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L'ESPRESSO

l'Espresso
13 02 2015

Se arrivi a occupare una casa, poi la parola chiave è una sola: autorganizzazione. Per le pulizie, la manutenzione, la sorveglianza anti-sgombero. E da qualche mese sono sorti nuovi problemi: ad esempio gli allacci di luce e acqua. Grazie all’articolo 5 del decreto Lupi, è infatti possibile sospendere l’erogazione delle utenze a chi abita abusivamente un alloggio. E così a Roma sono nati i Gruppi di Allaccio Popolare, con tanto di cellulare diffuso sui social. Basta chiamarli e vengono a riattaccarti tutto.

Di necessità virtù. C’è chi nell’edificio occupato mette su un piccolo orto. Chi adibisce una sala a centro congressi. Chi crea un ristorante etnico. O addirittura un museo, attirando turisti ed esperti, che amano farsi fotografare tra un quadro e una scultura, magari accanto ai ragazzini che giocano a pallone. A Roma ad esempio c’è il Maam, Museo dell’Altro e dell’Altrove: è nato dentro un ex salumificio Fiorucci alle spalle di Tor Sapienza.

Il popolo delle case occupate
Chiunque sia curioso di conoscere come si organizza un’occupazione, dovrebbe visitare l’Hotel 4 Stelle nella zona della Collatina. Un grosso albergo di una catena internazionale, la Eurostars Nh, caduto in disgrazia qualche anno fa - con tanto di mobilità per tutti i dipendenti - è oggi un enorme complesso abitativo, con ben 260 famiglie: più di 600 persone, molti anziani e bambini. La gran parte sono migranti africani e sudamericani, ma c’è anche una rappresentanza del nostro Paese. Sulla strada hanno costruito una sorta di barricata, con dei muretti in cemento, in modo da restringere il passaggio: è una delle tante precauzioni anti-sgombero.

All’ingresso, passato il cortile dove giocano i ragazzini, si entra nella hall: dove prima c’era la reception, oggi c’è il cosiddetto “picchetto”. Cioè due o tre persone che a turno - giorno e notte - vigilano per la sicurezza di tutti, nell’illegalità.«La paura di venire cacciati è costante», ci dice Aida, 18 anni. Insieme a sua madre Zena, alla nonna, ai tre fratelli e al papà vivono in una delle suite del 4 Stelle: due stanze e un bagno, non saranno neanche 30 metri quadrati. Sono senegalesi. «I tecnici Acea ci hanno staccato l’acqua già due volte, ma noi l’abbiamo riallacciata». Per questo tipo di lavori c’è una squadra interna: chi nella vita fa il muratore o l’operaio presta la propria competenza in cambio di altri favori o a fronte di piccole somme, raccolte dall’assemblea degli occupanti. Lo stesso avviene per le pulizie: «Paghiamo cinque euro al mese e le facciamo a rotazione», spiega Zena. «È l’unico contributo economico che ci viene richiesto per abitare qui».

A Roma, secondo i dati dell’Unione inquilini, ci sono circa 100 occupazioni collettive, dove vivono 4.500 famiglie. Si vanno a prendere edifici, soprattutto pubblici, ormai abbandonati, ex scuole o uffici: si dividono in piccole unità e si affidano a chi è iscritto agli sportelli delle associazioni e dei movimenti. Chi occupa spesso riqualifica: per questo il sindacato inquilini chiede che sia monitorato tutto il patrimonio pubblico delle città italiane, in modo da assegnarlo regolarmente al riuso.

Diverso è il caso di alloggi popolari occupati, e sottratti così a chi ne avrebbe diritto, come è avvenuto di recente con le case dell’Aler di Milano: nel capoluogo lombardo gli abusivi sono 4 mila, a Roma oltre 7 mila. A fronte di un bisogno abitativo altissimo: a Milano sono 23 mila le famiglie che attendono un alloggio popolare; a Roma, dove una graduatoria aggiornata non è stata ancora pubblicata, si stima siano circa 30 mila. Ben 700 mila sono gli iscritti in graduatoria in tutta Italia. Il paradosso è che 40 mila case popolari sono chiuse perché inutilizzabili in tutto il Paese, 9.700 nella sola Milano. Il decreto Lupi dispone che siano messe all’asta: le associazioni, al contrario, vogliono recuperare ciò che è abbandonato, assegnandolo poi a chi ne ha bisogno.

Una volta che sei iscritto allo sportello dei movimenti, devi attendere che ti chiamino per prendere possesso di uno stabile: un sms dirà data e luogo dell’appuntamento, che non sarà mai davanti all’edificio stesso, per evitare possibili “soffiate”. Il corteo degli occupandi si muove tutto insieme, e arrivato sul posto si sfondano cancelli e porte. Inizialmente si dorme tutti assieme nei locali comuni, poi l’assemblea distribuisce i singoli spazi, e ciascuna famiglia si costruirà la sua piccola casa. Pareti in cartongesso, pittura dei locali, infine i mobili, fornelli e lavatrice, i vestiti e i libri.

La convivenza non è una passeggiata: spesso si litiga tra coinquilini, per le pulizie o la manutenzione. Alla scuola Hertz, nel Tuscolano, sgomberata a inizio anno, sono sorti dei contrasti tra una coppia gay italiana e alcuni immigrati musulmani: in questo caso a ricomporre le lacerazioni è l’assemblea, o un comitato eletto, più ristretto. «Bisogna rispettare le regole, accettare tutti e lavorare quando è richiesto», spiega Pina Vitale, storica attivista romana e anima di quell’occupazione.

«Occupare è una scelta impegnativa» dice Irene Di Noto, dei Blocchi precari metropolitani: «Si deve anche lavorare per quelli che ancora non hanno una casa», cioè fare militanza politica. L’uso dei social è fondamentale: con hashtag come #stopsfratti, gli attivisti twittano l’avviso di nuove manifestazioni o chiedono la solidarietà in caso di uno sfratto. «Venite tutti, c’è la polizia al Settimo municipio»: e così, creando dei veri e propri cordoni umani, si tenta di resistere le forze dell’ordine, chiamate a far rispettare la legge.

Leroy, architetto trentenne, si sta ristrutturando uno spazio dentro l’ex salumificio Fiorucci: il suo appartamento si trova proprio dietro il locale caldaia e accanto alla porta corre la piccola pista dove i maiali venivano avviati al macello. Erano gli anni Settanta, in quell’edificio c’era il sangue degli animali e le lotte sindacali degli operai. Oggi ci sono i panni stesi, le opere del Maam, i ragazzini con il pallone: «Nei condomini normali, dove l’unico spazio comune è l’androne, ci si scambia al massimo un saluto con i vicini», spiega Leroy: «Qui invece condividiamo tutto».

Un altro capitolo è quello degli studenti: vicino alla Sapienza, in uno dei quartieri più costosi di Roma, un gruppo di universitari ha occupato una palazzina liberty, di proprietà della Provincia. «Ci sono 150 mila iscritti negli atenei romani, 90 mila dei quali fuori sede», spiega uno degli abitanti del Degage. «Si costruiscono alloggi nell’ottica di pura speculazione, in periferie lontanissime e scomode, quando invece si potrebbero riadattare gli edifici in centro. Il mercato degli affitti agli studenti, spesso in nero, tiene alte le quotazioni di quartieri come San Lorenzo, creando un problema anche ai precari e agli anziani che non riescono a concorrere».

Ma non tutti se la passano bene: è il caso di un piccolo campo costruito all’uscita della fermata Ponte Mammolo della Metro B di Roma. È quasi invisibile dalla strada perché coperto dalla vegetazione: circa 200 persone, la maggior parte rifugiati politici eritrei ed etiopi, qualche russo, vivono in una condizione più che precaria. Baracche costruite in mezzo ai rifiuti, servizi igienici non allacciati alle fogne, la possibilità per i topi di scorrazzare ovunque: «Questo campo esiste dal 2001», spiega uno degli occupanti, «ma da allora poco è cambiato. Ogni tanto vengono i Medici senza frontiere, con un furgoncino, a darci l’assistenza sanitaria primaria».
In Italia, d’altronde, sempre più persone vivono ormai nella disperazione. Secondo il ministero degli Interni, delle 70 mila sentenze di sfratto emesse nel 2013, ben 65 mila sono per morosità. E le famiglie che non riescono a pagare l’affitto, dal 2008, anno di inizio della crisi, sono addirittura raddoppiate.

Antonio Sciotto (Foto di Federico Romano)

Turchia: "Siate mogli non studentesse"

  • Feb 11, 2015
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
  • Letto 7185 volte

L'Espresso
11 02 2015

Il governo turco ha un obiettivo: convincere le donne a rimanere a casa. A fare figli. Tanti, almeno tre. A sposarsi presto. Rinunciando a studi e a carriera. È il piano da tempo avviato dal partito del presidente della Turchia Tayyp Erdogan. Un piano non solo teorico, come racconta Al Monitor , ma pratico: rafforzato da incentivi economici e fiscali per le coppie che daranno un futuro conservatore al paese. Un futuro da cui le donne sono escluse, se non nel ruolo di madri e vestali di casa.

L'ultima iniziativa è del ministro della Gioventù e dello Sport, che ha annunciato un incentivo per gli studenti universitari che decidono di sposarsi: non dovranno ripagare i prestiti ricevuti per frequentare i corsi. I loro debiti saranno cancellati. Secondo alcuni rapporti vi avrebbero già fatto richiesta 3mila ragazzi. Ora è arrivato un nuovo aiuto, per i giovani sposi: un contributo pari al 15 per cento dei risparmi, dopo cinque anni, se il tesoretto di coppia non è stato toccato.

«Non rimandate il matrimonio, decidete presto, sposatevi mentre studiate o subito dopo la laurea», aveva detto un anno fa il presidente Erdogan rivolgendosi alle ragazze iscritte a un'associazione per la gioventù presieduta da suo figlio: «Non siate troppo selettive». Per incentivare le giovani famiglie, gli strumenti non sono finiti. Ci sono anche i regali da 120 dollari a ogni primo figlio nato, che aumentano a 160 col secondo figlio e quindi a 240 euro al terzo. Monete d'oro per ogni bebé.

Un aiuto alle donne? Alla loro emancipazione? Mica tanto, denunciano le associazioni. E citano un altro provvedimento del governo: la proposta di far pagare alle imprese stipendi full-time per madri che lavorino solo 4 ore al giorno. Per occuparsi dei figli. «È difficile pensare che le aziende vogliano veramente sobbarcarsi questi costi», scrive l'autore dell'articolo Zülfikar Doğan: «Disincentivando così le assunzioni, spingendo le donne fuori dal mondo del lavoro».

È lo stesso paese, d'altronde, il cui vicepremier aveva suggerito alle giovani di non ridere in pubblico, o il cui presidente si è espresso più volte in sentenze come: «La nostra religione (l'Islam) ha definito un posizione per le donne nella società: la maternità» (copyright Erdogan, novembre 2014, e continuava): «Alcune persone comprendono questo, altre no. Non si può spiegare alle femministe perché loro non accettano il concetto di maternità», per poi finire, citando quasi gli stessi principi più volte ribaditi dalle cattolicissime Sentinelle in Piedi : «Donne e uomini non possono essere trattati nella stessa maniera, è contro natura. Fisico e personalità sono diversi».

Le principesse scomode di Emma Dante

  • Feb 10, 2015
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
  • Letto 6586 volte

L’Espresso
10 02 2015


Il trucco, per gustarle meglio, è leggere ad alta voce. Con l’enfasi di una nonna che racconta, e l’indugio sui termini gergali: in quel siciliano caricaturale e onomatopeico che, quando vuole, smette di essere dialetto e diventa koinè globale.

“Le principesse di Emma” (edito da Baldini&Castoldi), dove Emma sta per la regista palermitana Emma Dante, è una trilogia che riunisce “Anastasia, Genoveffa e Cenerentola”, “Gli alti e bassi di Biancaneve” (già usciti qualche anno fa per La Tartaruga) e l’inedita “La bella Rosaspina addormentata”. Ed è una rilettura visionaria delle più note favole dei fratelli Grimm. Un libro singolare, a partire dal target di lettura: i più piccoli, ai quali queste storie sono da sempre destinate? O gli adulti, più in grado di intercettare l’ironia di una riscrittura dove di tradizionale, nella forma e nella sostanza, non resta alcunché?

Il filone è quello del revisionismo letterario: l’idea di rilanciare le fiabe dell’infanzia, riadattandole a un mondo dove non solo scenario e modelli sono cambiati, ma persino la morale originale è in discussione. Operazione ricorrente: da “Biancaneve bella sveglia” di Francesca Crovara ed Emanuela Nava (Carthusia) alla “Cenerentola” griffata di Steven Guarnaccia (Corraini); da “La bella addormentata è un tipo sveglio” di Annalisa Strada (Piemme), dove Aurora, una volta ridestata, non ci pensa proprio a convolare a nozze col bel principe, fino alle tante varianti di Cappuccetto Rosso (Teresa Buongiorno, in “Dizionario della fiaba”, Lapis, ne fa una lunga carrellata); da Roberto Vecchioni (“Diario di un gatto con gli stivali”, Einaudi) a Vladimir Luxuria (“Le favole non dette”, Bompiani), tanto per non scomodare i maestri della psicoanalisi, non si contano più le riproposte pop dell’immaginario infantile. Obiettivo: fare falò delle versioni originali, discriminatorie e sessiste. E, soprattutto, irrobustire l’identità delle bambine con colpi di scena dalla loro parte. Cedendo, talvolta, alla tentazione di strafare.

Qui è una realtà pragmatica e disincantata a prendere il posto delle atmosfere Disney dai colori saturi: i sette nani sono minatori che hanno perso le gambe; Cenerentola si chiama Angelina e rimpiange il padre che l’“annacava” (cullava) chiamandola “picciridda mia”; la regina di Biancaneve interpella lo specchio mentre si depila col rasoio. E Maria Pina, alias Rosaspina, canta a squarciagola De André: «Mentre attraversavo il London Bridge, un giorno senza sole... vidi una donna piangere d’amore, piangeva per il suo Geordie».

L’autrice frulla tutto, stereotipi e aspettative, con la passione e l’audacia alle quali ci ha abituati nei suoi lavori sul palcoscenico: da ultimo “Gisela!”, opera di Hans Werner Henze, con la quale ha appena aperto la stagione del Teatro Massimo di Palermo.

Un ruolo decisivo hanno i disegni dell’illustratrice e color designer Maria Cristina Costa, che sottolineano il testo e lo rafforzano, giocando con distorsioni, caricature e segni particolari: nei, baffi, ghigni che raccontano, dei personaggi, qualità morali, caratteristiche fisiche, difetti. Puri divertissement: come i collant che sciattamente scivolano dalle gambe della cattiva di turno.

Perché i conti tornano sempre. Anche quando i finali cambiano e i ruoli s’invertono, chi la fa l’aspetti: vedi la matrigna e le sorellastre di Cenerentola, trasformate in mastino napoletano con due zecche incorporate. E che importa se Rosaspina, smascherato l’amato, scopre che è una donna (dai capelli blu). Lo stupore svanisce con la bellezza di un bacio esagerato. E vissero felici e contente.

"No alla moschea", l'inno della destra italiana

  • Feb 06, 2015
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
  • Letto 6551 volte

l'Espresso
06 02 2015

La protesta è virtuale ma i raduni sono reali. L’inno «No alla moschea» affascina, aggrega e semina veleno. I peggiori slogan attraverso decine di gruppi via Facebook.

Un appello al Medioevo e alle crociate, facile e immediato, diventato verbo della destra italiana. In testa la Lega Nord e i gruppi di neofascisti di Forza Nuova che si organizzano con raccolte firme e picchetti per fermare la presunta invasione.

In Lombardia la maggioranza di centrodestra al Pirellone ha approvato una legge per mettere ogni paletto ai nuovi luoghi di culto.
A Crema nonostante il parere positivo del vescovo il dibattito in consiglio comunale si infiamma con l’arrivo del leader della Lega Nord Matteo Salvini e la pasionaria forzista Daniela Santanché.

Proteste e manifestazioni anche in Veneto con Forza Nuova che espone striscioni davanti ai centri islamici.

Dopo la mattanza nella redazione parigina di Charlie Hebdo la confusione tra Islam e terrorismo è uscita dalle discussioni da bar ed è entrata direttamente nei talk show televisivi, nel dibattito pubblico e nei tanti dubbi di chi la vede come una minaccia alla cristianità.

Non perdendo la sua carica di ignoranza e facile razzismo come dimostrano le uscite dell’assessore veneto all’Istruzione e decine di episodi di intolleranza.

«Per la prima volta si apre uno spazio per l’estrema destra che ha tratti simili a quelli del fascismo.

Ci sono imprenditore politici che individuano questo spazio puntando contro immigrati, sicurezza, Islam e la povertà dilagante» ragiona Paolo Feltrin, politologo dell’Università di Trieste: «Il fuoco alle polveri è stato innescato da Salvini con maggiore radicalità di Marine Le Pen. Ecco il senso di politiche simboliche come quelle della Lombardia: non si scrive per farla applicare ma per farla rifiutare e dare la colpa allo Stato che la respinge. È un po' come le ronde e le norme per bloccare i negozi di kebab. Effetto immediato ma risultati zero. A parole c’è una violenza anti-immigrati ma in pratica non abbiamo assistito a veri episodi di razzismo. Un brutto muso di facciata, una soglia molto elevata delle parole ma bassa di fatti concreti».

Intanto ogni tentativo di sciogliere i nodi legati alle nuove costruzioni di centri islamici diventano un campo minato.

L’Islam è la seconda religione del Paese, i musulmani d’Italia sono più di un milione e settecentomila e da Palermo a Pordenone si contato oltre settecento moschee. Oltre a quella di Roma, disegnata da Paolo Portoghesi e in grado di ospitare 12 mila fedeli, sono perlopiù scantinati, magazzini, capannoni o luoghi nati per altri usi.

Spesso chi le frequenta è costretto a pregare in strada o affittare centri sportivi per la fine del ramadan, il mese sacro da onorare con il digiuno.

IL PEGGIO VIA FACEBOOK
L’Islamofobia dilaga sul web. Ecco i messaggi e le foto più significative usate dai razzisti di casa nostra: immagini di bambini con il fucile in braccio, slogan come «Ora o mai più, stop all’invasione islamica» o «Una chiesa in Islam? Ti taglio al gola se ci provi», oppure «Il turbante mi turba». Un crescendo di violenza verbale e odio fino sentenziare: «Quale Dio? Assassini, trogloditi sottosviluppati».

No alle moschee in Italia: il razzismo corre su Facebook
Tra le star delle nuove crociate il presidente russo Vladimir Putin: famoso per il pugno di ferro contro l’Islam della Cecenia e le sue parole contro la Sharia e i migranti.

In Rete sono decine le raccolte firme e perfino la sindrome Nimby tirata in ballo: acronimo di “Not In my back yard, Non nel mio cortile” tra i buoni motivi per opporsi.

Come se fosse un’autostrada o una discarica di rifiuti qualsiasi: «Costruire una moschea, comporta, più o meno evidenti conseguenze di degrado per l'area interessata, alcune sono ovvie altre sono comprovate da fatti di cronaca, altre ancora sono meno quantificabili. In ogni caso arriva crimine, traffico, svalutazione immobiliare, segregazione, inquinamento acustico» si legge nel pagina del movimento “Veri italiani”.

L’elenco di città unite nel rifiuto alla costruzione di centri islamici si allunga giorno dopo giorno: Crema, Cantù, Como, Sondrio, più ad est, Piacenza e Padova, i capoluoghi Torino e Genova.

E poi in Toscana con mobilitazioni a Pistoia e Pisa e l’affronto più grande: la costruzione in casa della scrittrice Oriana Fallaci, a Firenze.

Dietro la protesta le bandiere della Lega Nord, i club di Forza Italia e poi l’estrema destra. A Milano il raduno anti-moschea è organizzato dal gruppo di estrema destra Forza Nuova.

Previsto per lunedì 2 febbraio davanti a Palazzo Marino è stato annullato per il rischio di scontri e tensioni. Ecco la risposta al divieto: «I sinistri a regalare terre, spazi, luoghi (nostri ovviamente) ad ipotetiche moschee. I destri a vietare ogni concessione pubblica, però “se pagate tutto voi va bene”. Benvenuti Fratelli Musulmani, Quatar, Arabia Saudita, comprate, spendete, edificate moschee come volete».

PRESI DI MIRA IN VENETO
Lo stesso gruppo capeggiato da Roberto Fiore (un passato in Terza Posizione, una condanna per banda armata, la lunga latitanza e la simpatia per il fascismo) ha preso di mira i centri musulmani in Veneto.

Una serie di blitz notturni con gli attivisti di Forza Nuova che appendono striscioni di fronte ai luoghi di preghiera in tutto il Veneto: Treviso, Padova, Rovigo, Venezia, Verona e Vicenza nel mirino.

«Abbiamo vinto a Lepanto e vinceremo ancora. Fuori l'Islam dall'Italia!»: il riferimento storico è alla battaglia con cui, nel 1571, le forze della Lega Santa respinsero l'avanzata della flotta dell'Impero Ottomano.

Il copyright di Forza Nuova è ben visibile sullo striscione poi fotografato dai militanti del gruppo di estrema destra e diffuso in rete.

«Gli ultimi avvenimenti - attacca il coordinatore regionale Davide Visentin - dimostrano come la costruzione di moschee o di centri islamici non conduca affatto a un’integrazione della comunità musulmana ma contribuisca semmai a creare emarginazione e ghettizzazione, che nel giro di breve tempo maturano in pericolosi episodi di estremismo religioso. La gioventù d’Europa è pronta a una guerra anti-fondamentalista».

LA LEGGE ANTI-MOSCHEE
Anche la Lombardia sta facendo la sua parte in questa battaglia ideologica.

Il 27 gennaio il parlamentino di Milano ha approvato una nuova legge sui luoghi di culto- ribattezzata dall'opposizione “legge anti- moschee”- sollevando un vespaio: fortemente voluta dal Carroccio impone a chi intenda realizzare nuovi luoghi di culto di installare impianti di video-sorveglianza – obbligatori – collegati con le forze dell’ordine, di costruire parcheggi per una superficie pari al 200 per cento di quella dell’immobile adibito ai servizi religiosi e altri vari adempimenti.

Non è tutto: bisogna anche «rispettare il paesaggio lombardo», che allude al divieto di realizzare architetture espressive di altre tradizioni culturali o forse manufatti come i minareti, che nella vicina Svizzera sono stati vietati da un apposito referendum.
E se tutti questi ostacoli sono superati a mettersi di traverso possono essere i comuni con referendum consultivi sulla costruzione di luoghi di culto.

Il messaggio della Lega Nord è chiaro come spiega il relatore della legge Roberto Anelli: «È stato compiuto un importante passo avanti per dire no alla proliferazione selvaggia, al di fuori di ogni regola, delle moschee. Non si tratta di ostacolare la libertà religiosa, ma di porre delle regole certe, per la salvaguardia dei cittadini».

Michele Sasso

Il carcere per gli stranieri è ancora più duro

  • Feb 05, 2015
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
  • Letto 8281 volte

l'Espresso
05 02 2015

Due mediatori culturali per cento stranieri. Interpreti qualificati che si contano sulle dita di una mano. Al punto che, quando occorre parlare con una persona appena arrestata, si chiede aiuto al traduttore automatico di Google. Diritti basilari che vengono sepolti e che degenerano in risse, pestaggi, aggressioni agli agenti della polizia penitenziaria. E poi, ancora, più in generale, decessi e suicidi che non si fermano in un lento e anonimo stillicidio.

Fra le emergenze del nostro sistema carcerario che richiedono con urgenza di essere affrontate, il sovraffollamento non è più al primo posto, ma in pole position troviamo la violazione dei diritti dei detenuti stranieri, la cui presenza in carcere è ancora altissima, soprattutto quelli in attesa di giudizio, ai quali non vengono concesse misure alternative al carcere.

E’ il ritratto delle nostre prigioni fatto dall’Osservatorio Antigone, che redige un bilancio sull’anno appena trascorso anticipando i dati ufficiali che saranno contenuti nel rapporto annuale del 2014 e che ha focalizzato i suoi studi sulla presenza degli stranieri nelle celle italiane.

Rispetto a un anno fa, infatti, dati alla mano, il totale dei detenuti risulta diminuito in maniera significativa dopo l’approvazione del decreto carceri che ha fatto evitare al nostro Paese, per un soffio, la sonora condanna da parte dell'Unione Europea per trattamenti inumani e degradanti. E mentre manca ancora la figura di un garante nazionale a tutela dei detenuti, scende il numero totale dei carcerati - al 31 dicembre 2014 erano 53.623 contro i 62.157 dell’ anno precedente - ma continua a rimanere alto quello degli stranieri dietro le sbarre ai quali non vengono concesse misure alternative al carcere: il 32,56% del totale della popolazione carceraria. Di questi il 34% è ancora in attesa di giudizio, mentre gli italiani nella stessa condizione sono il 29 per cento. Tutto questo - spiegano da Antigone - avviene perché mancano investimenti dello Stato sulle comunità, ormai colme, e molto spesso gli stranieri non sono in grado di fornire l'indirizzo di un'abitazione dove scontare eventuali domiciliari. E quindi tutto il sistema si ingolfa.

Così si scopre che nelle celle si continua a morire. Nell’anno appena trascorso i decessi ammontano a 131, di cui 43 sono suicidi. L'ultimo caso si è verificato lo scorso 29 gennaio nel carcere di Palermo. A togliersi la vita è stato un ragazzo di 26 anni. E soprattutto, l’emergenza nazionale diventa la difficile convivenza e lo stato di abbandono dei detenuti stranieri, ai quali vengono negati anche i diritti più elementari previsti dall'ordinamento giudiziario. Come quello ad avere a disposizione interpreti e mediatori culturali.

NIENTE INTERPRETI
Secondo i dati resi noti da Antigone, infatti, sono 379 in tutta Italia. Ovvero meno di due mediatori ogni cento detenuti stranieri. Una penuria di personale che dà vita a storie al limite dell’incredibile, come quella raccontata dalla direttrice di Regina Coeli Silvana Sergi: “Per poter allentare le tensioni negli istituti quando i detenuti entrano ed escono e non abbiamo l’ aiuto prezioso dei mediatori, non ci resta che utilizzare il traduttore di Google”, spiega.

Una situazione, questa, che mette ben in evidenza il ruolo fondamentale svolto dai mediatori culturali che, ad oggi, lavorano solo con piccoli bandi e sono legati ad associazioni e cooperative e non direttamente agli istituti di pena. Figure professionali che il più delle volte vengono garantite, a rotazione, soltanto una volta a settimana.

“I mediatori culturali sono assolutamente pochi – ha spiegato il presidente di Antigone Patrizio Gonnella - . Non possono reggere il peso della quantità di detenuti stranieri presenti in carcere. Di fronte ad una utenza straniera così significativa, parliamo di un detenuto straniero su tre, dovrebbe esserci un grosso investimento nel sistema penitenziario e nel sistema delle figure professionali”. “Capita spesso che i detenuti italiani non capiscano la terminologia di un atto ad esempio di una custodia cautelare – ha aggiunto Natalia Moraro, mediatrice culturale per l’ associazione Medea - figuriamoci una persona straniera. Per questo il mediatore dovrebbe essere presente per lo meno al servizio nuovi giunti”.

Ed è stata anche l’Europa a chiedere un investimento maggiore su queste figure professionali. “La raccomandazione del 2012 del Consiglio d’Europa ci dice che bisogna investire in mediatori culturali, interpreti e traduttori – ha aggiunto Gonnella -, perché è un problema di tutta l’Europa. Non possiamo pensare di avere un’organizzazione tutta pensata per un detenuto che non esiste più, il detenuto italiano, e non tradotta nella lingua delle persone che ci sono dentro. Questo aumenta la conflittualità”.

RISSE E AGGRESSIONI
Una conflittualità che, appunto, più in generale si traduce in uno stato di tensione che degenera i continue risse e pestaggi, dove i protagonisti sono in uguale misura detenuti stranieri e italiani. A subire le botte inoltre non sono solo i carcerati, ma anche gli agenti della polizia penitenziaria. Come denunciano dal sindacato Sappe, che registra una media di tre aggressioni al mese.
Mentre, più in generale, le violenze non si fermano: l’ultima rivolta carceraria si è registrata nel carcere “Due Palazzi” di Padova lo scorso 23 gennaio. E continuano, anche le inchieste interne ai penitenziari. Come quella, appunto, che riguarda sempre il carcere padovano, dove detenuti condannati in via definitiva avrebbero trasformato il penitenziario in un "supermarket fuorilegge" dove tutto aveva un prezzo, dal materiale informatico alla droga.

Un’indagine delicatissima ancora in corso - che ha svelato un sistema di crimini, abusi e complicità tra alcuni agenti di polizia penitenziari e un gruppo di carcerati - opposta a quella che ha travolto Poggioreale, dove circa sessanta detenuti ed ex detenuti hanno denunciato ai magistrati napoletani di essere stati picchiati a sangue in piena notte nella “cella zero” del carcere. In sostanza, un gruppo di guardie si sarebbe trasformato in una squadra deviata di picchiatori, che prendeva di mira soprattutto i detenuti stranieri.

DIRITTI DIMENTICATI
L’Osservatorio Antigone, quindi, sempre focalizzandosi sulla presenza degli stranieri nelle nostre prigioni, sottolinea l’incompletezza della legislazione interna alle carceri, che dà per scontato che il detenuto sia italiano e non tiene conto della forte presenza degli stranieri. “Nel codice di procedura penale - si legge - non esiste ancora una norma che preveda il divieto di trasferimento di una persona da noi detenuta verso Paesi dove vi sia il rischio di essere sottoposti alla tortura o a trattamenti inumani o degradanti”.

Mentre ancora una volta si mette l’accento sulle lacune del personale impiegato nel carcere, che molto spesso non conosce neppure una lingua straniera: “Occorre assumere con concorso pubblico interpreti e traduttori dalle varie lingue in numero sufficiente affinché possano operare in ogni istituto penitenziario - si legge nella relazione - e la lingua inglese deve essere inserita fra le materie d‟esame per l‟accesso ai vari ruoli della carriera penitenziaria e del servizio medico”.

E, poi, ancora, “prevedere che l‟insegnamento della legislazione interna e internazionale sugli stranieri in vigore, compresa la raccomandazione europea del 2012, e delle lingue più parlate dai detenuti facciano parte dei programmi di aggiornamento professionale e formazione continua”. Più in generale, si chiede che all'interno delle nostre prigioni si mantengano i diritti finora faticosamente conquistati, come l'apertura delle celle nella fascia pomeridiana della giornata, fortemente osteggiate invece dai sindacati di polizia penitenziaria. Mentre la nascita di laboratori internet, aree verdi e corsi di aggiornamento professionale potrebbero essere una risposta all'alto tasso di recidiva dei detenuti. Perché le celle - come prevede il nostro ordinamento giudiziario - non si trasformino in un abisso ma in un luogo di recupero.

Arianna Giunti

L'amore spiegato da Tiziano Terzani

  • Feb 05, 2015
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
  • Letto 8381 volte

l'Espresso
05 02 2015

Il testo di Tiziano Terzani che pubblichiamo arriva in libreria in questi giorni, nel volume di inediti “Le parole ritrovate” (editrice La Scuola) che raccoglie, a cura di Mario Bertini, quattro interventi fatti a Firenze e dintorni tra il febbraio e il marzo del 2002, accompagnati da una rassegna di fotografie. A stanare il giornalista dal suo rifugio sull’Himalaya e a convincerlo a reimmergersi tra la folla era stato non tanto l’attentato alle Torri Gemelle quanto la rabbiosa risposta di Oriana Fallaci nel volume “La rabbia e L’orgoglio”. Terzani, sin dai sui esordi come corrispondente per diversi giornali, tra cui “L’Espresso”, coltivò un’instancabile curiosità per il continente asiatico, di cui divenne profondo conoscitore. Per questo dei tragici eventi dell’11 settembre 2001 afferrò subito il pericolo universale: lui, che gli uomini di Bin Laden li aveva incontrati, si fece così «pellegrino di pace», testimoniando davanti a tante platee del Belpaese la sua esperienza: «Ci sono milioni e milioni di persone che oggi, nel mondo, non vogliono vivere come noi […] che non vogliono la nostra libertà. 
Queste persone sono anche tra di noi. Sarà bene ascoltarle, forse». (Enrica Murru)

Mi permettete di parlarvi un attimo dell’amore? Quando si nasce, secondo me, si nasce a metà, perché nell’origine si era una cosa insieme, poi ci ha separato il tempo, lo spazio, ma la vita diventa pienezza quando si trova l’altra metà, e io in questo sono stato fortunatissimo, per questo e per tante altre cose.

E così, in mia moglie, ho trovato l’altro pezzo di me molto presto: avevo appena fatto la maturità, e con quest’altro pezzo abbiamo fatto la strada insieme. E questo è bello perché si cresce insieme. Tanto è vero che io non mi vergogno a dire che quel che vedete qui, davanti a voi, è in gran parte il frutto del rapporto con questa mia straordinaria moglie.

Se poi mi chiedete: ma com’è che sei riuscito a stare quarantadue anni con la stessa persona, in questi tempi in cui si consuma tutto: si consumano le scarpe, gli orologi, i telefonini e anche i partner, i mariti, le mogli e perfino i fidanzati?

Debbo dire che ognuno deve trovare la sua formula nell’amore: la mia è stata questa, ma non è ripetibile, vi prego, e non pensate che tutto quello che io vi voglio dire stasera, sia la formula per la vita, o la soluzione per la pace.

Io non ho formule, non ho nemmeno risposte ai problemi del mondo, che sono immensi, ho soltanto delle domande, non ho nemmeno certezze, ho dei dubbi da porre a chi crede di avere certezze e poi non le ha. La formula del mio matrimonio è questa: grandi presenze e grandi assenze. Vi faccio anche l’esempio: io avevo già due figli piccoli, e facevo il corrispondente di guerra in Vietnam, dove non potevo tenere la famiglia perché era pericoloso. Chi di voi lo ha studiato, si ricorderà che, nel 1968, in Vietnam c’erano i vietcong che attaccavano le città, e non si poteva tenere i bambini in una zona di guerra, e così i miei stavano con la madre a Singapore, mentre io facevo il corrispondente di guerra in Vietnam, in Cambogia, nel Laos, e poi nelle guerriglie in Indonesia, in Malesia... ero sempre fuori.

Stavo via due o tre settimane e poi tornavo a casa. Ed era bellissimo tornare, perché ero pieno di piccoli regali per i bambini, e tante esperienze da raccontare a mia moglie, che a sua volta mi raccontava le sue. E questo era bello perché tutt’e due avevamo qualcosa da scambiarci. Tant’è vero che dopo un po’ di giorni mia moglie mi diceva: «Ma non hai qualche altra guerra da andare a raccontare?».

Per cui la mia formula era questa: grandi presenze e grandi distacchi. (...)

L’amore!? Una cosa che ormai è diventata così poco di moda. Chi di voi ha i capelli bianchi come me, si ricorderà che la nostra generazione, diceva «fare all’amore» e non «fare sesso». Io trovo, che se insegnassimo ai nostri figli già queste espressioni, avremmo fatto qualcosa di interessante. Avremmo riportato nella vita quella cosa stupenda e meravigliosa che è l’amore. Qualcosa che è più grande della materia.

Qualcuno dirà: «Ma il sesso è importante!».

Lo dite a me che ho 63 anni e ho girato il mondo?

Ma è la cantina, non è l’ultimo piano!

Molti giovani oggi hanno paura a dire: «Sono innamorato, ti amo!»

Perchè pensano che sia una debolezza, una vulnerabilità, uno sdilinquimento che non è una forza. Io trovo che se riparliamo d’amore è bellissimo, e il mio messaggio ai giovani è: vi prego, riscoprite la voce del cuore, la testa è bella, la testa è importante, ma la ragione non è tutto! Dobbiamo ascoltare il cuore e il cuore parla con la voce uguale. Mussulmani, cristiani, ottentotti, il cuore è uguale dappertutto. Non c’è un cuore orientale e un cuore occidentale, non c’è una psiche orientale e una psiche occidentale: noi siamo dentro la psiche che è uguale dappertutto. La vita è una, una! Questa piccola straordinaria vita è parte di una cosa meravigliosa, dell’universo...

E questo, ritornando nella natura, è una cosa che sento molto. Io, ora, me lo sono permesso: ho 63 anni e vivo in mezzo alla natura. Cosa che suggerisco a tutti di fare.(...)

Certi grandi dicono che la miglior forma di comunicazione è il silenzio. E le parole spesso sono trappole.

Vi faccio un esempio con una parola che tutti, tutti, tutti conosciamo. La parola “amore”.

A volte è una cosa meravigliosa, a volte una grande sofferenza, a volte una grande gioia, a volte una grande forza, a volte un fuoco, a volte un senso di insufficienza... amore.

Amore: tutto lì? Tutte queste cose? Tutte lì? In questa scatolina della parola? L’amore è molto di più di quella parola, eppure non troviamo altro modo di esprimerlo che con quella parola. (...)

Io non sono consumista, ho una sola moglie che non ho mai rottamato e con la quale sto insieme da 42 anni.

Quando feci conoscere questa mia moglie ai miei genitori dicendogli che era tedesca, il mi’ babbo la guardò come se ci avesse in testa un elmetto con scritto “ss”, e la mi’ mamma aggiunse: «La ‘un è nemmeno della nostra religione».

Questo voleva dire essere tedesco a Firenze 45 anni fa. Oggi è tutto superato, si può viaggiare in giro con questo euro senza frontiere e senza nemmeno passaporti. È una bella storia.

Tiziano Terzani

 

 

 

 

 

Alle scuole private un fiume di soldi pubblici

  • Feb 04, 2015
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
  • Letto 6631 volte

Espresso
04 02 2015

è un paradosso nel mondo dell’istruzione che sopravvive alle riforme e ai proclami. Da una parte scuole pubbliche a corto di risorse, con 250 mila insegnanti precari ed edifici senza sicurezza come testimoniano i crolli nell’asilo di Milano e nella media di Bologna di inizio gennaio.

Dall’altra istituti privati che continuano a essere finanziati da Stato e Regioni con una dote che sfiora i 700 milioni di euro l’anno, senza che alle sovvenzioni corrisponda un controllo sulla qualità.

Il governo Renzi ha promesso di mettere mano almeno alle condizioni delle aule, con un piano di investimenti ambizioso che però stenta a partire proprio per la carenza di fondi: l’operazione richiede quattro miliardi di euro. Così il dossier “La buona scuola” considera inevitabile il sostegno agli imprenditori dell’istruzione: «Va offerto al settore privato e no-profit un pacchetto di vantaggi graduali, attraverso meccanismi di trasparenza ed equità che non comportino distorsioni».

Così ogni anno il ministero dell’Istruzione versa poco meno di mezzo miliardo alle paritarie.

Un lascito mai rimosso del secolo scorso, quando il maestro non arrivava nei paesi più remoti e ai piccoli studenti ci pensavano soprattutto le suore.

Oggi quel finanziamento è un nervo scoperto tra i pasdaran della statale ad ogni costo e i paladini delle strutture private. Per i primi andrebbe cancellato il contributo per gli istituti laici e confessionali che vogliono stare sul mercato, mentre i secondi difendono la possibilità di educare ai valori cattolici o con sistemi alternativi.


Le due opzioni sono sempre sullo stesso piano, rispolverando un vecchio mantra caro al centrodestra italiano: la libertà di scegliere dove mandare i figli a scuola è sacrosanta e siccome le paritarie costano, ci vuole un aiutino. Tesi sposata in pieno anche dal ministro Stefania Giannini: «Dobbiamo pensare una scuola che sia organizzata dallo Stato o dall’iniziativa privata. Dobbiamo uscire dalla logica che ci siano gli amici delle famiglie contro gli amici dello Stato».

Per gli “amici delle famiglie” sono riservati per quest’anno 473 milioni, necessari ad accogliere quasi un milione di allievi dai tre ai diciotto anni. Fondi che arrivano da Roma in base al numero di sezioni e che solo negli ultimi anni sono scesi sotto quota mezzo miliardo

. La riduzione è stata di venti milioni, poco più del tre per cento imposto ai ministeri dalla spending review, ma ha fatto lievitare il malcontento. Come spiega padre Francesco Macrì, presidente della federazione degli istituti cattolici: «Siamo il vaso di argilla più debole di tutti, subiamo il taglio dei finanziamenti a fronte di una crescita di responsabilità e di impegni educativi».

Di diverso avviso Massimo Mari della Cgil:«Quella della Giannini è una presa di posizione degna dei governi democristiani. Con un problema mai superato: al centro dell’istruzione c’è il cittadino e non la famiglia. Finanziare la scuola cattolica contrasta con lo Stato stesso».
Ancora più tranchant la Rete studenti:«Investire nelle paritarie è un insulto ai milioni di ragazzi che frequentano istituti che cadono a pezzi, senza servizi e sotto finanziati».

Le statali italiane superano quota 41 mila, tutte le altre sono 13.625. Di queste, oltre 11 mila sotto forma di cooperativa, congregazione o srl offrono un ampio ventaglio di formazione.

Per stare in piedi chiedono una retta che può arrivare fino ad ottomila euro all’anno. Tanto. E allora oltre allo Stato ci pensano gli enti locali a dare una mano, con il buono-scuola della Regione Lombardia a fare da modello o gli aiuti dei comuni emiliani: a Bologna il milione di euro destinato ogni anno alle scuole d’infanzia è stato bocciato da un referendum. Governatori e sindaci alimentano un altro fiume carsico di denaro pubblico per le private, un federalismo scolastico stimato dalla Cgil in altri 200 milioni, che si somma alla sovvenzione ministeriale.

Un assegno in bianco, che non premia solo le eccellenze: finisce pure ad enti privati che non brillano per qualità o dove i professori ricevono stipendi da fame.

STORIE DI ORDINARIO SFRUTTAMENTO

Tra le distorsioni più frequenti delle private ci sono gli insegnanti alle prime armi che diventano vittime del ricatto.

Funziona così: per scalare la graduatoria nazionale devono accumulare punteggio con le ore di docenza, ma i professori a spasso sono così tanti che pur di mettere da parte ore utili sono disposti a salire in cattedra a gratis.

Lezioni a costo zero e tenuti sotto scacco nel purgatorio delle parificate per prendere il volo il prima possibile verso il paradiso delle statali. Paolo Latella, insegnante e sindacalista Unicobas, ha raccolto le testimonianze: «È un fenomeno così diffuso che tocca almeno il cinquanta per cento delle strutture. “Vuoi che ti pago quando c’è la fila fuori?” è la risposta più frequente data dai gestori senza scrupoli ai docenti disarmati». In centinaia firmano il contratto e una lettera di dimissioni senza data. È sufficiente aggiungerla e cacciarli. Senza strascichi in tribunale. Lo stipendio in diversi istituti è sotto la soglia di sopravvivenza: ci sono esempi di retribuzioni da 200-300 euro al mese, significa due euro all’ora. E poi un elenco vergognoso di condizioni a cui sottostare. Dai rimborsi della maternità da restituire, fino alla pratica del pagamento con assegno mensile da ridare in contanti alla segreteria.

Centinaia di casi, dall’Emilia Romagna alla Sicilia, con tanto di minacce e pressioni. Tutte segnalazioni anonime, come se fare la prof fosse un mestiere a rischio. «Per sei anni sono stata malpagata a Cagliari. Sei mesi fa ho fatto una denuncia all’ispettorato del lavoro e ho scoperto l’ovvio: i contratti a progetto che avevo firmato sono illegali». Dopo l’esposto però la beffa. Licenziata con una motivazione paradossale: «Mancanza di fiducia a causa del mio comportamento».

Epicentro del fenomeno la provincia di Caserta, dove si contano oltre 400 tra srl e cooperative e solo 217 istituti con lo stemma della Repubblica. Da qui arriva la storia di Maria: «Ho lavorato un anno intero senza ricevere neppure un euro, firmando però la busta paga. Ho fatto anche gli esami di idoneità senza portare a casa nulla, tutto sotto minaccia di licenziamento e di perdere posizioni in graduatoria».

In Campania nelle scuole private resiste anche la pratica dei “diplomifici”: pago tanto, studio poco e prendo il pezzo di carta. Ecco il racconto di una ragazza bolognese:«A Nola mi sono presentata tre volte per le prove scritte ed orali. Mi facevano copiare tutto». È una delle testimoni ascoltate dai finanzieri dopo il sequestro di due istituti nel Napoletano. La maturità partendo da zero, grazie a registri taroccati e atti pubblici falsi. Il tutto per 12mila euro in contanti. A chi organizzava la truffa sono finiti in tasca milioni di euro: in centinaia si sono catapultati qui da Roma, Foggia e dalla Sardegna. Per prendere un diploma che non vale nulla: dopo l’inchiesta i titoli sospetti sono stati cancellati.

SOPRAVVIVE IL SISTEMA FORMIGONI

Sul fronte dei finanziamenti, in Lombardia una dote ad hoc è stata il vanto dell’ex presidente Roberto Formigoni. Partiti nel lontano 2001, in tredici anni i contributi regionali hanno superato quota 500 milioni.

Messi a disposizione in nome della possibilità di scegliere: la libertà educativa è in mano ai genitori, che se vogliono iscrivere i propri figli nelle scuole cattoliche ricevono sostegno dal Pirellone, che sborsa una parte delle rette. Un sistema fortemente contestato dalla Cgil, come spiega Claudio Arcari: «Per come viene distribuita, la dote finisce alle famiglie benestanti, alimentando un diritto allo studio al contrario: tanto a chi si può permettere rette da migliaia di euro e nulla a chi ha poco».

L’aiuto non si è inceppato neppure con la bocciatura del Tar dello scorso aprile. Ecco come è andata. Due studentesse milanesi fanno ricorso: troppa differenza (a parità di reddito familiare) tra quanto destinato a loro - tra 60 e 290 euro - e quello che va a una coetanea privatista, che può intascare fino a 950 euro. Una disparità non accettabile per i giudici amministrativi: «Senza alcuna giustificazione ragionevole e con palese disparità, le erogazioni sono diverse e più favorevoli per chi frequenta una paritaria».

La sentenza è tuttavia una vittoria a metà perché è stata respinta la parte del ricorso che colpiva il sostegno economico. E anche per quest’anno scolastico sono arrivati trenta milioni di euro sotto forma di dote. La scelta del leghista Roberto Maroni è stata copiata dal compagno di partito Luca Zaia.

Il governatore veneto ha messo sul tavolo 42 milioni (21 per gli asili nido e altrettanti per le scuole d’infanzia) con questa motivazione: «Il Governo ci vorrebbe più impegnati nella costruzione di asili pubblici. Noi diciamo che questa è la nostra storia e che non ci sono alternative alle comunità parrocchiali e congregazionali. In Veneto non cerchiamo e non vogliamo nessuna alternativa».

PRIMA GLI ULTIMI

Non sempre vince il malaffare. Oltre ai predatori voraci e governatori generosi, non mancano le buone pratiche: inclusione sociale, esperienze di eccellenza e una visone moderna dell’insegnamento.

A Rimini il centro educativo italo-svizzero (Ceis) è stato fondato nel dopoguerra dal Soccorso operaio elvetico. Una istituzione privata laica che col tempo è diventata un modello: niente cattedre, orari flessibili e classi che gestircono in autonomia le lezioni per oltre 350 bambini fino a dieci anni. Di questi, cinquanta hanno una qualche forma di disabilità, oltre il triplo di una scuola pubblica.

Un’attenzione simile a quella riservata dall’Istituto per le arti grafiche di Trento, di proprietà della congregazione dei Figli di Maria Immacolata, ma finanziata interamente dalla Provincia.

È normale trovare in ogni classe almeno un paio di ragazzi con handicap. «Il dualismo normalità-disabilità va superato», afferma il direttore Erik Gadoni: «Ognuno può portare un contributo al gruppo in cui è inserito». Ottimi i risultati anche sul fronte dell’autismo. Rudy è un ragazzo con la sindrome di Asperger: quando entrò la prima volta si nascondeva sotto il banco. Grazie un percorso ad hoc allargato alla famiglia e ai compagni, la sua capacità relazionale è migliorata.

E adesso Rudy ha lasciato Trento per iscriversi all’università. Una vita normale, dopo cinque anni e tanti investimenti per la sua educazione. A buon fine.

Ha collaborato Paolo Fantauzzi

Marijuana, una cura semplice ed efficace

  • Feb 03, 2015
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
  • Letto 6577 volte

L’Espresso
03 02 2015

Che la cannabis possedesse utili proprietà farmacologiche era noto da tempo alla comunità scientifica internazionale. Negli ultimi anni sempre di più sono i Paesi che, tramite leggi meno restrittive, hanno reso possibile l’accesso ai trattamenti terapeutici a base di farmaci derivati dai cannabinoidi, semplificando le procedure burocratiche per la loro prescrizione, finanche decriminalizzando il possesso di cannabis per uso personale e la sua coltivazione. Possono beneficiarne pazienti affetti da gravi patologie disabilitanti per controllare il dolore (sclerosi multipla, danni ai nervi, lesioni spinali, dolore neurogenico) e pazienti terminali affetti da cancro o Aids, per la stimolazione dell’appetito. Non trattandosi di una cura ma di un trattamento palliativo, spetta esclusivamente al medico valutare per quali patologie ed in quale momento della terapia il paziente possa trarrne un effettivo beneficio clinico.

I ministri Lorenzin e Pinotti hanno firmato il protocollo che dà il via libera alla coltivazione e lavorazione delle piante nello stabilimento chmico militare a scopo terapeutico. Costi ridotti e tempi più rapidi per i malati. E il governatore dà il via libera

Già dal 2007 è previsto in Italia l’uso terapeutico della cannabis. Ma dal 2014 un nuovo decreto legge ha reso l’accesso ai farmaci cannabinoidi più semplice, snellendo il lunghissimo iter burocratico. La prescrizione e somministrazione può essere fatta direttamente dai medici di base, con trattamento anche domiciliare. E i costi? Non sono a carico del paziente, ma del Sistema sanitario regionale. Grazie a una legge regionale adottata da Sicilia, Abruzzo, Puglia, Toscana, Liguria, Veneto, Lombardia e Piemonte che, a differenza del passato, il governo ha deciso di non ostacolare con l’intento specifico di tutelare il diritto alle cure per tutti i pazienti, pur ribadendo che vanno prescritti esclusivamente «quando altri farmaci disponibili si siano dimostrati inefficaci o inadeguati al bisogno terapeutico del paziente».

Per ridurre i costi legati all’importazione dei farmaci cannabinoidi è stato approvato un progetto pilota di produzione in Italia, presso lo Stabilimento farmaceutico militare toscano. I medicinali a base di cannabis come il Bedrocan, Bediol, Bedrobinol e Bedica, caratterizzati da differenti percentuali dei due principali principi farmacologicamente attivi della cannabis - il tetraidrocannabinolo (Thc) e il cannabidiolo (Cbd) - somministrabili mediante vaporizzazione o tisane, vengono al momento prodotti esclusivamente dall’olandese Bedrocan Bv, unica autorizzata alla produzione dal ministero della Salute olandese, che li esporta in altri paesi europei. Dai Paesi Bassi, dove il possesso e l’uso personale di cannabis, catalogata come droga leggera, è decriminalizzato, proviene anche la più lunga esperienza nel suo utilizzo medico. Dal 2003 le farmacie olandesi vendono medicinali a base di cannabis, prodotti secondo rigidi criteri internazionali di qualità.

La cannabis è coltivata in condizioni controllate, secondo le norme di buona pratica in agricoltura, e non contiene pesticidi, metalli pesanti, batteri, muffe o altri patogeni. Il suo impiego medico è tuttavia iniziato già a partire dagli anni settanta con modalità non controllate dal ministero della Salute, in quanto la cannabis ad uso ricreativo era già facilmente reperibile presso i coffee shops fin dal 1976. Recenti studi hanno dimostrato che la cannabis venduta presso i coffee shops non è di qualità farmaceutica, è spesso contaminata da patogeni e costituisce, pertanto, un serio rischio per la salute se impropriamente assunta per uso medico, specialmente in pazienti affetti da patologie croniche debilitanti, Aids o patologie tumorali, in cui le difese immunitarie sono seriamente compromesse.

Il Sativex, altro medicinale cannabinoide approvato in 17 paesi europei ed utilizzato in 9 di questi, tra cui l’Italia dal 2013, è una miscela in parti uguali di Thc e cannabidiolo in forma di spray orale ad un dosaggio standardizzato e riproducibile. Pur essendo stato sviluppato e prodotto dall’azienda britannica GW Pharmaceuticals, e sia disponibile per la prescrizione in alcune aree del paese, in Inghilterra l’uso medicinale della cannabis non è legale ed il Sativex viene raramente consigliato dai medici di base, in conformità ad una politica repressiva nei confronti della marijuana.

Differente la situazione in Germania dove, grazie ad una sentenza della Corte amministrativa federale, dal 2005 i farmaci cannabinoidi sono reperibili presso tutte le farmacie. A differenza dell’Italia, i pazienti tedeschi devono però provvedere ai costi di acquisto, per importi che possono raggiungere anche i 1000 euro al mese; situazione che sostanzialmente limita l’accesso al trattamento. Per garantire a tutti il diritto di accesso alle cure, tuttavia, la Corte Amministrativa di Colonia ha stabilito lo scorso anno che i pazienti non in grado di sostenere le spese per il trattamento medicinale con cannabis possono coltivare da soli le piantine di marijuana. Questo non significa una liberalizzazione della coltivazione della cannabis, che resta tuttora illegale.

Il maggiore processo di decriminalizzazione in questi anni è avvenuto in Spagna, dove la coltivazione per uso personale è legale sia per scopi ricreativi che medici. La Catalogna ha promosso programmi terapeutici a base di cannabis medicinale dal 2005 e sta mirando alla sua legalizzazione soprattutto allo scopo di tenere a freno il proliferare dei “cannabis clubs”, associazioni no profit per il consumo indoor che hanno reso negli ultimi tempi Barcellona la nuova Amsterdam per il turismo della droga.

Tra gli altri paesi europei anche la Francia, la Romania e la Repubblica Ceca hanno regolamentato con specifiche leggi l’uso terapeutico di questi farmaci. Le politiche volte a favorire la legalizzazione della cannabis medicinale hanno indubbi benefici non solo per i pazienti che hanno un accesso più libero ad un trattamento palliativo scientificamente provato, ma alla lunga avranno un risvolto positivo anche nella lotta al mercato nero delle droghe leggere.

Le criticità da tenere in considerazione rimangono, tuttavia, tante, soprattutto se si guarda all’esperienza americana dove la marjuana è stata legalizzata in 23 stati e nel distretto di Columbia per uso terapeutico o persino a scopo ricreativo (Washington, Colorado, Oregon e Alaska). Negli Usa infatti, l’uso a scopo terapeutico di preparazioni di cannabis ha creato un mercato senza freni incoraggiandone di fatto l’abuso. In Europa, invece, la politica della tolleranza adottata dai Paesi Bassi sembra non aver favorito, dagli anni Ottanta ad oggi, un aumento del consumo delle droghe leggere da parte dei giovani, consumo che resta notevolmente inferiore rispetto a quello di altri paesi europei, Italia inclusa. Qualunque sia il modello adottato, è comunque necessaria l’istituzione di un adeguato sistema di monitoraggio per la verifica dell’esatta applicazione delle norme di legge e per la registrazione delle eventuali criticità.

In Italia il via libera alla cannabis per uso medico non significa libera coltivazione né libero consumo attraverso il fumo di preparazioni vegetali. Sono invece disponibili per i pazienti, sulla base di un opportuno piano terapeutico redatto dal medico, specifiche formulazioni farmaceutiche ad un dosaggio standardizzato e riproducibile, che assicurano l’efficacia terapeutica e tutelano dal rischio di effetti collaterali, prevalentemente di tipo psicotico. L’assunzione degli stessi principi attivi attraverso il fumo determina invece l’assunzione di dosaggi non riproducibili né prevedibili, in quanto dipendenti da diverse variabili individuali ed ambientali e non comporta alcun vantaggio terapeutico, ma si associa anzi ad una progressiva perdita delle capacità cognitive e, negli adolescenti, ad un’aumentata predisposizione all’insorgenza di malattie psichiatriche anche molto gravi, quali la schizofrenia. Resta quindi fondamentale definire normative e limiti che consentano di mantenere ben distinto l’impiego medico dall’ abuso a scopo ricreativo.

Per chi, come noi, studia da anni l’efficacia terapeutica di farmaci basati su cannabinoidi ed endocannabinoidi in patologie neoplastiche, neurologiche, metaboliche e infiammatorie, le nuove legislazioni aprono la strada verso un enorme avanzamento delle conoscenze nel settore. Sebbene con il decreto legge del ministero della Salute la cannabis sia ritornata da pochi mesi “droga leggera”, non più equiparata cioè ad oppio e derivati (eroina), cocaina, amfetamine ed allucinogeni, in Italia la demonizzazione dei cannabinoidi, associati nel pensiero comune a sostanze stupefacenti, ha rafforzato pregiudizi e diffidenze, con enorme svantaggio per tutti coloro che potrebbero trarre un beneficio clinicamente dimostrabile. È imprescindibile che l’impiego della cannabis ad uso medico venga riconosciuto dall’opinione pubblica come uno strumento terapeutico efficace, sicuro, conveniente per il Sistema sanitario nazionale; un presidio in grado di garantire pari opportunità di cura per tutti i pazienti.

Maurizio Bifulco è presidente della Facoltà di Farmacia e Medicina dell’università di Salerno

l'Espresso
30 01 2015

Il 2013 considerato "annus horribilis" per le donne italiane: 179 omicidi rispetto ai 157 dell'anno precedente. Gli assassini sono sempre uomini vicinissimi alla vittima

Nel 2013 lo Stato ha speso 100 milioni di euro per le vittime di stalking, violenza sessuale e maltrattamenti familiari grazie alla legge 119/2013 che ha introdotto il gratuito patrocinio. Il Ministero della Giustizia, rispondendo ad un'interrogazione del Pd, ha rivelato che nel primo anno della sua applicazione le persone assistite sono state 129 mila a fronte di più di 150 mila richieste.

Dati che mostrano come, ad un'informazione sempre più attenta a queste tematiche non corrisponda un calo delle violenze.
Semmai il contrario. Pochi giorni fa, uno studio della Fondazione Polis sui bambini rimasti orfani in seguito a reati di femminicidio ha evidenziato che di fronte ad un calo generale degli omicidi dagli anni '80 ad oggi, non si è assistito ad un fenomeno simile tra le donne vittime di violenze domestiche. L'Eures ha contato le vittime del 2013, considerato "annus horribilis" per le donne italiane: 179 omicidi rispetto ai 157 dell'anno precedente. Gli assassini sono sempre uomini vicinissimi alla donna: mariti, compagni, ex, persino i padri. Il loro peggior nemico è il silenzio. Quel coraggio che manca di denunciare chi ancora viene considerato nella propria sfera affettiva.

Dallo Stato gli aiuti non mancano e dal 2011 il Governo mette ogni anno sul piatto centinaia di milioni per l'approvvigionamento del Piano nazionale contro la violenza di genere e lo stalking. Il Piano per il 2015 ancora non è stato adottato, ma la consigliera per per Pari Opportunità di Palazzo Chigi rassicura che saranno stanziati 10 milioni di euro per il 2014 e il 2015. Per il potenziamento dei centri anti violenza e delle case rifugio sono stati già stanziati 17 milioni per il 2013 e il 2014 ai quali si aggiungono 10 milioni per il 2015 e 10 per il 2016.

Non è tutto rosa e fiori però, soprattutto quando si arriva in Tribunale. Dove ai tempi lunghi della giustizia si affiancano anche quelli dell'amministrazione giudiziaria. Il ministro Orlando, su sollecitazione del capogruppo Pd in commissione Giustizia, Walter Verini, ha posto l'accento anche sulle lungaggini per la liquidazione delle parcelle dei difensori delle vittime che accedono al gratuito patrocinio. Ancora una volta è colpa "dell'insufficienza del personale amministrativo". Secondo i calcoli di Via Arenula mancherebbero su tutto il territorio nazionale 8600 unità alle 44.100 previste dalle piante organiche ministeriali (-19,67%).
A Roma le cose non vanno meglio. Scrive il Ministro: "Il Tribunale di Roma allo stato ha una dotazione organica di 1199 unità di personale amministrativo di cui 836 dipendenti presenti. Si tratta di dati che possono non coincidere con quelli attinenti alla effettiva presenza in servizio, poichè non tengono conto delle assenze temporanee più o meno lunghe".

"Con dati di questo tipo anche tutta la questione delle ferie dei Magistrati si inserisce in una riflessione più ampia che riguarda la macchina della giustizia. Carenze di organico, tempi processuali lunghi, il processo telematico partito solo nel settore civile. Sono tanti i temi sul piatto" dichiara a L'Espresso Walter Verini che insieme alla collega Fabrizia Giuliani ha firmato l'interrogazione sui fondi destinati alle vittime di violenza auspicando che si possano trovare le risorse per coprire tutte le richieste di gratuito patrocinio affinchè alle belle parole corrispondano i fatti.

Sara Dellabella

l'Espresso
22 01 2015

Sono stati riuniti per la prima volta in un libro, curato dal poeta e pittore Arturo Benvenuti, 250 disegni realizzati dai prigionieri dei lager del Reich. Con la prefazione, di cui vi offriamo un estratto, scritta nel 1981 da Primo Levi

"A misura che il passare degli anni ce ne allontana, e benché i decenni che sono seguiti non ci abbiano risparmiato violenze ed orrori, la storia dei Lager hitleriani si delinea sempre più come un unicum, un episodio esemplare a rovescio: l’Uomo, tu uomo, sei stato capace di far questo; la civiltà di cui ti vanti è una patina, una veste: viene un falso profeta, te la strappa di dosso, e tu nudo sei un mostro, il più crudele degli animali. Da allora, il nazionalsocialismo (a meno di poche voci deliranti che ne giustificano i crimini, o li negano, o addirittura li esaltano) vale come riferimento, come il nodo da evitarsi. Su di esso sono comparse innumerevoli opere di testimonianza e di interpretazione, ma mancava finora in Italia un libro come questo. Penso che, al di là della pura commemorazione, esso abbia un valore suo specifico: a descrivere quell’orrore, la parola risulta carente. Le immagini qui riprodotte non sono un equivalente o un surrogato: esse sostituiscono la parola con vantaggio, dicono quello che la parola non sa dire. Alcune hanno la forza immediata dell’arte, ma tutte hanno la forza cruda dell’occhio che ha visto e che trasmette la sua indignazione". (Primo Levi)

Così nel 1981 Primo Levi scriveva nella prefazione al lavoro di documentazione, scelta e ricerca portato avanti da Arturo Benvenuti sulle opere visive prodotte nell'orrore dei lager nazisti. A distanza di oltre trent'anni l'opera ha visto la luce e arriva in libreria, qualche giorno prima della giornata della Memoria e di un anniversario importante, quello dei settant'anni dalla liberazione di Auschwitz. Si intitola K.Z. Disegni degli internati nei campi di concentramento nazifascisti (edizioni BeccoGiallo ). Scorrendone le pagine si è presi da un senso di vertigine. E' vero ciò che scrive Levi, che il tratto di una matita o di una penna può "sostituire la parola con vantaggio". E a dirlo è lo scrittore che ha inventato con 'Se questo è un uomo' una lingua capace di raccontare i meccanismi della macchina dello sterminio. Dalle ombre e dai chiaroscuri di queste tavole, realizzate all'interno dei lager con mezzi di fortuna o, più di rado, subito dopo la fine della guerra, emergono potenti come fantasmi tragici uomini e donne senza nome e senza volto. Ridotti a figure, a emblema stesso del dolore. Fuggono dai cani e dalle percosse dei loro carcerieri, si accasciano gli uni sugli altri nelle baracche, emergono come corpi scheletrici, ormai indistinguibili gli uni dagli altri, dalle cataste di cadaveri agli angoli del campo.

Scrive Arturo Benvenuti, classe 1923, che il libro costituisce "un contributo alla giusta “rivolta” da parte di chi sente di non potersi rassegnare, nonostante tutto, ad una realtà mostruosa, terrificante". Un tentativo di resistenza senza "vuote parole, senza retorica. Così come senza parole e senza retorica hanno saputo resistere gli autori di queste immagini, tremende “testimonianze” di una immane tragedia. Atti di accusa, ma anche inequivocabili messaggi di ieri per l’oggi. Senza inutili discorsi. Non ce n’è davvero bisogno".

Di discorsi inutili non c'è bisogno. Ma di arte al servizio della memoria, che sia musica, letteratura o disegno, c'è ancora bisogno eccome.

K.Z. sarà presentato attraverso una serie di mostre nelle principali città italiane.
Qui le prime date confermate:
Dal 22/01 al 22/02 | Padova, Centro Culturale San Gaetano
Dal 27/01 al 27/02 | Roma, Libreria Fandango. Inaugurazione ore 18.00

Lara Crinò

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