Le persone e la dignità
29 07 2015
Da alcune settimane è on line “Piattaforma Gaza”, uno strumento d’indagine elaborato da Amnesty International e Architettura legale per evidenziare le caratteristiche comuni degli attacchi condotti da Israele nel luglio e nell’agosto 2014 durante il conflitto di Gaza.
“Piattaforma Gaza” consente all’utente di esplorare e analizzare i dati relativi a oltre 2500 attacchi compiuti dall’esercito israeliano nel corso dei 50 giorni dell’operazione “Margine di protezione”.
L’iniziativa fa parte delle ricerche condotte da Amnesty International sul conflitto dello scorso anno. Nell’ambito di tali ricerche, è stato pubblicato anche un rapporto sugli attacchi compiuti da Hamas e altri gruppi armati palestinesi contro il sud d’Israele.
Attraverso la sua mappa interattiva, la “Piattaforma Gaza” segnala tempo e luogo di ogni singolo attacco e lo classifica in base a una serie di criteri, tra cui il tipo di attacco, il sito colpito e il numero delle vittime, in modo da individuarne le caratteristiche comuni. Ove disponibili, sono pubblicate immagini fotografiche e satellitari, video e testimonianze oculari.
“Piattaforma Gaza” mostra che durante il conflitto del 2014 Israele ha condotto oltre 270 attacchi con colpi di artiglieria, in cui sono rimasti uccisi oltre 320 civili. Il ripetuto uso dell’artiglieria, un’arma esplosiva imprecisa, contro aree densamente abitate, costituisce un attacco indiscriminato che dovrebbe essere indagato come crimine di guerra.
Inoltre, la “Piattaforma Gaza” illustra chiaramente una predominante costante di attacchi contro abitazioni private, oltre 1200, che hanno causato più di 1100 morti tra la popolazione civile.
Gli utenti possono poi notare ulteriori preoccupanti caratteristiche comuni, come gli attacchi contro i primi soccorritori, gli operatori sanitari e le strutture mediche, così come l’uso massiccio degli attacchi di avvertimento chiamati “bussare sul tetto”, in cui un missile lanciato da un drone è seguito poco dopo da un più ampio bombardamento. Amnesty International ritiene che questa tattica non costituisca un preavviso efficace e non assolva Israele dal chiaro obbligo di non lanciare attacchi contro i civili o le proprietà civili.
Oggi, “Piattaforma Gaza” ricostruisce gli attacchi portati dall’esercito israeliano contro la città di Rafah dal 1° agosto in applicazione del protocollo “Hannibal”, seguita alla cattura del luogotenente Hadar Goldin da parte di un gruppo armato di Gaza.
Il protocollo “Hannibal” autorizza le forze israeliane a reagire alla cattura di un soldato con un ampio volume di fuoco nonostante i rischi per la vita dello stesso soldato e dei civili che si trovino in prossimità del luogo in cui si ritiene sia tenuto prigioniero.
Quel 1° agosto, proprio mentre molta gente faceva rientro a casa, ritenendosi al sicuro dopo la proclamazione di un cessate-il-fuoco, Israele diede vita a massicci e prolungati bombardamenti, colpendo strade affollate, automobili ed edifici civili. Un edificio a un piano nel quartiere di al-Tannur venne centrato da due bombe da una tonnellata.
Quel giorno viene da allora chiamato il “venerdì nero” di Rafah.
Gli attacchi proseguirono fino al 4 agosto, nonostante il luogotenente Goldin fosse stato dichiarato morto due giorni prima. In totale, furono uccisi 135 civili palestinesi, tra cui 75 bambini.
Il Manifesto
24 03 2015
Benyanim Netanyahu pressato dal capo dello stato Rivlin è stato costretto a scusarsi con i cittadini arabi per il suo appello, nel giorno delle elezioni, agli ebrei ad accorrere alle urne per bilanciare il voto massiccio nelle località arabe. Compiuto il sacrificio, il premier ora si appresta a formare il suo governo con gli ultranazionalisti e i religiosi. Ha quattro settimane a disposizione. L’unica vera difficoltà che deve affrontare sono gli appetiti dei suoi partner della coalizione che reclamano ministeri importanti, a cominciare da quello dell’edilizia, “centro di comando” della colonizzazione. Proprio i coloni israeliani, entusiasti per l’esito del voto e caricati dalle promesse del primo ministro, vanno avanti con i loro progetti. Ovunque, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Una attività intensa, che non conosce soste. Ne sa qualcosa Mustafa Sob Laban, 65 anni, pensionato. «Viviamo nella paura, ci aspettiamo che da un momento all’altro arrivino quelli di Ataret Cohanim (una organizzazione di coloni israeliani che opera nella città vecchia di Gerusalemme, ndr) assieme alla polizia e ci buttino fuori dalla casa dove la nostra famiglia vive dal 1953», ci dice accogliendoci nei pochi metri quadrati dove vivono in otto. Lui e la moglie Noura, Rafat il figlio più giovane, Ahmad il figlio sposato con sua moglie e tre bimbi. «Il più piccolo ha 3 anni, il più grande 9 e si chiama Mustafa, come me. Ora sono fuori casa, chi all’asilo e chi a scuola», ci racconta con in volto l’espressione felice di tutti i nonni quando parlano dei nipotini. Il 31 maggio l’Alta Corte di Giustizia israeliana esaminerà il ricorso contro l’espulsione presentato dalla famiglia palestinese. Mustafa, moglie e figli non si fanno tante illusioni, rischiano di ritrovarsi senza un tetto e di dover lasciare la casa dove pensavano di rimanere fino alla fine dei loro giorni. Domenica scorsa centinaia di palestinesi e attivisti stranieri e alcuni israeliani, hanno manifestato davanti alla casa minacciata di occupazione al grido di “Basta discriminazioni, no ai coloni”, “Proteggiamo la famiglia Sob Laban”. Mustafa ha capito di non essere solo.
La casa dei Sob Laban è in Aqbat al Khaldiyya, nel cuore del quartiere musulmano della città vecchia di Gerusalemme. È a pochi metri da Suq al Qattanin, uno degli ingressi più spettacolari sulla Spianata della moschea di al Aqsa. E dal terrazzino di casa Sob Laban la cupola dorata della moschea della Roccia è incredibilmente vicina, una illusione ottica la fa apparire a portata di mano. Accanto all’abitazione sventola una bandiera israeliana, che segna la presenza di un istituto religioso nazionalista. La differenza di ampiezza degli ingressi dei due edifici simboleggia i rapporti di forza. Ampio e restaurato quello israeliano, un portoncino di colore verde sbiadito quello della famiglia palestinese. Quelli di Ataret Cohanim dal loro stabile, occupato tanti anni fa, si sono già spostati in quello accanto. Dal porticino malandato si accede subito a due appartamenti dove ora vivono i coloni. I Sob Laban sono qualche gradino più in alto e resistono, da decenni. «È una storia lunga – spiega Musfafa –, questa casa è affittata dal 1953. A quel tempo i nostri genitori pagavano l’affitto alle autorità giordane (che hanno occupato Gerusalemme Est dal 1948 al 1967, ndr), e quando sono arrivati gli israeliani hanno continuato a versarlo alle nuove autorità. Tutti i mesi, regolarmente». Nel 1984 un giudice israeliano ordina ai Sob Laban di lasciare la casa, perchè pericolante. «I lavori di ristrutturazione sono andati avanti per cinque anni e quando siamo tornati abbiamo trovato l’ingresso della nostra casa sbarrato dai coloni – continua Mustafa –, dopo un’altra lunga battaglia legale, nel 2001 una corte israeliana ha sentenziato il nostro diritto ad aprire un nuovo ingresso. Purtroppo la vicenda non si è fermata quell’anno e nel 2010 quelli di Ataret Cohanim ci hanno intimato di lasciare la casa. Infine lo scorso 14 settembre ci è stato consegnato un ordine di sgombero del tribunale di Gerusalemme che, sostenendo una nostra presunta morosità, ha dato ai coloni il diritto di occupare casa nostra. Ma noi abbiamo sempre versato l’affitto e anche l’arnona (simile all’italiana IMU)». I coloni da parte loro sostengono che la casa apparteneva, prima del 1948, ad una famiglia ebrea e che i Sob Laban non avrebbero versato sempre l’affitto. «Sono pretesti – dice Mustafa -, usati dai coloni per toglierci la casa. E la legge israeliana fa il loro gioco».
Questa non è una storia di proprietà contese, di inquilini morosi e di carte bollate. Questa è la battaglia per Gerusalemme, che ogni giorno oppone i coloni israeliani, vogliosi di «redimere» la zona araba occupata nel 1967, e i palestinesi che si oppongono come possono ad una costante azione di penetrazione, non solo nella città vecchia. Ai piedi della mure antiche, a Silwan, altre cinque famiglie palestinesi hanno ricevuto nei giorni scorsi un ordine di demolizione. Le loro case sono abusive, dicono le autorità comunali israeliane. I coloni che agiscono contro le leggi e le risoluzioni internazionali invece sono “in regola” e in attesa del nuovo governo amico scavano, costruiscono, occupano.
L’Espresso
25 02 2015
L’ennesimo fotogramma dell’orrore risale all’altroieri. I jihadisti dello Stato Islamico, a bordo di una quarantina di pick up, attaccano interi villaggi cristiani assiri sul fiume Khabur, sulle colline del nord-est della Siria, a ridosso del confine con l’Iraq e la Turchia. Prendono in ostaggio la popolazione, danno alle fiamme alcune chiese, separano le donne e i bambini dagli uomini. Popolazioni civili sempre più costrette a vivere sotto il controllo di brutali gruppi armati e sottoposte ad attacchi, persecuzioni e discriminazioni.
Lo dice a chiare lettere il Rapporto 2014-2015 di Amnesty International, pubblicato oggi in Italia da Castelvecchi: se i leader mondiali non agiranno con urgenza di fronte alla mutata natura dei conflitti, lo scenario rischia di aggravarsi nei prossimi due anni, segnato da crescenti violenze e atrocità ad opera di gruppi armati non statali, che superano i confini nazionali: Boko Haram, Stato Islamico, Al Shabaab. «Il 2014 è stato un anno catastrofico per milioni di persone intrappolate nella violenza. La risposta globale ai conflitti e alle violazioni commesse dagli stati e dai gruppi armati è stata vergognosa e inefficace», ha dichiarato Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia : «Di fronte all’aumento degli attacchi barbarici e della repressione, la comunità internazionale è rimasta assente».
A poche ore dall'ultimo attacco in Siria nei pressi di Tell Tamer, non lontano da Al-Hasakah, con una chiesa bruciata e centinaia di caldei presi in ostaggio, le testimonianze raccolte nel video reportage dell’Espresso solo qualche mese fa sembrano profetiche. «Quelli dell'Isis sono peggio degli animali, il loro progetto per i cristiani è quello di ucciderli, convertirli o buttarli fuori dal paese». A parlare sono uomini e donne iracheni: medici, ingegneri, professori; tutti cristiani e in fuga dagli orrori compiuti dalle milizie dello Stato Islamico. L’Espresso ha raccolto le loro testimonianze in un reportage girato tra l'Iraq e la Giordania e realizzato in collaborazione con l'UNHCR.«I politici mondiali dormono e fingono di non vedere quello che sta succedendo qui», racconta all'Espresso Hassan, un professore che ha trovato rifugio in una chiesa armeno-cattolica ad Amman. «Se torniamo nelle nostre case, ci taglieranno la testa, cosa possiamo fare? Vi prego portate la nostra storia in tutto il mondo»di Duccio Giordano
Nel 2014 i gruppi armati hanno commesso abusi di diritti umani in almeno 35 Paesi, più di un quinto di quelli su cui Amnesty International ha svolto ricerche. «I governi devono finirla di affermare che la protezione dei civili è al di là dei loro poteri, e devono invece contribuire a porre fine alla sofferenza di milioni di persone», prosegue Marchesi.
NO AL DIRITTO DI VETO IN CASO DI GENOCIDIO
La gravità della situazione sta nei numeri snocciolati nel Rapporto, il frutto della ricerca sulle violazioni dei diritti umani condotta in 160 paesi: 18 Paesi in cui sono stati commessi crimini di guerra, oltre 4 milioni i rifugiati fuggiti dal conflitto in Siria, oltre 3.400 i rifugiati e i migranti annegati nel Mar Mediterraneo mentre tentavano di raggiungere l’Europa, 119 i paesi nei quali i governi hanno arbitrariamente limitato la libertà di espressione, tre paesi su quattro tra quelli esaminati da Amnesty International. Oltre ai governi nazionali, secondo l’organizzazione non governativa ancora una volta il grande assente è l’Onu, che non ha agito di fronte alle crisi in Iraq, Siria, Gaza, Israele e Ucraina. Adesso Amnesty chiede ai cinque stati membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di rinunciare al loro diritto di veto nei casi di genocidio o di altre atrocità di massa. «Potrebbe essere una svolta per la comunità internazionale e uno strumento per difendere le vite umane. Così facendo, i cinque stati membri permanenti invierebbero un segnale potente che il mondo non resterà a guardare passivamente di fronte alle atrocità di massa», prosegue Marchesi.
ARSENALI PRONTI ALL’USO PER L’IS
La disponibilità di armi in grandi quantità è uno degli aspetti cruciali del nuovo contesto internazionale. La scorsa vigilia di Natale, dopo una campagna durata oltre 20 anni, è entrato in vigore il Trattato globale sul commercio di armi, che ha l’obiettivo di limitare i trasferimenti internazionali di armi e munizioni. Se applicato, contribuirà a salvare migliaia di vite umane. Finora è stato sottoscritto da 130 Paesi e ratificato da 62. Amnesty International chiede a tutti gli Stati - compresi Stati Uniti, Cina, Canada, India, Israele e Russia - di ratificare il trattato. «Nel 2014, enormi forniture di armi sono state inviate a Iraq, Israele, Sud Sudan e Siria, nonostante la probabilità assai elevata che sarebbero state usate contro i civili intrappolati nei conflitti», aggiunge il presidente di Amnesty International Italia: «Quando lo Stato Islamico ha conquistato ampie parti dell’Iraq, ha trovato grandi arsenali pronti all’uso. L’irresponsabile flusso di armi verso chi viola i diritti umani deve cessare subito».
La risposta che alcuni governi hanno dato all’emergenza terrorismo, sottolinea il rapporto, non fanno altro che peggiorare la situazione, violando i diritti umani fondamentali in nome della sicurezza. Ad esempio, in Nigeria, dove la popolazione è già terrorizzata dalle atrocità commesse da Boko Haram, sono stati rilevati numerosi episodi di violenza da parte delle forze di sicurezza, uccisioni extragiudiziali, arresti arbitrari di massa e torture; in Pakistan le autorità hanno annullato la moratoria sulle esecuzioni capitali e hanno cominciato a mettere a morte i prigionieri condannati per reati di terrorismo; in Turchia, la legislazione antiterrorismo ha continuato a essere usata per per criminalizzare e limitare la libertà di espressione. «Sappiamo che le reazioni impulsive non funzionano. Al contrario, creano un ambiente repressivo nel quale l’estremismo può crescere», conclude Marchesi.
L’ITALIA E L’EMERGENZA SBARCHI. In questo contesto, l’Italia affacciata sul Mediterraneo riveste un ruolo di primo piano. Mentre la crisi libica peggiora l’emergenza degli sbarchi di migranti: 3.500 persone solo a gennaio, oltre il 60 per cento in più rispetto agli sbarchi del gennaio 2014. Nel capitolo riservato al nostro Paese, il Rapporto 2014-2015 di Amnesty International punta il dito contro le politiche del governo Renzi. «Dopo aver salvato oltre 150 mila rifugiati e migranti che cercavano di raggiungere l’Italia dal Nord Africa su imbarcazioni inadatte alla navigazione, a fine ottobre l’Italia ha deciso di chiudere l’operazione Mare nostrum», afferma Gianni Ruffini, direttore generale di Amnesty International Italia: «Avevamo chiesto al governo di non sospendere Mare nostrum fino a quando non fosse stata posta in essere un’operazione analogamente efficace, in termini di ricerca e soccorso in mare. Le nostre richieste non sono state ascoltate, con le conseguenze ampiamente previste di nuove, tragiche morti in mare, nonostante il pieno dispiegamento dei mezzi e l’impegno della Guardia costiera italiana, lasciata praticamente sola dalla comunità internazionale».
Lavoroculturale
12 03 2014
Pubblichiamo un’intervista con Judith Butler sul conflitto israelo-palestinese e sul suo ultimo lavoro Parting Ways: Jewishness and the Critique of Zionism (trad. it. Strade che divergono. Ebraicità e critica del sionismo, Raffaello Cortina 2013) apparsa su www.opendemocracy.net il 23 luglio 2013. La traduzione è a cura di Nicola Perugini e Federico Zappino.
Ormai Judith Butler si è abituata a ricevere le accuse più improbabili. Di recente è stata definita un’idiota utile alla causa dell’antisemitismo, una sostenitrice del terrorismo internazionale e – classico sempre attuale – un’ebrea che odia se stessa.
È tuttavia insolito che una filosofa poststrutturalista possa essere la destinataria di accuse di questo tipo. Lo è meno, però, se si considera la speciale reputazione che Butler, che insegna Letteratura e Teoria critica presso il Dipartimento di Letterature comparate dell’Università della California, a Berkeley, si è guadagnata negli anni. I suoi lavori sui conflitti, sul genere e sullo Stato-nazione hanno infatti radicalmente trasformato il modo in cui pensiamo la società.
A differenza di altri filosofi, inoltre, lei prende parola pubblicamente a partire dalla sua posizione di ebrea antisionista. Ogni gesto pubblico di Butler, pertanto, viene reso oggetto di controllo e, spesso, di censura. La conferenza che ha tenuto nel febbraio del 2013 al Brooklyn College sul BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzione), ad esempio, è stata accolta in modo piuttosto imprevisto. Lo stress che l’ha colpita in seguito all’avvenimento l’ha portata addirittura ad annullare tutte le altre conferenze in programma per il resto della stagione.
Il suo ultimo lavoro dal titolo Strade che divergono. Ebraicità e critica del sionismo costituisce dunque la replica a quanti vorrebbero collocare l’antisionismo al di fuori dei confini in cui il discorso pubblico ebraico è invece reso accettabile. A fronte del tentativo del Segretario di Stato americano John Kerry di rilanciare la soluzione dei due Stati in Israele/Palestina, Strade che divergono analizza criticamente tutte le soluzioni attualmente in discussione. Sfidando la povertà concettuale delle soluzioni più in voga, la proposta di Butler consiste in un sistema etico fondato su un modello di relazione con l’alterità che l’autrice considera alla base dell’essere ebrei.
Sostenitrice del binazionalismo, Butler suggerisce che il passaggio dalla “segregazione” alla “coabitazione” – passaggio pur tuttavia ambiguo o comunque problematico – costituisca una soluzione preferibile, da un punto di vista etico, rispetto a quella dei due Stati. Butler definisce questa proposta nei termini di una trasformazione radicale che dalle strutture sociali arriva al sé e viceversa: ogni coabitazione vera e propria, d’altronde, richiede una trasformazione sociale e individuale del modo di trattare chi occupa posizioni marginali.
Ma, si badi bene, non si tratta di una soluzione romantica. “Quanti si aspettano che dall’inimicizia possa all’improvviso nascere l’amore, probabilmente, si sbagliano”, dice Judith Butler, aggiungendo: “la coabitazione può essere infelice, miserabile, ambivalente. Può anche essere piena di antagonismo, ma può avere luogo nell’arena politica senza il ricorso all’espulsione o al genocidio. Questo è il nostro dovere”.
Quando ci incontriamo, Butler sembra affaticata. La posizione che sostiene, d’altronde, non è semplice, ed è suscettibile di intenzionali travisamenti. La professoressa che si definisce “una intellettuale cosciente di sé, che se ne sta in disparte” ha ora deciso di entrare a gamba tesa nel dibattito politico di uno dei conflitti più aspri del nostro tempo.
strade che divergonoOpen Democracy: Nell’Introduzione di Strade che divergono accenni alla tua storia personale e al lutto che ha colpito la tua famiglia sotto il regime nazista, e scrivi anche che potrebbe essere qualcosa di interessante da esplorare, ma che non sia quella la sede più appropriata. Perché no?
Judith Butler: Questo è un bel problema. Io non ho un cognome ebraico, ma ciò è da imputare principalmente a tutte le peripezie che possono accadere durante l’emigrazione. La famiglia di mia madre venne sterminata in Ungheria, nei primi anni Quaranta, e io sono cresciuta con questa consapevolezza, ma anche con un senso decisamente troppo pesante del trauma che ha colpito la mia famiglia.
Da un lato, di conseguenza, potrei dire che questa cosa mi conferisca credibilità: chiunque direbbe “oh, lei può parlare perché è un’ebrea, è stata allevata come un’ebrea, fa parte della seconda generazione di ebrei sopravvissuti all’Olocausto”. Ma avrei il diritto di rivendicare questa posizione? Mi conferirebbe davvero una maggiore legittimazione? Posizione nei riguardi della quale, peraltro, nutro ancora una forma di rabbia. Dunque perché dovrei farlo? Non mi va di vendermi in questo modo. Vorrei che le mie argomentazioni fossero buone argomentazioni sulla base di ciò che attualmente ho da dire.
Pertanto, la mia posizione è quella di un’ebrea che non vuole essere rappresentata dallo Stato di Israele, il quale invece sostiene di rappresentare tutti gli ebrei, né essere sua potenziale cittadina. D’altronde sono convinta che Israele non mi conferirebbe oggi alcuna forma di cittadinanza.
OD: Forse dietro conversione?
JB: Sì, forse dietro una buona narrazione della conversione… ma, ad ogni modo, non sfrutterò quella strada. Mi piacerebbe percorrerla, ma non sfruttarla. Anche se non la percorressi del tutto, d’altra parte, sarebbe un problema. Penso che i lettori vogliano sapere chi sono e da dove vengo.
Spesso, quando si incorre nella domanda “sei sionista?”, la risposta “no” è vista come un malcelato desiderio di distruzione dello Stato di Israele o come un tuo coinvolgimento diretto in potenziali o reali attacchi diretti a Israele. Alla stessa domanda, dunque, mi sento di rispondere: “non su queste basi”.
Io nasco come sionista, ma solo perché non possiamo scegliere le nostre origini. Il sionismo era nell’aria, nella mia famiglia, ma per quanto mi riguarda ho rotto con esso non appena sono stata in grado di porre domande a riguardo. E ciò non significa che io desideri la distruzione di un popolo: significa, piuttosto, che desidero uno Stato le cui strutture incarnino in maniera decisamente più sostanziale i principi basilari della democrazia.
OD: Perché il tema della coabitazione è così importante nel libro?
JB: Alcuni politici israeliani hanno proposto di trasferire i palestinesi fuori dall’attuale Israele, o nei territori occupati [da Israele: Cisgiordania e Gaza ndr], o in Giordania, o in altri paesi arabi. L’idea è che in questo modo non ci sarà alcun mescolamento tra palestinesi ed ebrei israeliani, o tra palestinesi e comunità ebraiche.
Ma trovo indegna l’idea di una segregazione. E allo stesso modo, se guardi a parte del linguaggio nei documenti fondativi di Hamas, c’è quel famoso appello a gettare gli israeliani nel mare. È anche vero che la maggior parte dei politici palestinesi dicono che ovviamente non è questo ciò che vogliono, e anche dentro lo stesso Hamas c’è un dibattito aperto a proposito di quell’appello, ma fino a che l’appello non verrà rimosso la sua nocività resterà.
Dunque sto cercando di pensare a cosa succederebbe se togliessimo di mezzo, per tutti, l’espulsione dalla discussione, e pensassimo invece ai diritti di chi è già stato espulso. Cosa succederebbe se pensassimo insieme, dentro lo stesso ragionamento, ai diritti dei rifugiati che sono venuti in Israele dopo la Seconda Guerra Mondiale, dei rifugiati provenienti da altri paesi, e dei rifugiati palestinesi che sono stati spossessati delle loro terre e case?
Abbiamo bisogno di una comprensione giuridica e politica dei diritti del rifugiato in cui la soluzione per un gruppo di rifugiati non produca una nuova classe di rifugiati –non si può risolvere un problema di rifugiati creando un problema nuovo, potenzialmente ancora più grande. Se questa norma, che a me sembra particolarmente logica e chiara, diventasse una norma di base, allora vi sarebbe un punto di partenza da cui iniziare a pensare la coabitazione.
È stato Edward Said a pensare che se vi è una speranza nel binazionalismo, questa consiste nel fatto che, nonostante la storia di privazioni ed esilio degli ebrei sia diversa dalla storia di privazioni ed esilio dei palestinesi, entrambe traducono esperienze scottanti e recenti che potrebbero consentire loro di giungere a una comprensione comune dei diritti del rifugiato e di ciò che potrebbe significare vivere insieme, a partire da storie così simili.
OD: Nel mezzo di questa discussione sulla coabitazione dici: “Certamente il binazionalismo non significa amore, ma in esso vi è, potremmo dire, un elemento necessario e impossibile che si prende gioco dell’identità, un’ambivalenza che emerge dal decentramento dell’ethos nazionalista e che pone le fondamenta per una rivendicazione etica permanente”. Dunque esiste una questione etica: non scegliamo con chi coabitiamo, e anche se questo produce un’ambivalenza, dobbiamo semplicemente accettarla.
JB: Sì, esattamente. Le persone che si aspettano che l’inimicizia si converta improvvisamente in amore stanno adottando un modello di pensiero sbagliato. Penso a quello che Hannah Arendt intendeva quando disse che “non possiamo scegliere con chi coabitare il mondo”, è che tutti coloro che abitano il mondo hanno un diritto ad essere qui in virtù del fatto stesso di essere qui. Essere qui significa avere un diritto a essere qui.
Ovviamente quello che intende dire Arendt è che il genocidio non è un’opzione legittima. Decidere che un’intera popolazione non ha diritto a vivere nel mondo non va bene. Non importa quanto la relazione con questa popolazione sia vicina o lontana, ma non esiste un diritto di cancellare una popolazione o di degradare la sua fondamentale umanità.
Dunque cosa significa vivere insieme agli altri? Questa esperienza può essere infelice, miserabile, ambivalente. Può anche essere piena di antagonismo, ma può avere luogo nell’arena politica senza il ricorso all’espulsione o al genocidio. Questo è il nostro dovere: restare nella sfera della politica qualsiasi rabbia omicida abbiamo, senza agire su di essa.
darwish
JB: Penso che alcuni di loro lo facciano. In Israele ci sono spazi in cui le persone, più o meno, condividono i loro quartieri. Ad Haifa ci sono intere comunità che sono più o meno integrate. Ma queste condivisioni avvengono con palestinesi con passaporto israeliano che hanno, in gran parte, accettato certi modelli cooperativi e una cittadinanza di seconda classe.
Dobbiamo essere fortemente critici con quei modelli di cooperazione che rafforzano le disuguaglianze. Vogliamo modi di coabitazione e solidarietà –alcuni la chiamano coesistenza– che mirano a trasformare tutte le dimensioni, così da avere una uguaglianza politica ed economica reale, la fine dell’occupazione e una qualche forma di rispetto del diritto palestinese al ritorno.
OD: Quindi Strade che divergono è un invito alla trasformazione?
JB: Penso di sì. Ci sono tre appelli fondamentali che faccio sulla scia degli attivisti e degli studiosi palestinesi che hanno lavorato a lungo sulla questione. Il primo è un appello a creare una solida base costituzionale [dentro l’atturale Israele, ndr] per l’eguaglianza di tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro religione, etnia o razza.
Il secondo è un appello per fine dell’occupazione, che è illegale e costituisce l’estensione di un progetto coloniale. Secondo me la Cisgiordania e Gaza sono colonizzate, anche se Gaza non è occupata nello stesso modo in cui è occupata la Cisgiordania. Il governo e l’esercito israeliano controllano tutti i beni che entrano ed escono da Gaza, e hanno ristretto l’uso di materiali edili che potrebbero consentire ai palestinesi di ricostruire le case e le strutture distrutte dai bombardamenti israeliani [durante le operazioni “Piombo Fuso” (2008-2009) e “Pilastro di Difesa” (2012), ndr].
Il terzo appello è forse il più controverso. Ma ritengo che sia urgente pensare a come concettualizzare il diritto al ritorno, a come rispettarlo, sia attraverso un ritorno fisico dei rifugiati palestinesi ai loro luoghi di origine, sia attraverso una compensazione. Alcuni progetti prevedono un progetto nelle zone in cui i rifugiati vivevano, senza che questo voglia dire un ritorno nelle stesse case in cui abitavano [e da cui sono stati espulsi, ndr].
Ma le persone che sono state trasformate in dei senza-stato dall’occupazione hanno diritto ad essere rimpatriate, e la questione qui é: in quale stato, in quale area territoriale e in quale comunità politica? Chi è stato espropriato ha diritto a una qualche forma di compensazione. Queste sono norme internazionali fondamentali.
OD: Nel tuo ultimo capitolo citi la poesia in cui Mahmud Darwish dice “una vita possibile è una vita che aspira all’impossibile”. E descrivi questa frase come un paradosso. Potresti spiegarlo?
JB: Ci sono persone che credono nella realpolitik e dicono: “Non ci sarà mai uno stato, non ci sarà mai uguaglianza, non ci sarà mai pace… non ti illudere. Se vuoi essere politico, pensa concretamente e pensa a quali aggiustamenti puoi fare all’interno dell’attuale regime politico”.
Allora mi viene da pensare: va bene, ma cosa significherebbe vivere in un mondo in cui nessuno accantonasse la possibilità di un’uguaglianza politica sostanziale, o di una fine completa delle pratiche coloniali? Cosa succederebbe se nessuno mettesse da parte queste aspirazioni con la scusa che sono impossibili? Le persone ti deridono quando dici diritto al ritorno. Ero in un incontro tra israeliani e palestinesi in cui le persone dicevano: “Non succederà mai”. Così ho detto: “Sì ma non verrà tolto dal tavolo delle discussioni”.
A volte in politica la cosa che non potrebbe mai succedere inizia a succedere. E ci vogliono persone che resistono per questa cosa, persone che accettano di essere idealisti e di operare in contrasto con la realpolitik. Se non ci fossero questi ideali la nostra sensibilità politica sarebbe completamente corrotta da questo processo.
Forse, uno dei doveri della teoria e della filosofia è di dare forza a principi che sembrano impossibili, o che hanno lo statuto dell’impossibile, senza abbandonarli e continuando a desiderarli, anche quando sembrano irrealizzabili.
Va bene. È un servizio. Ma cosa succederebbe se vivessimo in un mondo in cui non ci fossero persone che lo fanno? Sarebbe un mondo impoverito.