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Corriere della Sera
20 03 2014

Fra l’incudine dei figli e il martello dei propri genitori, il mestiere del genitore non è mai stato tanto difficile come per la nostra generazione: i sensi di colpa semi seri di una Smamma

di Giovanna Rosadini *

Alzi la mano la madre di adolescente dei nostri giorni a cui non sia mai capitato di sentirsi inadeguata. A cui non sia mai capitato di chiedersi da quale pianeta fosse precipitato in casa propria quel marziano perennemente assorbito dal suo mondo virtuale, impenetrabile dietro le cortine invalicabili della porta di camera sua, dello schermo del suo Pc/cellulare e degli auricolari dell’Ipod perennemente incollati alle orecchie.

Se, come me, siete una di quelle madri, è arrivato il momento di farsi una risata liberatoria (una? Una serie!) condividendo le peripezie dell’io narrante di un romanzo appena arrivato in libreria.

L’io e il tu di Smamma, esordio letterario Valentina Diana per Einaudi fresco di stampa, sono una madre over 40 e suo figlio sedicenne; «Siamo tutti naturali e nel tempo. Anche tu e io», recita l’epigrafe, e il libro è non a caso dedicato, dall’autrice (un’attrice torinese), a sua madre.

Nell’era 2.0 il binomio madre-figlio è il nocciolo, nevrotico e inscindibile, della famiglia, attorno al quale gravitano figure menzionate per pseudonimi: Gi «che gioca a Ruzzle nel suo sgabuzzino», compagno amato dalla madre con cui «ci sposeremo», come lei lavoratore precario dell’industria culturale, che studia inglese con Memorize; Macchianera, nonna materna perennemente preoccupata delle inadempienze della figlia nei confronti del nipote, col quale ha instaurato un sodalizio che si manifesta nell’acquisto di vivande appositamente a lui destinate (Nesquik, latte condensato, burro di arachidi, pizzette ecc.) e capi di vestiario firmati (felpe, Tshirt e mutande che provvede lei stessa a portargli in tintoria).

«I nonni, si sa, sono fatti per viziare i nipoti. Ma Macchianera non si limita a viziarti, ti sobilla, t’induce a pensare che tutto il creato sia stato creato per essere lavato e stirato per te». Poi c’è il Meschino, coniuge-suddito di Macchianera, emblema di una mascolinità blanda e dipendente, e anche lui, come Gi e il tu-figlio della narrazione, con una personalità sostanzialmente autistica, riparato dietro la sua mezza sordità e la sua fallimentare vocazione artistica di musicista. Infine la bisnonna, la «veneranda madre di Macchianera», ulteriore sponda per i vittimismi a causa della penuria domestica di cibo del bisnipote.

Fuori, c’è la realtà del mondo della scuola, dove il tu-figlio fa il pesce in barile a scapito delle lavate di capo dei professori alla madre, «Suo figlio come le dicevo non ci siamo… Ha parlato anche con gli altri colleghi, cosa dicono?». «Problematico intelligente (protonazista qualunquista)». «Infatti. Come le dico suo figlio sembra davvero problematico. Un enigma».

Chiusi nella loro bolla, gli adolescenti odierni sfuggono a qualsiasi tentativo di presa… Suscitando negli adulti, in particolare nei genitori, inestinguibili sensi di colpa per le loro mancanze e incapacità. Fra l’incudine dei figli e il martello dei propri genitori, gli odierni nonni che con noi hanno avuto vita facile, il mestiere del genitore non è mai stato tanto difficile come per la nostra generazione.

Se il tu-figlio di Smamma è l’involontario protagonista di una comica scenetta nella quale tenta di infilare in lavatrice un (suo) calzino sporco agganciato con una gruccia perché «gli fa schifo prenderlo con le mani», a casa mia, e nelle case delle famiglie amiche, i vestiti smessi dai figli stazionano giornate intere sui pavimenti dei bagni e delle loro camere, prima di involarsi, di solito per mano altrui, nel cesto degli sporchi… E, se la mia altrettanto liceale figlia si diletta in performances di alta pasticceria domestica, è solo ad uso esclusivo dei suoi amici: delle sue mirabili cheesecake a noi non rimane, alla fine, che la traccia odorosa per le stanze di casa. Guai però a chiederle una mano per il pranzo o per la cena… La risposta, preceduta da uno sbatter di ciglia sugli occhioni azzurri, scatta pronta: «Ma la mamma sei tu…!».

E una torta, anzi, molte torte, ma tutte dello stesso tipo, Margherita, e della stessa marca, Cameo, sono uno dei pilastri del dialogo (non solo verbale, notoriamente) fra l’io-madre e il tu-figlio di Smamma:

«Lo specialista Tedesco afferma che l’adolescenza è un periodo della vita in cui molte cose cambiano, contemporaneamente e molto in fretta (…) Dev’essere per questo motivo che l’adolescente ha bisogno di certezze e, se trova una torta che più o meno gli piace, ci si aggrappa. Cambiare tipo di torta può risultare molto destabilizzante, quando uno, da un giorno all’altro, ha la barba».

Perché gli adolescenti di oggi sono, per di più, tendenzialmente conservatori e reazionari; il protagonista del libro ostenta disprezzo per la madre “barbona”, ancorché artistoide tendenzialmente eccentrica e a vocazione intellettuale, la sgrida se si taglia la frangia da sola e le viene storta e mostra di preferirle la mamma di Lupo, una vera signora con le mèches, in gonna, collants e cinture vistose, ma soprattutto proprietaria di una cucina dotata di tre forni.

Conservatori e opportunisti: «”Il tema, dicevo, lo trovo un po’ stringato. Non parli molto di te e neanche di quello che pensi’, – dico. “Mica sono scemo”.– Hai scritto “La nostra generazione non ha molto spirito di adattamento perché, guardando per esempio la televisione, molta gente famosa e ricca, pensa che sia facile arrivare a diventare come loro. Però questa è più che altro un’illusione. Infatti molte persone della mia generazione non ci arriveranno. A causa di questo avranno dei disagi psicologici”. – In che senso? – Quello che hai letto. – Ma tu lo pensi? –No».

Oppure, a proposito di Ludwig Wittgenstein, filosofo tedesco e icona giovanile della madre, che «…ha dato via tutti i soldi che aveva, e ne aveva tanti, e poi è andato a fare il maestro elementare. – Che pirla».

Passando attraverso una sorta di parentesi mistica, una semiseria richiesta ecclesiastica di intercessione divina a fini scolastici, i tentativi di approccio materno alla comprensione e gestione del figlio approdano (perché «Ho saputo che ci sono delle statistiche che riferiscono che molti adolescenti possono essere molto infelici a causa dell’incompetenza dei genitori. Io non vorrei che mio figlio fosse infelice») infine al Manuale dello Specialista Tedesco, e relativo Metodo o Percorso, da perseguirsi in una Struttura Certificata.

 

Sino alla finale consapevolezza, grazie anche alle sedute di condivisione con altri genitori, di essere parte di un processo, e che

«Non c’è un lieto fine nel rapporto fra una madre e un figlio adolescente – ha detto Gi mentre girava lo zucchero nella tazzina. – Il lieto fine è la fine dell’adolescenza».

Come sappiamo, molto bene, noi genitori ex adolescenti, e ci testimoniano i nostri figli primogeniti, molti dei quali oggi trasferiti all’estero per costruirsi responsabilmente un futuro che in Italia non riuscivano a vedere. Speriamo tornino, e ne portino un po’anche a noi.

 

Padri che amano i figli, cade l’ultimo tabù

  • Mercoledì, 19 Marzo 2014 11:27 ,
  • Pubblicato in L'Articolo
Angela Azzaro-Katia Ippaso, Gli Altri
19 marzo 2013

Addio ai padri padroni, ai padri indifferenti che non hanno mai cambiato un pannolino. Si sta estinguendo, lentamente ma ineluttabilmente, la specie dei padri sempre e comunque maledetti, sempre e comunque irresponsabili,

Germania, padri in rivolta: "ora a casa coi figli stiamo noi"

  • Mercoledì, 05 Marzo 2014 12:40 ,
  • Pubblicato in Flash news

pagina99
05 03 2014

BERLINO - Ogni mercoledì Sigmar Gabriel, di 54 anni, lascerà l’ufficio nel primo pomeriggio. Prima delle quattro, passerà a prendere sua figlia di due anni in un Kindergarten berlinese e trascorrerà con lei la seconda parte del pomeriggio. E così farà tutte le settimane, per i prossimi quattro anni di legislatura. Non sarà facile mantenere l’impegno: stiamo parlando del vice cancelliere tedesco, leader del partito socialdemocratico SPD nonché ministro di Economia ed Energia all’interno di un esecutivo che ha l’ambizione di implementare una radicale riforma energetica. La sua decisione è un’operazione di propaganda ma anche un messaggio politico chiaro per una società che sta cambiando. In Germania, sempre più padri rivendicano il diritto di stare con i figli piccoli.

“Il mercoledì sarà il mio turno”, così lo ha annunciato Gabriel in un intervista con la Bild, agli inizi di quest’anno. “Mia moglie lavora e tocca a me. Sono molto felice di prendermi questo impegno”. Per un politico è importante, secondo Gabriel, non perdere il contatto con la vita di tutti i giorni. Oltre al lavoro, bisogna avere il tempo di fare la spesa al supermercato, parlare con il partner, passare tempo in famiglia... “Se no perdiamo di vista la vita reale”. Il suo esempio si interpreta come un passo avanti in quella che si definisce come una rivoluzione sociale e culturale. La coniugazione di carriera e famiglia era, fino a poco fa, in Germania come in Italia, un’ambizione riservata alle donne. Nella maggior parte dei casi i padri hanno entrambe le cose, però sono soliti concentrarsi cinque giorni a settimana sul lavoro. I figli rimangono per la maggioranza come un impegno del fine settimana. Questo modello, almeno in Germania, sembra destinato a cambiare.

Gabriel non è l’unico personaggio di spicco della politica tedesca ad aver deciso in questa direzione. Prima di lui, Jörg Asmussen, è stato addirittura più drastico: il 47enne era fino a poco tempo fa uno dei più influenti economisti della Banca Centrale Europea, a fine 2013 ha annunciato che avrebbe abbandonato la sua brillante carriera. Ha deciso allora di tornare a Berlino per passare più tempo con la famiglia e avere un lavoro con orari più umani. Nella capitale è stato nominato segretario di stato del Ministero del Lavoro. È un passaggio che implica anche una significativa riduzione di stipendio, visto che nella nuova posizione guadagnerà 150.000 euro all’anno in meno. “Non mi importa se la gente mi considera un modello o un idiota”, ha detto al settimanale Stern. Lo stesso vale per Roland Pofalla, di 54 anni, che come ministro alla Cancelleria nel corso della scorsa legislatura è stato forse il politico più vicino ad Angela Merkel in una serie di situazioni delicate. Nel nuovo consiglio dei ministri ha consapevolmente rinunciato ad avere un ruolo. Anche nel suo caso, l’esigenza era di passare più tempo con la famiglia.

Nonostante il 90% dei padri tedeschi lavorino ancora con orari pieni, un sondaggio citato da Der Spiegel assicura che il 91% sogna di avere più tempo da dedicare ai bambini. La rivoluzione culturale è iniziata nel 2007 con l’introduzione da parte dell’allora ministra della Famiglia — ora alla Difesa — Ursula von der Leyen (conservatrice della CDU) dell’Elternzeit una licenza per genitori dopo la nascita dei figli, che entrambi si possono suddividere a piacimento su un arco temporale di 14 mesi. Se solo la madre si avvale dei mesi di pausa, questi si riducono a 11 mesi. Grazie a questo espediente, i padri hanno iniziato a considerare di avvalersi quantomeno di due mesi di licenza.

La tendenza si può osservare ad occhio nudo per le strade di Berlino dove è molto comune incrociare giovani padri che spingono carrozzine al supermercato, durante la settimana e in orari da lavoro. Christian S. di 39 anni, va a prendere suo figlio di due anni in un asilo nido di Mitte due volte alla settimana. È chirurgo in una clinica privata di Berlino e quando è nato suo figlio, si è preso tre mesi di pausa. “La mia fidanzata ha insistito, voleva che ci dividessimo gli impegni famigliari e per lei era importante non allontanarsi troppo a lungo dal lavoro di ricerca in università. Ho preso tre mesi dai 7 ai 10 mesi del bambino e ora mi sento di ringraziarla per questo”. All’inizio, assicura, si è sentito stigmatizzato sul posto di lavoro: “in particolare mi sembrava che un capo non l’avesse presa bene, però si sono abituati e con il tempo la sensazione è che sempre più medici seguano l’esempio”. Christian si è reintegrato gradualmente negli orari di lavoro e ancora adesso non lavora con gli orari di prima ma all’80%, il che gli permette di andare a prendere il figlio due volte alla settimana.

Eppure, secondo gli esperti, le riforme non sono l’unico elemento fondamentale. “La convinzione che la presenza attiva del padre nell’educazione dei figli sia fondamentale è diventata sempre più diffusa. Prima si accettava che i padri fossero più assenti”, assicura a Pagina99 Hans-Georg Nelles, padre di tre figli, marito di una moglie lavoratrice e fondatore della società di consulenza “Padri e Carriera” che aiuta le aziende a implementare orari più flessibili per i genitori. Politici, consulenti e aziende in Germania sono alla ricerca di modelli imprenditoriali dove anche le posizioni di dirigenti possano adattarsi ad orari flessibili. Il “Contratto di Governo”, firmato dai tre partiti che formano la Grosse Koalition di Angela Merkel, chiede esplicitamente “migliori condizioni per permettere ai genitori di bilanciare i propri impegni professionali e famigliari”.

Ci sono altre ragioni che spingono la Germania in questa direzione. Con una popolazione che invecchia e un’economia che cresce, il paese cerca di modificare il mercato del lavoro in modo da renderlo attrattivo per i lavoratori specializzati stranieri. Allo stesso tempo, le aziende che possono già contare su dipendenti altamente qualificati, fanno di tutto per non lasciarseli scappare. Sondaggi realizzati tra i padri dimostrano che la possibilità di combinare lavoro e carriera aumenta la loro motivazione professionale così come la loro fedeltà all’azienda.

“Non è sempre facile”, ammette Nells, “ci sono ancora grandi compagnie dove non è possibile nemmeno proporre idee di questo tipo. Altre iniziano a rifletterci. Altre ancora le appoggiano con entusiasmo”. Tra le grandi aziende tedesche che si sono lanciate in esperimenti di questo tipo, gli esperti tendono a ricordare la “Robert Bosch Gmbh” — quella degli elettrodomestici — dove sono state introdotte proposte esplicite per gli orari flessibili dei dirigenti e dove si incoraggiano i dipendenti a lavorare alcune ore alla settimana lontano dall’ufficio. La compagnia di assicurazioni “Ergo”, dal canto suo, invita i dirigenti a partecipare a seminari di “leadership sensibile ai temi famigliari” e ha introdotto una serie di proposte per “dirigenti part-time”. “Prima si pensava che occuparsi dei figli fosse una pausa di inattività dal punto di vista del lavoro”, conclude Nells, “ora invece si inizia a considerare questo tempo come parte dell”esperienza generale dove, dopotutto, si acquisiscono competenze. Le aziende possono trarne beneficio”.

 

La Repubblica
04 03 2014

SONO MIGLIAIA, si cercano in rete, si incontrano su siti come Astronascente, o il Comitato per il diritto alle origini. Sono bambini non riconosciuti dalle madri, 400 ogni anno nel nostro paese. Migliaia di ragazzini ora adulti che, nonostante vite felici accanto a genitori adottivi, chiedono il diritto di sapere chi li ha messi al mondo. Senza dover aspettare di aver compiuto un secolo di vita.

La legge, dicono infatti, per loro ha una sentenza: fine pena mai. Solo dopo 100 anni possono sapere chi li ha partoriti, una norma decisa per rispettare il diritto alla segretezza della madre. Negli ultimi mesi, sull'onda di mail, proteste, richieste, quattro disegni di legge sono stati presentati dal Pd al Pdl. Prevedono che al compimento del 25° anno di età i ragazzi possano chiedere che il tribunale interroghi la madre se ha cambiato idea, se vuole essere finalmente conosciuta. E solo in quel caso dare il nominativo. Un altro disegno di legge, presentato da Scelta Civica, aggiunge invece che al 40° anno di età il figlio debba comunque sapere il nome della madre.

Antonio è figlio di due madri. "Rosa l'ho conosciuta a tre anni quando è venuta a portarmi via dall'orfanotrofio dell'Annunziata a Napoli. Ma per capire chi ero veramente, per non sentirmi senza radici e abbracciare Maria, la donna che mi ha messo al mondo e abbandonato per miseria, ho dovuto aspettare di averne 45. Io sono fortunato: per la legge italiana avrei dovuto averne 100 di anni prima di sapere il nome dei miei genitori. E chi ci arriva?".

Ride Antonio, una moglie e due figli, un lavoro da idraulico ed elettricista. Una vita serena ma sempre col rumore di sottofondo, un brusio di menzogne e segreti, tra indagini e sotterfugi, mezze parole, dubbi e sospetti sulla sua origine che non si esplicitavano per paura delle risposte. Fino al 2011. "Ad agosto sono riuscito a rintracciare mia madre, a parlarle, a capire perché non mi ha riconosciuto e mi ha lasciato. Ho fatto pace con lei e il mio passato. Ma tanti nella mia situazione sono senza risposte, si sentono sradicati, in una terra di mezzo".

La sua storia sembra uscita da un film neorealista e comincia nella Napoli degli anni '60. Maria ha 27 anni, ma del mondo conosce poco. Abbandonata anche lei alla nascita ha vissuto tra le pareti di in orfanotrofio fino a 18 anni, poi le suore l'hanno mandata a servizio in casa della famiglia di un professore di matematica. "Si chiamava avviamento al lavoro", oggi sembra più che altro sfruttamento: il letto che si tira fuori in un angolo del corridoio una volta finito di rigovernare, piatti da cucinare, bambini da accudire e il padrone di casa che comanda. E seduce, abusa forse col ricatto del lavoro. "Così quando mia madre è rimasta incinta e il pancione ha cominciato a vedersi l'hanno sbattuta in mezzo alla strada, licenziata senza una lira". Come se il colpevole fosse lei e solo lei.

Maria non ha amici né parenti che l'aiutino, va all'Annunziata, partorisce e non riconosce il bambino. "È l'unico modo che aveva, mi ha raccontato, per assicurarmi un qualche futuro con l'adozione, lei non sapeva dove dormire, come mettere insieme il pranzo con la cena e un tetto per tutti e due: nessuno l'avrebbe presa a servizio con un figlio". Ma tutto questo Antonio lo scoprirà anni dopo.

Cresce in orfanotrofio tra suore e bambini soli come lui, ma dei 36 mesi all'Annunziata non ha un solo ricordo, un volto impresso nella memoria. Il nulla. La prima immagine che ha di sé è a sei anni, la madre adottiva Rosa lo accompagna emozionato al primo giorno di scuola. Babbo non c'è, è in Germania a lavorare. Va avanti e indietro con Napoli commerciando in biancheria e quando muore, il piccolo ha solo 8 anni. Un nuovo abbandono, una nuova ferita. Vissuta in silenzio. "Mamma era affettuosa ma severa, riservata, di poche parole e molto carattere. Si è rimbocca le maniche e si è messa a fare commercio a Napoli mantenendoci per bene. E io sono cresciuto tranquillo, convinto di essere suo figlio".

Antonio non sente o non vuol sentire le mezze frasi di amici e vicini di scala. Ha già perduto il padre, si attacca a quello che sembra. Il mondo gli crolla addosso anni dopo, quando è già marito e padre. A mandare in frantumi le sue certezze è la suocera che si lascia sfuggire durante un litigo: tua madre non capisce perché non sei sangue suo, non ti ha partorito. "Credevo scherzasse, ma il tarlo ha comincia a lavorare, a far franare certezze, ha fatto uscire dubbi che tenevo nascosti. Non oso domandare, ho paura della risposta. E quando lo faccio le parole 'sei stato adottato' mi schiantano. Non lo faccio vedere, non voglio ferirla, però mi sento tradito da anni di silenzi, di menzogne. Doveva dirmelo subito o mai più. Non a 40 anni passati. Il mio mondo all'improvviso è cartapesta, ero convinta di sapere chi ero, mi sono ritrovato confuso, traballante, perso come un cieco".

Antonio però è fortunato. Quando l'ha adottato, sua madre ha voluto informazioni sulla donna che lo aveva dato alla luce. Illegalmente, grazie ad un amico carabiniere, ha saputo il nome di Maria, della giovane cameriera sedotta e abbandonata. Il foglio con le sue generalità l'ha stracciato perché non restasse traccia del segreto, ma Rosa il suo cognome lo ricorda bene e dopo interrogatori e suppliche confessa. Così per Antonio cominciano giorni da angoscia e speranza in cui fa l'investigatore più che l'idraulico, passa dall'anagrafe, cerca stati di famiglia, ripercorre cambi di residenza, giorni e notti in cerca di quella sconosciuta. Scopre che si è sposata che ha due figli e vive poco lontano. "Ma non oso chiamarla ho troppo paura di essere rifiutato un'altra volta. Così su Facebook cerco di fare amicizia con i suoi ragazzi, non dico chi sono veramente. Scrivo messaggi enigmatici tipo: la vita nasconde segreti e sorprese".

Alla fine non resiste, racconta tutto all'inconsapevole fratello dall'altra parte dello schermo, e quello, sconvolto, chiede alla madre che ammette in lacrime. "Avrebbe voluto cercarmi mille volte in questi anni ma non osava, aveva paura che il marito l'avrebbe lasciata e allontanata dai figli. E sono tante le madri che come lei se avessero vent'anni dopo la possibilità vorrebbero conoscere i figli abbandonati per fame".

Adesso si vedono abitualmente, di nascosto dal marito ancora ignaro di tutto. "È piccola, nemmeno un metro e mezzo e ha un carattere di fuoco. Ci siamo parlati a lungo, tra le mille sigarette che fuma ininterrottamente: avevo bisogno di capire perché mi avesse abbandonato. Avevo bisogno di verità per sentirmi completo, centrato, non più un pesce fuori dall'acqua. Verso di lei non ho rancori, in quella situazione non poteva fare altro. So che le somiglio, e non solo fisicamente, ma per me la mia vera mamma è chi mi ha cresciuto".

Se è la madre a uccidere

  • Mercoledì, 19 Febbraio 2014 16:30 ,
  • Pubblicato in ZeroViolenza
Monica Pepe, Zeroviolenzadonne
19 febbraio 2014

Una madre che uccide il proprio bambino ci atterrisce molto più di un uomo che compie lo stesso gesto. Una madre che uccide ci mette a disagio, perchè nell'inconscio collettivo è la rottura del tabù ancestrale più immodificabile.

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