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Il grado di conoscenza della scarsa presenza di donne in Parlamento è assai basso tra la popolazione. Anche se si considera come corretta la risposta nel range tra 8% e 12% è solo il 26,7% della popolazione a rispondere correttamente, se poi ci si concentra sul valore vero la percentuale si abbassa al 23,3% osservato in corrispondenza di chi ritiene che la percentuale sia pari al 10%. Non emergono particolari differenze per zona, né per
sesso o per altre caratteristiche socio demografiche.
I valori più alti di conoscenza sono raggiunti dalla popolazione anziana (60-64 anni 29,7% e 65-74 29,2%), dal Nord Est e dalle Isole (28,9% e 28,8%). Nel Centro Nord le donne più degli uomini sembrano conoscere la dimensione reale del problema. Il contrario accadeper le altre due ripartizioni. Non emergono differenze per titolo di studio neanche considerando separatamente uomini e donne. Emerge uno scarso effetto della condizione professionale, sebbene ancora una volta la condizione professionale medio-alta, proxy di un livello di istruzione elevato non appare associata ad un migliore livello di conoscenza del fenomeno. Spiccano i ritirati dal lavoro come coloro che dimostrano più degli altri di conoscere correttamente la reale dimensione delle quote femminili, a conferma del dato che emergeva in relazione all’età. Le differenze di genere sono più intense soprattutto tra gli operai e gli apprendisti.
E’ interessante sottolineare che è maggiore la percentuale di persone che sovrastima la presenza di donne in Parlamento rispetto a quella che la sottostima (46,6% contro 15,5%). Infatti il 27,6% pensa che la presenza femminile si collochi tra il 13% e il 20%, il 13,4% tra il 21 e il 30% e infine il 4,8% segnala più del 30%. Il non so raggiunge il 12% del totale. Va detto che non emergono differenze nel grado di conoscenza neanche se si considerano coloro che si informano più spesso di politica (almeno una volta a settimana 27,9%) o che parlano di politica almeno una volta a settimana (27,4%).
Non si può dunque che concludere che la popolazione non è al corrente e non è cosciente del problema della scarsa presenza femminile in Parlamento. Considerando la trasversalità della non conoscenza e il fatto che chi si informa di politica lo fa principalmente attraverso la TV (93,7%) e i media, ciò significa che la TV e più in generale i media non hanno dato un adeguato spazio al problema in modo da raggiungere la maggioranza della popolazione in modo efficace.
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da http://www.porticodonne.it/Portico/Content/magazine/lavoro/1074015910480/index_html

I dati della prima indagine Istat tracciano un identikit della madre lavoratrice condotta su un campione 50.000 neo-madri: un percorso ancora tutto in salita.

La conciliazione tra maternità e lavoro è un problema irrisolto: le donne devono ancora scegliere tra un figlio e la carriera, nel migliore dei casi, e tra un figlio ed il lavoro tout court nel peggiore. E’ quanto rivelava l’indagine statistica dell’Istat dal titolo “Maternità e partecipazione delle donne al mercato del lavoro: tra vincoli e strategie di conciliazione” (CNEL 2003).

“Nonostante il massiccio ingresso delle donne al suo interno - precisava Silvia Costa - il mercato del lavoro è rimasto sostanzialmente impermeabile rispetto al valore sociale della maternità come tema intorno al quale costruire le politiche”. Un peso, dunque, per la collettività e non, come dovrebbe essere, un “tema di produzione umana, sociale ed economica cui collegare l’inserimento sociale e lavorativo delle donne (…) un’esigenza di ristabilire delle modalità diverse di concepire la cultura del lavoro, il valore sociale della maternità e della paternità e la condivisione fra uomini e donne di una preoccupazione che non è solo di una parte del cielo”.

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di Valeria Costantini e Salvatore Monni

1) Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

 

2) È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Articolo 3, Costituzione italiana

 Il 2 giugno scorso sono trascorsi sessant’anni dalle prime elezioni politiche nelle quali le donne esercitarono il diritto di voto,1 e tra due anni saranno sessanta anche gli anni della nostra Costituzione. Quella stessa Costituzione che all’articolo 3 ci ricorda il ruolo della Repubblica nel promuovere sia l’uguaglianza formale (comma 1) che quella sostanziale (comma 2) di tutti i cittadini italiani. Ad oggi, purtroppo, le differenze tra gli individui (cittadini e non) nel nostro paese permangono forti. In particolare, le differenze di genere rimangono marcate e presentano per certi versi una dinamica ancora più preoccupante. Nel corso di questa nota si cercherà di leggere le disparità di genere attraverso il nuovo e relativamente recente approccio delle «capacitazioni» o capabilities.2 Questo approccio, introdotto da alcuni scritti di Amartya Sen alla fine degli anni Settanta e ripreso tra gli altri dalla filosofa statunitense Martha Nussbaum in una chiave più specificamente di genere,3 cerca di superare un ostacolo teorico che caratterizza le più diffuse teorie degli assetti sociali, quali l’utilitarismo e il liberalismo, ovvero la definizione del problema dell’eguaglianza basata sulla sola misura dell’uguaglianza di reddito o di utilità.4

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PARLAMENTO EUROPEO -  16 luglio 2001

 

(...) Secondo un’inchiesta realizzata dalla Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro nel 1996 , 12 milioni di lavoratori in Europa si considerano vittime di mobbing. Inoltre, i risultati di varie inchieste dimostrano che le donne ne sono le principali vittime. Il parere del Comitato economico e sociale francese (CES) adottato il 21 aprile 2001 ritiene che, secondo le indagini nazionali e internazionali, è possibile stabilire un profilo tipo della vittima. Questa è il più delle volte di sesso femminile e di età superiore ai 40 anni, cosa che solleva il problema dell’ultima fase della carriera; il parere richiama altresì l’attenzione sul destino dei giovani lavoratori. Secondo uno studio realizzato in Francia dalla dr. Hirigoyen, è interessato il 70% delle donne rispetto al 30% degli uomini. Le donne più colpite sono quelle appartenenti a minoranze razziali, le donne portatrici di handicap o aventi un diverso orientamento sessuale, nonché le donne incinte. La dr. Hirigoyen considera che non solo le donne costituiscono la maggioranza delle vittime, ma che esse sono molestate in modo diverso dagli uomini, intervenendo spesso connotazioni maschiliste o sessiste. L’autrice opera una distinzione teorica tra mobbing e molestie sessuali, anche se dimostra che i passaggi dall’uno alle altre sono frequenti. Le molestie sessuali non sono che il passo successivo del mobbing. Nei due casi si tratta di umiliare l’altro e di considerarlo alla stregua di un oggetto a propria disposizione. Per quanto riguarda la specificità del mobbing nei confronti delle donne, la dr. Hirigoyen descrive diversi casi di specie: in primo luogo, le donne che rifiutano le profferte di un superiore o di un collega e che si fanno pertanto emarginare, umiliare o strapazzare; in secondo luogo, la discriminazione verso le donne. Le donne sono semplicemente messe da parte oppure molestate o viene loro impedito di lavorare per il solo fatto di essere donne. Secondo il CES, le situazioni di molestie sessuali presentano notevoli somiglianze con quelle del mobbing come, ad esempio, la difficoltà, per la vittima, di esprimersi, difendersi e presentare querela o quella di fornire le prove e di trovare testimoni. (...)
Estratto da "PARERE DELLA COMMISSIONE PER I DIRITTI DELLA DONNA E LE PARI OPPORTUNITÀ"
destinato alla commissione per l'occupazione e gli affari sociali sul mobbing sul posto di lavoro.
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SALARI BLOCCATI NEI SETTORI DOVE LAVORANO PIÙ DONNE


Da un’anticipazione di un’indagine Isfol (Istituto per lo Sviluppo della Formazione Professionale dei Lavoratori) pubblicata dal Sole 24 Ore, emerge una “mappatura dell'occupazione femminile” che evidenzia la differenza di salario tra uomini e donne nelle varie categorie professionali. Le donne vengono retribuite meno degli uomini da un minimo del 5,5%  nel settore delle costruzioni (dove l'occupazione delle donne si ferma al 7,6%), ad un massimo del 25,9% nel settore definito “immobili, informatica, ricerca” (occupazione femminile: 42,1%). L'occupazione femminile risulta maggiore (70% di lavoratrici nella categoria definita “istruzione, sanità, assistenza sociale”) dove il differenziale di retribuzione  in favore degli uomini è stimato al 20,7% . Unica eccezione il settore dell'energia (le donne +5,8% in “busta-paga”) nel quale si descrive la minor presenza femminile (6,1%) ma con qualifiche medio-alte.

Da Il “Sole 24 ore”, 4 febbraio 2009 (di Carmine Fotina e Serena Uccello)

Tra il settore economico più egualitario e quello con la più netta disparità salariale corrono la bellezza di 20 punti percentuali.
La mappa delle differenze di retribuzione tra uomini e donne somiglia a un puzzle con pezzi di ogni dimensione: più piccoli quelli in cui la percentuale di donne occupate è estremamente bassa; molto più grandi quelli in cui la presenza femminile è ampia e inizia anche a distribuirsi lungo la scala delle qualifiche professionali.

Emblematico il caso delle costruzioni dove - secondo un'indagine dell'Isfol in corso di pubblicazione - le donne rappresentano solo il 7,6% degli occupati e il differenziale si ferma al 5,5%: salario orario medio di 7,3 euro per gli uomini e di 6,9 euro per le donne.
All'estremo opposto della graduatoria, con una differenza del 25,9%, si piazza un comparto eterogeneo nel quale l'Isfol riunisce attività immobiliare, noleggio, informatica, ricerca. Divari molti ampi sono visibili anche in un altro settore a forte presenza femminile ( 70%) quale l'Istruzione-sanità e assistenza sociale (20,7%, con salari che vanno da 12,4 a 9,8 euro).

Discorso simile si può fare per le attività finanziarie (20,5%, retribuzioni orarie da 10,9 a 8,7 euro) e le industrie della trasformazione (18,3%, da 7,8 a 6,4 euro). A metà del guado ci sono il commercio (percentuale femminile di occupati al 43% e differenziale salariale al 10,5%, da 7,2 a 6,4 euro) e i trasporti e comunicazioni (le donne sono il 17,5% degli occupati e il divario si ferma all'8,9% con una forbice compresa tra 8,7 e 8 euro).

In questa mappa variegata spicca però un solo segno meno: nell'industria dell'energia il salario medio orario delle donne è pari a 9,5 euro, il 5,8% in più rispetto alla retribuzione degli uomini.
«Non bisogna lasciarsi ingannare - commenta Emiliano Rustichelli, ricercatore dell'Isfol - perché la percentuale di donne occupate è particolarmente bassa, ma concentrata nelle qualifiche medio alte. Questo porta a un ribaltamento che non si verifica in nessun altro settore».

«Dall'analisi del salario medio per tipo di professione, invece, emerge un altro dato interessante - aggiunge Rustichelli -: il differenziale balza nel caso di professioni non qualificate (17,3%, da 6,7 a 5,6 euro), a dimostrazione che nella parte bassa della distribuzione dei reddito da lavoro le barriere alle donne sono particolarmente alte e chi entra con bassa remunerazione difficilmente risale posizioni. Questo produce un effetto di scoraggiamento rispetto a chi è chiamata scegliere tra restare a casae affacciarsi al lavoro con un salario molto basso ».

Esattamente come accade per i settori, la forbice salariale tra uomini e donne attraversa i profili professionali riservando, soprattutto per quelli più alti, qualche novità. Secondo infatti Unioncamere, che ha messo a confronto 1.134 profili professionali, se, nel 2007, le retribuzioni medie per gli uomini sono state pari a oltre 28mila euro quelle delle donne si sono attestate sui 24.100 euro, con uno scarto a favore degli uomini del 16% (era 16,5% nel 2003). A determinare queste differenze, secondo gli analisti di Unioncamere, nessuna discriminazione di genere. «Indagando la struttura dell'occupazione emerge come i differenziali " di genere" dipendono prevalentemente dalla diversa distribuzione strutturale di uomini e donne per professione svolta, settore di lavoro, dimensione delle imprese, età, titolo di studio. Se l'occupazione femminile si distribuisse allo stesso identico modo di quella maschile il differenziale retributivo si ridurrebbe, infatti, dal 16 a 3,5 per cento. In altri termini, le differenze tra i generi sono in larga parte dovute al fatto che le donne svolgono ancora prevalentemente professioni in assoluto mediamente meno retribuite. Segno che per loro è ancora difficile accedere a professioni per cui la retribuzione è più elevata (e dove la concentrazione di dipendenti uomini è preponderante)». La conferma è data dal fatto che proprio per le figure dirigenziali, quando cioè riescono a raggiungere posizioni di prestigio, le donne restano dietro agli uomini per 3,3 punti percentuali. La vera sorpresa però arriva da un altro dato: sul totale di questi profili nel 36% dei casi le buste paghe al femminile superano quelle degli uomini. Accade ad esempio "ai responsabili" o piuttosto "alle responsabili" di piccole aziende che guadagnano una media di 91.600 euro annui, il 7,8 per cento in più degli uomini.
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