Corriere della Sera
09 11 2014
di Agostino Gramigna
Se gli indicatori economici fanno dire agli esperti che gli Usa vanno più veloci dell’Europa, i dati sui congedi parentali mostrano una tendenza opposta: in quattro anni (2010-2014) la quota delle aziende a stelle e strisce che offrono la possibilità ai papà di assentarsi per occuparsi dei bebè è sceso di cinque punti percentuali (Società per la Gestione delle Risorse Umane).
Paradosso della storia. Almeno a sentire il New York Times, che così sintetizza la questione: fare il «mammo», come si chiama da noi poco bonariamente il papà casalingo, potrebbe penalizzare la carriera dei maschi. Che si troverebbero ad affrontare gli stessi problemi che hanno in molte parti del mondo le donne, quando si assentano dal lavoro alla nascita di un figlio.
Una questione «femminile» al maschile. Il giornale cita il caso di Todd Bedrick, un contabile che s’è preso una lunga pausa dalla Ernst & Young per dedicarsi alla figlia. Ha imparato a cullare, a farla addormentare e ha elaborato un sofisticato congegno per far congelare e scongelare il latte materno di sua moglie. Ma un sociologo, Scott Coltrane, che studia la paternità all’Università dell’Oregon, ammette che ancora qualche pregiudizio c’è sugli uomini che affermano di mettere al primo posto i figli rispetto al lavoro. Perché il caso Bedrick rischia di mutare profondamente la cultura sul posto di lavoro.
La famiglia del contabile della Ernst & Young ne ha tratto beneficio, sua moglie Sara guadagna di più e ha meno possibilità di entrare in depressione nei nove mesi dopo il parto. Il problema, secondo recenti opinioni di sociologi americani, è che con le donne capofamiglia soddisfatte, i maschi cominciano a preoccuparsi degli effetti che il congedo di paternità potrebbe avere sulle loro carriere.
Una situazione simile, per certi aspetti, a quella italiana, dove la sfida non è solo convincere i datori di lavoro ad offrire il congedo, ma gli uomini a prenderlo. Le statistiche mostrano che sono ancora basse le percentuali dei maschi che accedono al congedo parentale. Per l’Istat solo il 7 % dei padri vi fa ricorso. L’Inps grosso modo fotografa lo stesso: l’88% dei congedi facoltativi è appannaggio delle donne.
Per Paola Profeta, professoressa di Scienze delle finanza all’Università Bocconi, la situazione è destinata a restare così, anche in futuro, in assenza di una vera svolta culturale. «Lo squilibrio è tutto a sfavore delle donne che hanno stipendi mediamente inferiori a quelli dei loro mariti. Con una retribuzione al trenta per cento in caso di congedo si fa presto a fare due calcoli in famiglia e optare per far restare a casa la donna».
Per la professoressa bocconiana la strada da seguire è quella dei Paesi scandinavi: «In Svezia o in Norvegia si arriva fino a un mese di congedo obbligatorio retribuito per i maschi. Solo così è stato possibile ridurre lo sbilanciamento dei ruoli che in Italia assegna prevalentemente alle donne la cura dei bambini. Se tutti i maschi avessero gli stessi diritti si attenuerebbe anche l’effetto americano: la rinuncia per paura di limitare la carriera».
I dati Eurostat dicono che in Italia la spesa per congedi è pari allo 0,2% del Pil. In Svezia siamo allo 0,8%. Anche se rientriamo tra i Paese più generosi quanto a soldi per maternità.
Tuttavia i numeri non dicono tutto. Almeno per Ivo Lizzola, docente di Pedagogia sociale all’Università di Bergamo che alla paternità ha dedicato un libro. Riconosce che ancora i numeri sono bassi. Ma dopo aver condotto un’indagine sociologica sul campo s’è convinto che in Italia ci sia voglia di paternità. Che la svolta culturale sia già in atto. Soprattutto nell’Italia Centro-settentrionale.
«Molti maschi vorrebbero passare più tempo con i loro figli, ripensare in modo diverso la loro presenza nella famiglia. Soprattutto nel campo dell’associazionismo dove maggiore è la possibilità di aiuto reciproco tra padre e madre. Il problema si scontra con un mercato del lavoro estremamente competitivo, deregolamentato e poco organizzato per favorire i papà». In attesa di riforme, il Maschio italiano può sempre apprendere da Bedrick: che cerca di tornare a casa presto per fare il bagno alla figlia.
Corriere della Sera
08 09 2014
Al Museo MAXXI di Roma fino al 9 ottobre gli incontri con gli artisti: Eva Marisaldi, Francesca Grilli, Donato Piccolo, Iannis Kounellis e Luigi Ontani
di Francesca Pini
Donna, partorirai con dolore! Da quel momento il rapporto della donna con la propria maternità è diventato complesso. E se prima si nasceva in casa, poi sono stati gli ospedali a farsi carico (ormai quasi esclusivamente) della nascita come avvenimento medico. Il parto è diventato sempre più simile a un’operazione, specie quando si tratta di un taglio cesareo che richiede anestesia e bisturi (l’Italia è fra l’altro il Paese con il più alto tasso di cesarei). E che l’argomento “parto” stesse diventando un problema sociale oltre che personale se ne accorse già negli anni Settanta un ginecologo scrittore come Frédéric Leboyer che, nel 1973, pubblicò un libro-manifesto dal titolo Per una nascita senza violenza nel quale proponeva una visione alternativa a quella della nascita considerata quasi una malattia, e non invece un rito da rispettare. Oggi si è anche arrivati a delegare il parto (nei casi dell’utero in affitto, pratica ammessa in alcuni Paesi), ma, in ogni caso, l’atto di partorire è un evento esclusivo fra la donna e il bambino che custodisce nel suo ventre. Leboyer nel corso degli anni ha pubblicato ancora altri libri sul tema, tra cui L’arte di partorire (2008).
Da sempre, fin dal Medioevo, l’arte si è appropriata di questa tematica della gravidanza, dapprima in senso religioso e teologico, raffigurando la Maternità della Vergine come avvenimento mistico (come nella Madonna del Parto di Piero della Francesca), e oggi non è da meno, anche se il baricentro è diventato laico. Tra i primi artisti contemporanei ad inventare, nel 1998, un link diretto tra nascita e operad’arte è stato Alberto Garutti, con una suo famoso intervento nella città di Bergamo (in collaborazione con l’ospedale locale), generato appunto dal primo vagito di un bebé. Che, a sua volta, faceva accendere una luce in città, quasi fosse una piccola cometa. Garutti lo aveva pensato per Piazza Dante a Bergamo. Ed erano proprio i papà in sala parto a premere quel bottone “magico”, che rendeva i lampioni improvvisamente più luminosi, diventato emblema della vita. Recentemente anche un altro artista di grande levatura, come Iannis Kounellis, ha dato il suo contributo al tema del parto, donando al Policlinico una sua installazione per la Mangiagalli di Milano, in cui vediamo pendere da tanti fili d’acciaio delle teste di statue classiche, come simbolo di continuità tra generazioni.
In questo solco nasce l’iniziativa Partorire con l’arte, proposta dal ginecologo romano Antonino Martino (in forza al San Pietro Fatebenefratelli e fondatore su Facebook di una comunità di collezionisti). Anche in questo caso si tratta di rasserenare la dolce attesa (spesso nutrita di troppe ansie per il nascituro), di sdrammatizzare la medicalizzazione dell’evento. Nove mesi di preparazione psicologica passano in fretta (senza considerare che anche la nascita può ingenerare una depressione post partum più o meno grave), ma a questa si può aggiungere oggi anche un capitolo soft, un dialogo tra partorienti, medici, storici dell’arte ed artisti come quelli che il dottor Martino ha coinvolto in questa prima edizione di Partorire con l’arte.
A rispondere per primo all’appello è stato il Museo MAXXI di Roma che accoglierà (fino al 9 ottobre) diversi incontri ai quali parteciperanno, tra i molti relatori, Ginevra Cascelli (ostetrica e antropologa), Miriam Mirolla (psicologa dell’arte), Irene Martini (biologa), Anna Mattirolo (direttrice del MAXXI), Claudio Strinati (storico dell’arte). E tra gli artisti Eva Marisaldi, Francesca Grilli, Donato Piccolo, Iannis Kounellis e Luigi Ontani, che in una celebre foto si auto rappresenta come la Lupa che allatta Romolo e Remo. Dice Martino: «Il mio pensiero va soprattutto ai nascituri, anche come potenziali futuri appassionati d’arte, e comunque sensibili alla cultura, abituandoli con naturalezza già da quando stanno nel grembo delle future madri».
Sappiamo da studi scientifici che il feto reagisce all’ambiente, che “avverte” gli stimoli trasmessi dalla madre, e, per attenuare l’ansia, anche parlare d’arte può rivelarsi un valido antidoto. Ma ancora un’altra iniziativa pensa ai futuri bebè, con un progetto della Fondazione Medicina a Misura di Donna, avviato all’ospedale Sant’Anna di Torino (dal 9/09), che doterà tutti i nascituri di un “passaporto culturale”, ogni famiglia di un nuovo cittadino torinese riceverà questo documento con il quale potrà visitare gratuitamente Palazzo Madama, naturalmente con il proprio bambino.
La Stampa
21 07 2014
Katia e Ilona hanno fatto una scelta. "Per evitare qualunque problema sul lavoro abbiamo deciso di aprire un'attività per conto nostro". Gestiscono insieme una paninoteca ambulante. "In questo modo, seminai un giorno una di noi decidesse di avere un figlio non avremmo problemi a gestire la maternità", spiega Katia. ...