Le persone e la dignità
04 08 2015
312 milioni di euro. Sono chiamati “aiuti allo sviluppo” ma è una definizione ingannevole.
Quel denaro che la Commissione europea intende dare al governo eritreo fino al 2020 rischia di dare ulteriore sostegno economico a un regime che, secondo le Nazioni Unite, si è macchiato di crimini contro l’umanità.
Del sistema istituzionalizzato di violazione dei diritti umani in Eritrea avevamo parlato in questo blog alcune settimane fa, quando centinaia di rifugiati provenienti dal paese africano erano ammassati nelle stazioni ferroviarie e sulle scogliere liguri.
Avevamo ricordato le numerose ragioni per cui 5000 eritrei fuggono ogni mese dalla tortura (nella foto, la riproduzione di una delle tecniche più feroci), dalla repressione di ogni forma di dissenso, dal servizio militare obbligatorio a tempo indeterminato. Non c’è persona che arrivi in Italia che non porti una nuova, drammatica testimonianza.
Perché l’Unione europea vuole dare all’Eritrea 312 milioni di euro, senza chiedere neanche garanzie per il rispetto dei diritti umani? L’obiettivo di quei soldi è fermare le partenze? Sono queste le forme di cooperazione coi paesi di origine di cui si tanto si parla nelle cancellerie europee, compreso Palazzo Chigi?
Una petizione è stata promossa attraverso il sito change.org per chiedere all’Unione europea di non dare finanziamenti al governo eritreo senza precise garanzie sul rispetto dei diritti umani.312 milioni di euro. Sono chiamati “aiuti allo sviluppo” ma è una definizione ingannevole.
Quel denaro che la Commissione europea intende dare al governo eritreo fino al 2020 rischia di dare ulteriore sostegno economico a un regime che, secondo le Nazioni Unite, si è macchiato di crimini contro l’umanità.
Del sistema istituzionalizzato di violazione dei diritti umani in Eritrea avevamo parlato in questo blog alcune settimane fa, quando centinaia di rifugiati provenienti dal paese africano erano ammassati nelle stazioni ferroviarie e sulle scogliere liguri.
Avevamo ricordato le numerose ragioni per cui 5000 eritrei fuggono ogni mese dalla tortura (nella foto, la riproduzione di una delle tecniche più feroci), dalla repressione di ogni forma di dissenso, dal servizio militare obbligatorio a tempo indeterminato. Non c’è persona che arrivi in Italia che non porti una nuova, drammatica testimonianza.
Perché l’Unione europea vuole dare all’Eritrea 312 milioni di euro, senza chiedere neanche garanzie per il rispetto dei diritti umani? L’obiettivo di quei soldi è fermare le partenze? Sono queste le forme di cooperazione coi paesi di origine di cui si tanto si parla nelle cancellerie europee, compreso Palazzo Chigi?
Una petizione è stata promossa attraverso il sito change.org per chiedere all’Unione europea di non dare finanziamenti al governo eritreo senza precise garanzie sul rispetto dei diritti umani.
Il Fatto Quotidiano
20 05 2014
L’esercito della Thailandia ha decretato la legge marziale nel Paese asiatico, con l’obiettivo di stabilizzare il Paese dopo sei mesi di proteste antigovernative culminate il 7 maggio nella destituzione della premier Yingluck Shinawatra, sorella del magnate ed ex primo ministro Thaksin. Non si tratterebbe però di un colpo di Stato: l’esecutivo continua infatti a governare e solo le questioni di sicurezza sono in mano alle forze armate. Militari sono stati dispiegati nel centro di Bangkok prima dell’alba e sono entrati nelle sedi di diverse emittenti tv per bloccarne i programmi e trasmettere invece il messaggio dell’esercito. Per il resto, tutti i media sono stati censurati: “È fatto divieto a tutti i media di riportare o diffondere notizie o immagini dannose per l’interesse nazionale”, ha dichiarato il capo delle forze armate, generale Prayuth Chan-Ocha, che ha citato una legge del 1914 che dà all’esercito l’autorità di intervenire in momenti di crisi. “L’esercito reale – ha dichiarato il generale – intende portare il prima possibile la pace e l’ordine al Paese amato da ogni cittadino thailandese. Intendiamo risolvere la situazione rapidamente”. Il generale ha poi chiesto ai leader del governo e delle agenzie di controllo indipendenti di incontrarsi nel pomeriggio. Intanto il primo ministro ad interim, Niwattumrong Boonsongpaisan, ha convocato un incontro di emergenza dell’esecutivo in un luogo sconosciuto. Nella mattinata l’esercito ha emesso diversi decreti, tra cui quello in cui vieta alle emittenti televisive e radiofoniche di trasmettere i programmi previsti dal loro palinsesto e impone, nel caso di necessità, di trasmettere in diretta i suoi messaggi.
Non sembra che l’operazione abbia avuto conseguenze particolari per la vita quotidiana del Paese. Le scuole, le aziende e i siti turistici hanno aperto regolarmente. Il ministro della Giustizia, Chaikasem Nitisiri, ha detto ad Associated Press che l’esercito non aveva consultato il premier ad interim prima di dichiarare la legge marziale, ma ha sottolineato che l’esecutivo continua a governare nonostante l’esercito sia ora responsabile della sicurezza. “Le questioni di sicurezza – ha confermato – saranno gestite esclusivamente dalle forze armate e dipende da loro se la situazione si intensificherà o si risolverà. Non c’è nessun motivo di panico”. Il leader del movimento pro governativo delle Camicie rosse, Jatuporn Prompan, ha fatto sapere che il suo gruppo potrebbe accettare la legge marziale, ma “non tollererà un colpo di Stato né altri mezzi non costituzionali”. “Vedremo cosa vuole l’esercito”, ha affermato, avvertendo che la rimozione non democratica del governo ad interim “non risolverà mai la crisi nel Paese e farà sprofondare la Thailandia ancora di più nei disordini”.
Negli ultimi giorni i sostenitori delle Camicie rosse si stavano radunando nei pressi di Bangkok e Jutaporn ha detto che gli attivisti vengono “circondati”. Più di cento soldati sono stati dispiegati vicino al luogo della protesta e hanno portato con sé rotoli di filo spinato per bloccare le strade. Sembra che i militari abbiano preso il controllo della zona dalla polizia e si siano posizionati sulle strade che portano verso il luogo di protesta. L’esercito thailandese, visto da molti come schierato con i manifestanti antigovernativi, ha organizzato undici colpi di Stato dalla fine della monarchia.
La portavoce del dipartimento di Stato Usa, Jen Psaki, ha fatto sapere che gli Stati Uniti sono “molto preoccupati per il peggioramento della crisi politica in Thailandia” e “chiedono a tutte le parti di rispettare i principi democratici, tra cui il rispetto della libertà di espressione”. “Ci aspettiamo – ha aggiunto – che l’esercito rispetti il proprio impegno e confermi che si tratti di un’azione temporanea mirata a prevenire violenze e non a minare le istituzioni democratiche”.
Osservatorio Iraq
16 05 2013
Pubblicato in occasione della giornata internazionale per la libertà di informazione, il 3 maggio scorso, il report della Bahrain Press Association ha messo nero su bianco le violenze perpetrate dal regime, con lo scopo dichiarato di far passare sotto silenzio una rivolta popolare che non conosce tregua.
di Marta Ghezzi
C’è una rivoluzione che non esiste da più di due anni. Siamo in Bahrein, piccolo arcipelago retto da una monarchia assoluta sunnita circondata da una maggioranza sciita, coperta alla spalle dall’Arabia Saudita e sul mare dalla V Flotta della marina militare statunitense.
Una monarchia che importa ingenti quantitativi di armi antisommossa e di munizioni da caccia per rifornire le truppe internazionali di stanza sul territorio da marzo 2011, e che il prossimo anno potrebbe ospitare la gara di apertura del campionato mondiale di Formula Uno.
Perché in un paese dove non accada nulla è necessario che nessuno lo racconti, quel nulla.
Ed è per questo che, solo nel 2011, all’indomani dei primi scontri tra manifestanti e polizia nella capitale Manama, sono stati ben 145 gli operatori della comunicazione uccisi, torturati o licenziati.
Secondo le stime dell’organizzazione internazionale Bahrain Watch, a questi andrebbero aggiunti gli oltre 200 a cui sono stati negati i visti di ingresso o che sono stati espulsi in questi due anni, equamente divisi tra giornalisti, fotografi e cameramen, e poi ancora ricercatori e delegati di ong internazionali.
Una storia che va avanti e che non deve avere testimoni, sembra.
Ed è invece proprio grazie a questi 'testimoni scomodi' che oggi è possibile consultare il report 2013 sulla libertà di informazioni in Bahrein, diffuso all’inizio del mese di maggio dalla BPA, organizzazione con base a Londra.
In un’ottantina di pagine si alternano tabelle, numeri e fatti, con tanto di nomi e cognomi di tutti coloro che la corona ha tentato, inutilmente, di fare tacere durante il secondo anno di rivolta.
C’è quindi Ahmad Ismaiil, trovato morto un anno fa, colpito da un’unica pallottola che lo ha raggiunto mentre filmava una manifestazione in un villaggio.
O Ahmad Humeidan, fotografo ancora in carcere senza una accusa precisa, così come Mansour al-Jamri, giornalista e fondatore dell’unico periodico indipendente al-Wasat, chiuso un anno fa, non ha mai smesso di criticare il regime e di scendere in piazza malgrado le minacce e gli arresti.
Ci sono le storie tristemente famose di Nabil Rajab e Zainab al-Khawaja, in carcere per la loro attività di oppositori e attivisti per i diritti umani anche attraverso le reti sociali.
E poi ancora blogger, frequentatori di forum e dibattiti online, citizen journalists. Una repressione, quella in atto contro l’informazione in ogni sua forma, che non vede confini e che si fa forte del silenzio internazionale.
"Il silenzio è un crimine di guerra", recita infatti il titolo del rapporto della BPA, che presenta in appendice una dettagliata raccolta di articoli e di materiale relativi alla situzione dei diritti umani e insieme del diritto all’informazione.
Se nel dicembre 2011 Reporter senza frontiere dichiarava Manama come uno dei dieci posti più pericolosi nel mondo per la vita di un giornalista, la situazione non è molto migliorata da allora, anche perché su quel silenzio tanti paesi speculano e fanno affari: oltre alle aziende produttrici di armi, nell’elenco degli invitati al 'banchetto bahreinita' spiccano numerose ditte di programmazione informatica specializzate in sistemi di controllo telematico, tutte impegnate nella progettazione di nuovi strumenti per spiare le attività di giornalisti e attivisti per i diritti umani.
Mentre da un lato la corona offre la cittadinanza onoraria a 240 sudditi britannici, dando loro il benvenuto in quel paradiso fiscale che il Bahrein rappresenta oggi per molti investitori, dall’altro continua nel suo proposito di nascondere agli occhi del mondo la drammatica condizione di violenza e insicurezza che si trova ad affrontare ogni giorno il popolo.
Sicura che finchè avrà il coltello dalla parte del manico, e amici forti al suo fianco, nessuno saprà.
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