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26 08 2015
Il crollo delle Borse cinesi ha contagiato i principali mercati finanziari ma l’incendio è una finanza ipertrofica, autoreferenziale e intrinsecamente instabile. Se non si parte dall’ammettere questa evidenza, la bolla cinese sarà solo l’ennesimo – non certo l’ultimo – episodio di una lunghissima serie. Colpisce vedere come molti attribuiscano la responsabilità del panico che s’è diffuso all’incapacità del governo cinese di porre un freno al crollo delle Borse. Chi invoca l’efficienza del libero mercato finché le cose vanno bene, si trova spesso in prima fila a implorare il sostegno pubblico quando il giocattolo si rompe.
Una crisi che nasce da una guerra monetaria, in cui ogni Paese svaluta nel tentativo di aumentare l’export per migliorare il proprio bilancio pubblico; una conseguente guerra commerciale e una concorrenza esasperata tra nazioni per esportare più del vicino; un inevitabile rallentamento del gigante asiatico, dopo anni di crescita in doppia cifra. Sono diverse le spiegazioni che si leggono negli ultimi giorni, dopo il crollo delle Borse cinesi e il conseguente contagio ai principali mercati finanziari. Diverse spiegazioni che contengono sicuramente elementi di verità, ma che trascurano probabilmente l’aspetto determinante. Le Borse cinesi venivano da tre anni consecutivi di rialzi praticamente senza interruzione. Più che rialzi, anni di esplosione irrefrenabile. Per quella di Shenzen parliamo di circa + 150% in 12 mesi, poco meno per quella di Shanghai.
Era davvero così imprevedibile pensare che un tale aumento fosse insostenibile, che si trattasse di una bolla? E’ davvero possibile oggi sorprendersi per un repentino crollo di fronte all’ennesima, evidente manifestazione del (mal)funzionamento della finanza? E’ possibile imputare tale scoppio a una crescita che potrebbe fermarsi al 6 o 7% del PIL invece dell’8% previsto? Il problema è in un 1% in meno di PIL o nel 150% in più di valore degli attivi finanziari?
Per capire cosa stia succedendo in Cina, si può tornare indietro di qualche anno. Il Paese ha intrapreso una profonda trasformazione della propria economia, cercando di passare dall’essere la “fabbrica del mondo” con una produzione prevalentemente orientata all’export, a un sistema maggiormente rivolto ai consumi e alla domanda interna. Una trasformazione che ha subito una forte accelerazione dopo lo scoppio della bolla dei subprime nel 2007, quando le esportazioni hanno subito un brusco rallentamento a seguito della crisi delle principali potenze occidentali.
epa00181839 Chinese workers assemble televisions at a factory of leading electronics producer Hisense, in Guiyang, southwest China's Guizhou Province, Thursday, 29 April 2004. This month the U.S. Department of Commerce slapped hefty anti-dumping duties against several Chinese color-television producers such as Hisense. The duties will not be finalized until late May when the US rules on whether their tv industry has really been hurt by the imports. Hisense has reacted by increasing production of digital tv products. Several Chinese tv producers have said they will file a court case with the US Court of International Trade if the duties are finalized. EPA/MICHAEL REYNOLDS
Per rilanciare la domanda interna il governo ha messo in piedi enormi investimenti in infrastrutture, mentre in parallelo si assiste a un aumento degli stipendi e quindi del potere d’acquisto. Prima ancora, però, è stato chiuso un occhio – se non incentivato – il ricorso all’indebitamento da parte dei privati. Sia quello bancario, sia soprattutto tramite canali informali e paralleli, una sorta di sistema finanziario ombra fatto di prestiti personali, di società più o meno autorizzate dai trust ai fondi strutturati ai più diversi canali. La speranza era di sostenere la crescita tramite una domanda interna fondata sull’indebitamento.
Il problema di fondo è però che sempre più persone sono ricorse a tali strumenti non per finanziare i propri consumi o l’acquisto della casa, ma per acquistare azioni e titoli finanziari, attratte dagli aumenti degli indici di Borsa. L’arrivo massiccio di capitali spingeva al rialzo i titoli, il che attirava nuovi investitori, spingendo ulteriormente al rialzo i titoli, in una spirale che si auto-alimenta. Un numero incredibile di persone si sono lanciate in questa apparente corsa all’oro. Secondo un articolo di luglio del New York Times, c’erano 112 milioni di conti aperti alla Borsa di Shanghai e 142 a quella di Shenzen. Circa 20 milioni di nuove posizioni sono state aperte nella sola primavera del 2015. In massima parte, parliamo di piccoli risparmiatori totalmente a digiuno di finanza, e che si sono lanciati non solo impiegando i propri risparmi, ma spesso indebitandosi.
Capitali a cui si sono sommati quelli in arrivo dall’Europa, dagli USA e dagli investitori di tutto il mondo, attratti dall’Eldorado delle Borse cinesi a fronte di un ristagno dell’economia in patria. In altre parole, l‘ennesima bolla che testimonia l’intrinseca instabilità della finanza. Alla base della teoria dei mercati efficienti che domina l’attuale visione economica, c’è il fatto che domanda e offerta formano il prezzo, e il libero mercato ha quindi un meccanismo per l’appunto incredibilmente efficiente di auto-regolamentazione: se aumenta la domanda di un prodotto tende ad aumentare il prezzo, ma questo porta a una diminuzione della domanda, e quindi a un nuovo equilibrio. Peccato che il mercato più centrale e importante del capitalismo moderno, il mercato dei soldi, ovvero la finanza, funzioni in maniera diametralmente opposta: la domanda di un titolo ne fa salire il prezzo, e questo, all’opposto della teoria dei mercati efficienti, porta a un ulteriore aumento della domanda, il che spinge al rialzo il prezzo, e così via, fino all’inevitabile formazione di una bolla.
All’inizio dell’estate gran parte delle quotazioni azionarie era al di fuori di qualsiasi fondamentale economico. Uno dei principali indicatori del valore di un’azione è il rapporto P/E (Price / Earnings). Semplificando, il rapporto tra la quotazione di un titolo e gli utili che genera. Si stima solitamente che un valore “corretto” del P/E sia intorno a 15 (chiaramente il dato dipende da diversi fattori). A fine giugno il valore medio a Wall Street era 21,2, quello sulle Borse cinesi un incredibile 85. Eppure sempre più persone continuavano a comprare, fino a che la bolla, come sempre avviene, non è scoppiata.
Ci si può adesso interrogare sui motivi, ma probabilmente poco importa sapere quale sia stato il classico battito d’ali di farfalla che ha scatenato la tempesta, se una mossa sbagliata di una banca centrale, una stima leggermente rivista al ribasso di crescita del PIL o altro. Semmai nel dibattito attuale colpisce vedere come molti riescano a dare le responsabilità del panico che ha colpito i mercati di tutto il mondo all’incapacità del governo cinese di porre un freno al crollo delle Borse. Spesso gli stessi che invocano l’efficienza del libero mercato finché le cose vanno bene sono poi in prima fila per implorare il sostegno pubblico quando il giocattolo si rompe.
Difficile invocare l’aiuto del pubblico solo per raccogliere i cocci. Difficile imputare la situazione attuale a questioni monetarie o commerciali, che sono al più la scintilla che ha scatenato l’incendio. L’incendio, per l’ennesima volta, è una finanza ipertrofica, autoreferenziale e intrinsecamente instabile. Ma se non si parte da questa evidenza, la bolla cinese sarà unicamente l’ennesimo – ma non l’ultimo – episodio di una lunghissima serie.
Il Corriere Della Sera
24 08 2015
La fine dell’estate ha portato nuova volatilità sui mercati generata, sembra, da una parziale liberalizzazione del tasso di cambio in Cina, a sua volta indice di un rallentamento della crescita della sua economia. La domanda chiave di fine estate è se questa volatilità sia un fenomeno passeggero, legato in modo specifico alle vulnerabilità dei Paesi emergenti, o piuttosto riveli una incertezza piu radicata sulle prospettive dell’economia globale, Europa e Stati Uniti inclusi. La seconda ipotesi prende corpo da molte osservazioni.
La prima è che la ripresa Usa è meno solida di quanto non ci si aspettasse. Le previsioni di molti, incluse quelle di metà anno del congressional budget office , danno per il 2015 un tasso di crescita del Prodotto interno lordo del 2%, un punto in meno di quanto si ipotizzava a febbraio, e l’inflazione allo 0,2%, contro l’1,4% previsto sempre a febbraio. A questo si accompagna un prolungato rallentamento della produttività sia negli Stati Uniti che negli altri Paesi avanzati.
È difficile interpretare il significato di questi dati e anche la Federal Reserve sembra essere incerta nella lettura. Perché l’inflazione non riprende? Perché la produttività rallenta? È questo un fenomeno ciclico o indica invece un rallentamento di tendenza che si prolungherà nel futuro? Come si concilia questo rallentamento con la vivacità dell’innovazione tecnologica?
Dati deludenti, nonostante l’intervento massiccio delle Banche centrali, arrivano anche dal Giappone e dall’area dell’euro. L a Gran Bretagna va meglio ma anche qui, come negli Usa, una visione ottimista della ripresa è contraddetta dalla bassa produttività e da un’inflazione che continua ad essere vicina allo zero. Per questa ragione la Banca d’Inghilterra ha deciso che per ora non alzerà i tassi di interesse. Non è quindi da escludere che la volatilità di questi giorni indichi un’incertezza generale sull’economia globale che non è solo legata alla questione cinese.
Le previsioni dei mercati rivelano una grande diversità nelle opinioni dovuta, io penso, alla difficoltà di interpretare i dati e di capire l’entità del rischio che gli Stati Uniti entrino in una nuova recessione. L’economia Usa continua ad essere il motore dell’economia mondiale e fino a poco fa si pensava che la sua forza ci avrebbe difeso dai rischi provenienti dai Paesi emergenti. Ma se il gigante americano dovesse entrare in recessione quando gran parte del resto del mondo o è ancora debole, come nel caso dei Paesi avanzati, o è in deciso rallentamento, come in molti Paesi emergenti, ci si ritroverebbe ancora una volta, dopo il 2008, di fronte a una crisi globale. Questo avverrebbe inoltre in una situazione in cui i tassi di interesse in molti Paesi, inclusi area euro, Giappone, Stati Uniti, sono a zero o vicino allo zero. Il che costituisce un vincolo per la politica monetaria e costringerebbe le Banche centrali a estendere gli acquisti di titoli pubblici e privati o a introdurre tassi negativi, politiche i cui effetti sono molto incerti e che potrebbero comportare rischi per la stabilità finanziaria.
In una situazione di questo tipo dovrebbe essere prioritario affrontare i grandi temi della crescita, capire gli effetti dell’innovazione sulla distribuzione del reddito, pensare a politiche innovative, appropriate alle grandi trasformazioni dell’economia globale. È successo negli anni Trenta. Dopo la crisi del 2008, invece, l’iniziativa è stata lasciata quasi esclusivamente alle Banche centrali. La loro azione ha certamente evitato il peggio, ma ora non basta più. In assenza di politiche economiche di altro tipo non è difficile prevedere che i Paesi ricorreranno ad una guerra del cambio e a politiche protezionistiche. D’altro canto queste ultime sono sempre più presenti nei programmi elettorali di partiti politici di ogni colore e, per ragioni comprensibili, raccolgono crescenti consensi da parte dei cittadini sia in Europa che negli Usa.
Mai come oggi ci sarebbe bisogno di una rinascita politica e intellettuale che sappia affrontare i grandi temi, nazionali e globali, con una risposta adeguata, combattendo la frammentazione delle nostre società.