica', confermano che l'analgesia epidurale in travaglio da parto e' offerta 24 ore su 24 a costo zero solo nel 16% delle strutture. Nel 27% degli ospedali le tecniche analgesiche sono applicate saltuariamente e con limiti organizzativi.
Per il resto nessun tipo di parto senza dolore viene garantito alle donne che accedono ai reparti di ostetricia. Inoltre e' emersa una certa differenza tra quanto avviene al Nord e il Centro-Sud, dove la percentuale dei punti nascita con servizio di analgesia epidurale 24 ore su 24 e' molto inferiore. Non c'e' da rallegrarsi se ci si confronta con gli standard europei. Le cause sono molteplici. Gli autori dello studio, la dottoressa Adriana Paolicchi e il dottor Alessandro Bardini dell'azienda ospedaliera Universitaria di Pisa, hanno individuato in base ai risultati del questionario inviato a tutti i punti nascita italiani, fattori socio-culturali e strutturali (limitate dimensioni delle unita' ostetriche). "Siamo ancora lontani da una vera umanizzazione del parto e dalla liberta' di scelta consapevole - fanno sapere Paolicchi e Bardini. - A fronte di questo vuoto nell'offerta del sistema sanitario nazionale, che ha ricevuto il colpo di grazia dalla cancellazione da parte del governo dei nuovi LEA (livelli essenziali dell'assistenza sanitaria) voluti dall'ex ministro Turco, si conferma per il nostro Paese il primato di parti chirurgici in Europa (nell'indagine si evidenzia che un quarto delle ostetricie italiane prese in esame effettua oltre il 40% di parti cesarei sul totale dei parti espletati)". La questione e' stata di recente sottoposta anche all'attenzione delle maggiori istituzioni e l'associazione 'Luca Coscioni' e i parlamentari radicali con la presentazione di un'interrogazione ai ministri competenti (a firma dei senatori Poretti e Perduca)continuano a sostenere "la necessita' di recuperare il senso di una politica che parta dalla realta', dai corpi, in questo caso delle donne, alle quali va garantita la possibilita' di scegliere come vivere il proprio parto". Agi/Federfarma.
http://www.junior.cybermed.it/index.php?option=com_content&task=view&id=906&Itemid=51

Con epidurale solo 16% dei parti

09/09/2008 11:54

Il parto senza dolore resta ancora un miraggio in Italia. A sottolineare la scarsa diffusione dell'uso dell'epidurale è la senatrice dei Radicali nel Pd, Donatella Poretti, che rilancia una indagine nelle ostetricie del Belpaese, pubblicati sull'ultimo numero della rivista Acta Anaesthesiologica Italica.

"L'analgesia epidurale in travaglio di parto - sottolinea la parlamentare in una nota - è offerta 24 ore su 24 e senza costi per le donne solo nel 16% dei punti nascita. Nel 27% degli ospedali invece - incalza - le tecniche analgesiche sono applicate saltuariamente e con limiti organizzativi. Per il resto nessun tipo di parto senza dolore viene garantito alle donne che accedono ai reparti di ostetricia". Poretti ricorda come, dall'indagine, sia emersa anche "una certa differenza tra quanto avviene al Nord e il Centro-Sud, dove la percentuale dei punti nascita con servizio di analgesia epidurale H24 è molto inferiore.

Non c'è da rallegrarsi se ci si confronta con gli standard europei", commenta. All'origine di questa anomalia tutta italiana, gli autori dello studio, Adriana Paolicchi e Alessandro Bardini dell'azienda ospedaliera universitaria di Pisa, hanno individuato "fattori socio-culturali e strutturali (limitate dimensioni delle unità ostetriche). Siamo ancora lontani - continua la parlamentare - da una vera umanizzazione del parto e dalla libertà di scelta consapevole. A fronte di questo vuoto nell'offerta del sistema sanitario nazionale, che ha ricevuto il colpo di grazia dalla cancellazione da parte del Governo dei nuovi Lea voluti dall'ex ministro Livia Turco - prosegue Poretti - si conferma per il nostro Paese il primato di parti chirurgici in Europa (nell'indagine si evidenzia che un quarto delle ostetricie italiane prese in esame effettua oltre il 40% di parti cesarei sul totale dei parti espletati)".

A fronte di questi dati l'associazione Luca Coscioni e i parlamentari radicali hanno tentato di sensibilizzare le istituzioni, anche presentando interrogazioni al Parlamento. "E' necessario e urgente - conclude Poretti - che maggioranza e opposizione recuperino il senso di una politica che parta dalla realtà, dai corpi, in questo caso delle donne, alle quali va garantita la possibilità di scegliere come vivere il proprio parto".

http://www.provincia.grosseto.it/pariopportunita/news.php?id=2954
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(20 novembre 2007)
Dal 1990 ad oggi le persone transessuali e transgender nel mondo assassinate per odio o pregiudizio transfobico hanno costantemente superato la media di una al mese.
Solo negli ultimi due anni le vittime sono in diminuzione in tutto il mondo con l’eccezione dell’Italia .
Tra i dati censiti l’Italia nell’ultimo quadriennio resiste al secondo posto per numero di vittime assoluto dopo gli Stati Uniti.
Al primo posto se si considera il rapporto omicidi/popolazione in questo ultimo biennio.
I dati raccolti dalle associazioni transgender, transessuali, gay e lesbiche internazionali non sono che la punta di un iceberg. Essi infatti si basano solo sulle denunce fatte, sulle rassegne stampa internazionali e su quanto le singole associazioni riescono a raccogliere direttamente.
In molti paesi l’uccisione di persone transgender passa sotto assoluto silenzio (i.e. nelle tante nazioni in cui la transessualità è un reato), in altri la costruzione di una rete informativa trans/LGBTQ è resa impossibile dalle condizioni poltico/sociali locali. Infine, molto spesso, i familiari cercano di omettere la condizione transgender delle vittime per vergogna e paura del giudizio sociale.
Non è ardito quindi immaginare che i dati raccolti sugli omicidi di persone transgender potrebbero essere nella realtà almeno raddoppiati.
La statistica non contempla i suicidi: la popolazione transessuale è considerata in tutto il mondo una tra le più esposte al suicidio causato da emarginazione sociale e discriminazione, che si esprime in modo variamente profondo nelle diverse culture e società..
Suicidi stimolati da pressioni psicologiche esterne talvolta troppo forti da essere sopportate.
In molti di questi casi il suicidio altro non è che un omicidio realizzato da un intera società, da un regime culturale transfobico.
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Da Global Forum on gender statistics Conferenza (Roma, 10 - 12 dicembre 2007) :

Estratto dell'intervento:

"Violenza di genere, discriminazione, statistiche economiche: nuove sfide nella misurazione in un’ottica di genere"

di Linda Laura Sabbadini, Istat- Direzione Centrale per le indagini su condizioni e qualità della vita consultabile integralmente all'URL http://www.istat.it/english/lunedipomeriggio/Sabbadini%20italiano.pdf

(...)

3-NUOVE SFIDE PER LA MISURAZIONE: LA DISCRIMINAZIONE

Il genere influisce anche sulle diversità e vulnerabilità legate ad altre differenze quali razza/appartenenza etnica, classe sociale, età, disabilità, orientamento sessuale, ecc.., spesso rafforzandole. Molte ricerche hanno messo in luce questo aspetto ma a livello di statistiche ufficiali siamo ancora molto indietro nella concettualizzazione e operazionalizzazione dei concetti.Su come definire e misurare la discriminazione sono stati sviluppati studi dagli anni ’70 negli Stati Uniti, a partire dalla disuguale partecipazione al lavoro delle donne, dei migranti e degli afroamericani. Col passare degli anni altri tipi di discriminazioni hanno ricevuto crescente interesse, in particolare in relazione ai disabili, alle persone di diverso orientamento sessuale, agli anziani. Misurare la sistematica posizione svantaggiata nella società dovuta a caratteristiche personali considerate differenti dalla norma è fondamentale.

Le analisi condotte mettono in luce in alcuni casi come non solo si esprima una discriminazione per etnia, o per generazione, ma che questa è accompagnata da una discriminazione di genere, che si configura come una ‘discriminazione nella discriminazione’.

Per esempio in Italia, la situazione degli immigrati nel mercato del lavoro non è particolarmente positiva: pur presentando più alti tassi di occupazione degli italiani (67,3% contro 57,9% nella media del 2006) ciò avviene al prezzo dell’inserimento nei lavori di più bassa specializzazione, minor reddito, in aziende più piccole e maggiormente vulnerabili. Tra l’altro gli immigrati con quel lavoro, di reddito più basso devono mantenere in proporzione famiglie con un numero di componenti più alto (il 46,8% delle famiglie immigrate con 4 o più componenti sono monoreddito rispetto al 36,0% delle italiane). Sembrerebbe esistere soltanto un problema di differenza tra immigrati e italiani, in realtà non è così perchè la condizione delle donne immigrate è comunque peggiore (tassi di occupazione dell’84,2% per gli uomini e del 50,7% per le donne). Le donne migranti presentano tassi di occupazione più bassi degli uomini e più alti delle donne italiane. Ma se si analizzano i tassi di occupazione per ruolo in famiglia emerge che le donne migranti in coppia con figli hanno un tasso di occupazione più basso anche delle italiane (41,5% contro 48,3%). I problemi di conciliazione lavoro e famiglia sono per le migranti molto più gravi in un Paese come l’Italia dove la rete di servizi sociali per l’infanzia è scarsa, i servizi privati alle famiglie sono molto costosi e le migranti non possono avvalersi delle reti di aiuto informale, fondamentale supporto per le donne italiane. Le immigrate dunque, in Italia soffrono un doppio problema e spesso una doppia discriminazione sia essa diretta o indiretta rispetto al lavoro. Ma che succede rispetto agli altri aspetti della vita sociale ed economica? Quanto e come si esprime la discriminazione nella discriminazione? Esistono scarsissime fonti per rispondere a questa domanda, dovremmo cominciare a lavorare di più su questi aspetti.

Sull’orientamento sessuale della opolazione la situazione è ancora più critica perché non esistono studi ancora sufficienti. Si parla di discriminazione basata sull’orientamento sessuale in riferimento a qualsiasi svantaggio subito da una persona in virtù della sua non eterosessualità, anche nel caso di un silenzio autoimposto (Bonini Baraldi 2004). Sarebbe fondamentale ricostruire i possibili legami con episodi discriminatori nell’esperienza lavorativa sia che essi vengano riconosciuti come tali dagli intervistati sia che non lo siano, o nell’accesso all’abitazione o più in generale nella vita sociale. Sarebbe fondamentale comprendere quando e per quali fasce della popolazione le esperienze punitive siano vissute come atti discriminatori in ragione del loro orientamento non eterosessuale oppure come semplici risultati di cattive performance lavorative. Sarebbe fondamentale capire se esiste oppure no una differenza di genere. La statistica ufficiale è molto indietro nella stessa misurazione della consistenza delle famiglie con partner dello stesso sesso e dovrebbe cominciare a darsi una strategia su questo terreno. Il fatto che da studi internazionali non condotti a livello di statistiche ufficiali il numero di lesbiche è più basso del numero di gay e che in alcuni Paesi la differenza tende a diminuire cela forse un clima di condanna sociale più pesante nei confronti delle donne? I dati quasi inesistenti non permettono di dare una risposta adeguata al problema, né di capire se esistono differenze nell’esposizione al rischio di discriminazione, ma esiste ormai una domanda crescente della società civile e dei policy makers su questo terreno e dovremo prima o poi riuscire a dare una risposta.

È ancora poco studiata la discriminazione dovuta alla condizione di disabilità anche nel mondo del lavoro rispetto ad altre cause di discriminazione quali sesso, razza e origine etnica, e età. La gran parte degli studi si è concentrata sulla discriminazione nella fase di accesso al lavoro, la segregazione occupazionale, e la bassa qualifica attribuita (da cui deriverebbe anche una discriminazione salariale affatto trascurabile). Dai dati dell’Istat in Italia emerge che la disabilità è un fattore che fa incrementare l’esposizione al rischio di povertà. Complessivamente tra le persone con disabilità ben il 47% riferisce risorse scarse o insufficienti contro il 31% della popolazione non disabile e tale differenza si mantiene stabile nelle diverse classi di età. Sono peraltro i segmenti meno istruiti della popolazione ad essere maggiormente disabili, in particolare tra gli ultrasessantacinquenni è disabile il 21,2% delle persone con basso titolo di studio contro il 10,1% delle persone con titolo di studio medio alto (tra le donne anziane meno istruite la quota aumenta al 25% contro il 15% degli uomini). Le persone con disabilità, inoltre, subiscono una discriminazione anche in termini di segregazione occupazionale, perché spesso svolgono lavori con scarse barriere di entrata, o che prevedono delle quote dedicate alle c.d. “categorie protette”, in occupazioni specifiche, o svolgono le mansioni meno qualificanti all’interno delle stesse occupazioni. Restano in ogni caso tra i più vulnerabili, “gli ultimi ad essere assunti, i primi a doversene andare” come detto dall’ Ilo (2003). La quota di persone disabili tra le donne è circa il doppio rispetto a quella degli uomini (6,1% vs 3,3%) ma la differenza è imputabile soprattutto alle differenze di genere che si registrano dopo i 65 anni (22.5% contro 13.3%).

Le donne anziane peraltro cumulano più facilmente degli uomini le diverse tipologie di disabilità: quella motoria fino al confinamento, della comunicazione, delle funzioni dell’attività quotidiana: il 13,2% ne ha almeno due, mentre per gli uomini la quota scende al 7,2%. Sarebbe fondamentale capire quanto anche in questo caso lo svantaggio femminile si esprime anche nell’emergere di una diversa esposizione al rischio di discriminazione.

Un piano di rilancio delle statistiche di genere non può non prevedere un punto sulla sovrapposizione di discriminazione di genere con altri tipi di discriminazione

E’ fondamentale che in un piano di rilancio delle statistiche di genere si ponga al centro anche la misurazione delle discriminazioni e ciò venga fatto con un approccio di genere, perché la discriminazione di genere potrebbe essere trasversale a tutte le discriminazioni. Numerose sfide abbiamo di fronte. La discriminazione può avvenire in luoghi diversi, a scuola, al lavoro, in altri ambienti sociali. I meccanismi possono cambiare, possono essere espliciti e diretti, o possono essere indiretti e quindi più difficili da misurare. Inoltre, solo una piccola parte dei casi di discriminazione viene denunciata e quindi i dati amministrativi non possono essere di particolare aiuto perché raccolgono solo la punta di un iceberg come nel caso della violenza contro le donne. Una misura della discriminazione proveniente solamente dagli archivi amministrativi porterebbe una misura distorta di discriminazione così come avviene per le misure sulla violenza contro le donne.

Ovviamente è molto difficile individuare una misura oggettiva di discriminazione, misurare la discriminazione attraverso la percezione soggettiva è molto pericoloso. I tentativi condotti di recente, come l’indagine europea Eurobarometro non hanno dato felici risultati. Non permettono di misurare la reale estensione del fenomeno. L’indagine Eurobarometro ha presentato dei limiti di fondo non solo perchè non è possibile capire chi ha subito discriminazioni di quale religione, razza o etnia, ecc, ma anche perché la metodologia non è adeguata, usando termini complessi, imprecisi, inadeguati, poco conosciuti dalla popolazione. Per cogliere realmente l’eventuale esistenza di discriminazione e di sovrapposizione tra le discriminazioni è necessario progettare con cura nuovi strumenti metodologici. Una vera e propria sfida per le statistiche ufficiali, una tematica di frontiera emergente di grande valore per la progettazione di politiche adeguate su cui è necessario cominciare a lavorare.

(...)

Altri interventi qui: http://www.istat.it/istat/eventi/2007/globalforum/interventi.html Rome, 10-12 December 2007

Etichettato sotto
(Parte prima). Quaderni di sanità pubblica.
http://whqlibdoc.who.int/publications/2002/9241545615_ita.pdf

Forme “consuetudinarie” di violenza sessuale (pg 236-8:)

Matrimonio dei bambini

Il matrimonio è spesso utilizzato per legittimare diverse forme di violenza sessuale nei confronti delle donne. L’usanza di far sposare bambini piccoli, soprattutto femmine, si ritrova in diverse parti del mondo. Questa pratica – legale in molti paesi – costituisce una forma di violenza sessuale, poiché i bambini coinvolti non sono in grado di dare o ritirare il proprio consenso. La maggioranza di essi sa poco o niente del sesso quando si sposa. Frequentemente quindi ne hanno paura  e i primi rapporti sessuali sono spesso imposti. I matrimoni precoci sono estremamente diffusi in Africa e nell’Asia meridionale, ma sono presenti anche in Medio Oriente e in zone dell’America latina e dell’Europa orientale. In Etiopia e in aree dell’Africa occidentale, ad esempio, il matrimonio all’età di 7 o 8 anni non è raro. In Nigeria, l’età media per il primo matrimonio è di 17 anni, ma nello stato di Kebbi nel nord del paese l’età media del primo matrimonio è poco superiore a 11 anni. Elevate percentuali di matrimonio infantile sono segnalate anche nella Repubblica Democratica del Congo, in Mali, Nigeria e Uganda. Nell’Asia meridionale il matrimonio dei bambini è molto comune soprattutto nelle aree rurali, ma è presente anche nelle zone urbane. In Nepal l’età media per il primo matrimonio è di 19 anni. Il 7% delle ragazze, tuttavia, si sposa prima di raggiungere i 10 anni e il 40% entro i 15 anni di età. In India, l’età media del primo matrimonio per le donne è di 16,4 anni. Un’indagine condotta su 5000 donne nello stato del Rajasthan ha evidenziato come il 56% delle donne si fosse sposato prima di raggiungere i 15 anni: di queste, il 17% si era sposato prima dei 10 anni. Un’altra indagine, condotta nello stato di Madhya Pradesh, ha osservato che il 14% delle ragazze si era sposato tra i 10 e i 14 anni. In altre zone, ad esempio in America latina, sono stati segnalati matrimoni in giovanissima età a Cuba, in Guatemala, Honduras, Messico e Paraguay. In America settentrionale e in Europa occidentale una percentuale inferiore al 5% dei matrimoni riguarda ragazze di età inferiore a 19 anni (ad esempio, 1% in Canada, Svizzera e nel Regno Unito, 2% in Belgio e Germania, 3% in Spagna e 4% negli Stati Uniti).

Altre usanze che conducono alla violenza

In molti paesi vi sono usanze, oltre al matrimonio dei bambini, che generano violenza sessuale nei confronti delle donne. Nello Zimbabwe, ad esempio, esiste la pratica del ngozi, in cui una ragazza può essere ceduta a una famiglia come risarcimento per l’uccisione di un uomo da parte di un membro della famiglia della ragazza. Con il sopraggiungere della pubertà la ragazza è obbligata ad avere rapporti sessuali con il fratello o il padre della persona uccisa, per procreare un figlio che sostituisca l’individuo morto. Un’altra usanza è la chimutsa mapfiwa – moglie come eredità – secondo la quale alla morte di una donna sposata la sorella è obbligata a sostituirla.
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