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Cronache estive

InGenere
03 09 2015

Il corpo delle donne, il diritto, la libertà: non sono mancati in questa estate che sta finendo dibattiti e interrogativiintorno a questi temi sempre risorgenti, che animano fazioni opposte nell’opinione pubblicae dividonoil femminismo. Voglio considerare tre casi che hanno fatto discutere: innanzitutto la risoluzione di Amnesty International per la decriminalizzazione della prostituzione, che ha visto insorgere contro la più importante Ong per i diritti umani un ampio cartello di associazioni femministe e star hollywoodiane. Poi c’è la vicenda dei libri per l’infanzia sul “gender” vietati dal sindaco di Venezia, su cui è intervenuto anche il cantante Elton John attaccando Brugnaro e difendendo il racconto di “famiglie omosessuali che vivono felici e contente”, rianimando così qualche discussione sulla maternità surrogata che permette alla coppia Furnish-John di essere genitori di due figli (ne scrive, per esempio, Letizia Paolozzi). Infine, il caso di Martina Levato, l’“acidificatrice” condannata a 14 anni per aver sfigurato due ex fidanzati insieme al compagno Alexander Boettcher, che a Ferragosto ha partorito un bambino per il quale il Tribunale dei Minori di Milano ha avviato la procedura per adottabilità.

Riflettere in parallelo su casi così diversi può forse aiutare a orientarsi nella materia complessa racchiusa in tante questioni che interrogano l’autodeterminazione delle donne in ambito sessuale e riproduttivo. Credo che un punto essenziale sia decidere di chi vogliamo assumere lo sguardo, ascoltare la voce, provare a leggere i bisogni. Parto perciò da un assunto che riguarda un altro ordine di scelte, ma che ha il pregio di mettere d’accordo tutte le diverse anime del femminismo, ovvero quello che anima le battaglie per l’autodeterminazione in tema di aborto, e che suona più o meno così: “la prima parola e l’ultima sul proprio corpo spetta a ogni donna”.

Prendiamo il caso di Amnesty International. Come ha dichiarato l’Ong, la proposta di policy sulla prostituzione approvata l’11 agosto si basa sue due anni di consultazioni con un ampio numero di organizzazioni e singoli, tra cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità, UnAids, Anti-Slavery International, la Global AllianceAgainstTrafficking in Women, e poi gruppi di sex worker e di “sopravvissute”, associazioni femministe, LGBT e antitratta. L’obiettivo è “garantire una maggiore protezione dei diritti umani delle sex worker – che sono spesso tra le donne più marginalizzate nella società” attraverso la decriminalizzazione universale della loro attività e di quelle attività connesse che, quando criminalizzate, finiscono per ripercuotersi sulla loro condizione di precarietà ed esclusione. La decriminalizzazione, sostiene l’organizzazione per i diritti umani (d’accordo con numerosi esperti ed esperte), può garantire anche migliori condizioni per l’emersione delle situazioni di tratta e sfruttamento, al contrario della criminalizzazione che spinge verso l’invisibilità.

La campagna ostile guidata dalla CoalitionAgainstTrafficking in Women – e sottoscritta da star come Meryl Streep, Kate Winslet, Anne Hathaway, Lena Dunham – ha invece accusato Amnesty International di voler proteggere i diritti di clienti e sfruttatori. Eppure se assumiamo il punto di vista di chi si prostituisce, e non quello di clienti o sfruttatori, l’accusa di voler favorire questi ultimi svanisce sullo sfondo. Il problema è qui nella definizione dell’oggetto, un dilemma antico: la prostituzione è un lavoro da riconoscere o una violenza da eliminare? Non nego che considerarla un lavoro come un altro faccia nascere alcuni dilemmi importanti. Ma se è una violenza, come sostiene l’abolizionismo di stampo svedese, cosa ne facciamo di tutte e tutti coloro che affermano di esercitarla per scelta, magari sotto il condizionamento della necessità economica e della mancanza di opportunità alternative, come però – è il caso di ricordarlo – accade per molte altre attività? Esiste un altro caso in cui le protagoniste di una lotta per i diritti siano sconfessate in quanto portatrici di domande di riconoscimento, e non da chi le vorrebbe sottomesse e mute alla legge del più forte, ma da chi le ritiene bisognose di salvezza, anche contro la propria volontà?

Vengo quindi al secondo tema, quello della maternità surrogata, o gestazione per altri, meno discusso in questa estate ma già oggetto di grande dibattito nei mesi passati (si veda il caso suscitato dalle dichiarazioni di Dolce e Gabbana), e inoltre senza dubbio affine al precedente, perché riguarda l’uso del proprio corpo a fini non sessuali ma procreativi, in cambio di denaro. Se la prostituzione si presta a interpretazioni molto differenti del ruolo femminile – da quella incentrata sull’espropriazione del piacere e sulla subordinazione al diritto maschile, a quella che vede nella negoziazione economica del sesso una forma di resistenza a questo stesso diritto – la gestazione per altri pare gravata (almeno in Italia) da uno stigma molto pesante: la donna nuovamente ridotta a strumento di desideri altrui e a macchina riproduttiva. Il tema è complesso, ma se non ci si capisce su questa questione della procreazione persino un ddl fiacco come quello sulle unioni civili fermo in Parlamento rischia di trovare opposizioni insormontabili anche da parte di un’opinione pubblica sensibile al tema dei diritti (dove si sente dire: la stepchildadoption non nasconderà un incoraggiamento verso il ricorso alla maternità surrogata?).

Ciò che mi pare si perda di vista nella condanna senza appello di questa pratica e di chi vi fa ricorso è – come nel caso delle campagne contro la prostituzione – la soggettività delle donne coinvolte. Le quali lungi dal sentirsi universalmente soggette a una violenza culturale, e fisica, o espropriate del frutto del proprio ventre, non raramente riportano un’esperienza consapevole e serena. Si veda il racconto del rapporto con la madre portatrice che fa il giornalista Claudio Rossi Marcelli nel suo libro Hallo Daddy! (Mondadori) oppure le storie raccolte da Serena Marchi in Madri, comunque (Fandango).

Ma anche in quest’ambito i problemi etici, politici, nonché giuridici, sono tutt’altro che assenti. La maternità può essere un lavoro? Un lavoro come un altro? Il tema pare riguardare quasi esclusivamente la gestazione, perché la cura del bambino affidata a figure stipendiate solleva assai meno obiezioni. Dove porre dunque il limite del commerciabile? Come garantire la piena disponibilità del proprio corpo da parte di una donna, e insieme prevenire forme di sofferenza o abuso? Perché bandendo il denaro si presume di poter eliminare una fonte di oggettivazione, quando per qualunque altra prestazione, anche corporale (escluse la gestazione e il sesso, incluse invece le prestazioni domestiche e di cura), il pagamento in denaro appare come un veicolo di riconoscimento? Il punto è complicato, e richiede per essere sciolto niente meno che una riflessione sul rapporto tra corpo, persona, lavoro e denaro. E sulla relazione tra sessualità, riproduzione, norma e legge.

Eccoci quindi al terzo caso, in cui a una donna, condannata a 14 anni di carcere, viene tolto il figlio appena nato. Parrebbe un rovesciamento del caso precedente: se la genitorialità è un diritto che –in presenza di altri soggetti consenzienti – può realizzarsi anche nella maternità surrogata, come negare quel diritto a una donna che ha già messo al mondo il proprio figlio e ha intenzione di riconoscerlo, anche se le perizie psichiatriche indicano la sua incapacità di prendersene cura? In realtà il nodo è qui differente. Se accettiamo di definire la genitorialità come un fatto non solo biologico ma anche sociale, quindi non solo attraverso il desiderio della nascita ma anche della cura, ci accorgiamo che il semplice fatto della procreazione perde la predominanza discorsiva che porta a beatificare il ruolo materno, mentre al tempo stesso le famiglie adottive, ricostruite, monogenitoriali, omogenitoriali, assumono piena dignità quali luoghi possibili di investimento affettivo ed educativo. Difficile avere dubbi sul fatto che il figlio di Martina Levato e Alexander Boettchertroverebbe in una famiglia adottiva un luogo assai più adeguato a una crescita sana.

Tuttavia, anche qui ci sono questioni nient’affatto semplici da affrontare, che mettono in tensione corpo, desidero, diritto. A chi spetta la prima parola?A chi l’ultima? Il principio da cui sono partita, quello della “prima e ultima parola”, non può più avere validità assoluta quando i corpi da uno si fanno due. Ma può il sapere psicologico, medico o giuridico sostituirsi interamente al volere della donna? Non esiste lo spazio per una mediazione tra il sapere/potere dello Stato e il desiderio di una madre, uno spazio da aprire ben prima del parto, prima che il superiore interesse del bambino diventi oggetto della burocrazia e un paese intero si senta chiamato ad accusare o difendere la “cattiva madre”?

Giorgia Serughetti

Global Project
26 08 2015

L'11 agosto, a Dublino, è stata approvata da Amnesty International una risoluzione per la protezione dei diritti umani delle/dei sex workers. Un traguardo raggiunto soprattutto grazie al lavoro di numerose associazioni che da anni si battono per il riconoscimento dei diritti delle lavoratrici del sesso e per la depenalizzazione della prostituzione, ma a ciò non si è certo arrivati senza numerose polemiche.

L’associazione CoalitionAgainstTrafficking in Women, infatti, con l’appoggio di numerose star di Hollywood, in una lettera aperta scrive: «Ogni giorno combattiamo l’appropriazione maschile del corpo delle donne, dalle mutilazioni genitali ai matrimoni forzati, dalla violenza domestica alla violazione dei loro diritti riproduttivi. Pagare denaro per una simile appropriazione non elimina la violenza che le donne subiscono nel commercio del sesso. È incomprensibile che un’organizzazione per i diritti umani della levatura di Amnesty International non riesca a riconoscere che la prostituzione è una causa e una conseguenza della diseguaglianza di genere».
Tra le firmatarie vi è la regista Lena Dunham, che, avendo invitato l’artista Molly Crabapple a partecipare ad un progetto legato alla campagna contro la mozione di Amnesty, si è vista rispondere con la lettera pubblicata di seguito:

Cara Lenny,
grazie per avermi cercato e per le parole gentili sul mio lavoro.
Non posso però impegnarmi in un progetto diretto da Lena Dunham, fintanto che lei appoggia la petizione contro la depenalizzazione della prostituzione proposta da Amnesty International.
Molte delle mie più care amiche sono lavoratrici del sesso. La mia militanza politica è legata all’attivismo sui temi della prostituzione, e da giovane ho lavorato in un settore legale dell’industria del sesso. La campagna di Amnesty International per la depenalizzazione della prostituzione è un’azione importante e positiva.
Che si tratti del Bronx o della Cambogia, la polizia impiega la violenza contro le lavoratrici del sesso e contro le vittime del racket della prostituzione. Stupra, deruba, picchia, ricatta, arresta le lavoratrici del sesso e le vittime del racket della prostituzione.

La depenalizzazione è un passo importante per porre fine a tutto questo. Senza dubbio Lena Dunham crede che la petizione che ha firmato chieda la criminalizzazione solo dei clienti e degli sfruttatori, non delle lavoratrici.
Questo modello, chiamato svedese, è però tutt’altro che una buona cosa. Ostacola ogni tentativo da parte delle lavoratrici del sesso di controllare le loro condizioni di lavoro. Favorisce la loro discriminazione, l’impoverimento, lo sfratto dalle loro case, e le rende passibili dell’accusa di «sfruttamento» quando scelgono di lavorare insieme per sentirsi più protette. Soprattutto, comporta spesso l’intervento di poliziotti corrotti e violenti nella vita di donne che sono già state vittime di violenza. L’articolo di Molly Smith per «New Republic» spiega assai bene i problemi del modello svedese. La signora Smith è una lavoratrice del sesso, un’attivista e una scrittrice.
Molte attrici famose hanno firmato la petizione anti-Amnesty. Ma Lena Dunham è più che un’attrice. È una giovane femminista fiera e conosciuta. Si può dire che sia uno dei volti più noti del femminismo. Eppure sta prendendo una posizione politica che danneggia e mette in pericolo altre donne nel mondo. La esorto quindi a riconsiderare il suo sostegno alla petizione anti-Amnesty, e ad ascoltare le voci delle lavoratrici del sesso. Purtroppo, fin quando sosterrà quella petizione, non potrò collaborare con lei.
Cordiali saluti,

Molly
Da attivist* femminist* che da anni cercano di condividere all'interno degli spazi sociali i temi legati al diritto all'autodeterminazione anche delle/dei sex workers, ci sentiamo di condividere appieno la lettera di Molly Crabapple e accogliamo fiducios* la risoluzione di Amnesty, perché crediamo che la de-criminalizzazione della prostituzione, anche in quei Paesi, come l'Italia, dove non si può parlare di penalizzazione in senso stretto, sia l’unica strada percorribile per garantire la libertà di scelta, la salute e la sicurezza di chi svolge lavoro sessuale.

Sul sex work, soprattutto in Italia, pesa ancora fortemente uno stigma sociale e morale, che tende ad equiparare la tratta e lo sfruttamento al lavoro sessuale e che vede nella criminalizzazione – se non giuridica, quantomeno sociale - un mezzo per ribadire l'inviolabilità dei corpi delle donne, anche quando sono esse stesse a rivendicare la propria scelta libera e consapevole. Sovradeterminazione, dunque, e della peggior specie, che, come ci raccontano molto spesso prostitute e lavoratrici del sesso, mette a repentaglio la loro sicurezza ed il loro diritto alla privacy.

E sia chiaro che lo stigma a cui ci riferiamo non riguarda solo i prestatori e le prestatrici di lavoro sessuale, ma anche i/le loro clienti, perché non v'è dubbio che se dobbiamo inquadrare il sex work entro gli schemi (sociali) del lavoro professionale non possiamo negarne l'essenziale bilateralità. C'è chi gode dell'opera pagando e chi la presta venendo pagat*, tutto qui. A cosa servirebbe riconoscere i diritti delle prostitute senza riconoscere i diritti della clientela?
Assistiamo, infatti, ancora oggi all'incapacità diffusa di concepire la sessualità in modo aperto e laico. Nelle sabbie mobili dei retaggi cattolici e della cultura disneyana fatichiamo ad accettare la sessualità al di fuori delle retoriche romantiche che albergano ancora in pratiche e atteggiamenti tesi alla condanna dei clienti, sovente accusati di essere, in quanto tali, violenti e sfruttatori.

Ma come ci hanno ripetutamente spiegato le prostitute stesse, la stigmatizzazione sociale e la criminalizzazione giuridica dei clienti non fanno che limitare ed elidere la possibilità di scegliere liberamente e di lavorare in privacy e sicurezza. E ciò è di una tale evidenza (perché lo stesso avviene per qualsiasi altro lavoro) che dispiace davvero doverlo ribadire a chi, in teoria, si batte per il diritto all'autodeterminazione personale e lavorativa delle donne. Perché ci si permette di cacciare i clienti, denigrarli, offenderli, minacciarli e additarli come mostri? Se sto lavorando per procurarmi un reddito, quale donna-da-bene può arrogarsi il diritto di decidere con chi, dove e come devo lavorare, osteggiando la mia clientela? E se sono una donna sfruttata e ricattata, perché devo rischiare di essere, magari, picchiata e punita perché non ho ricevuto abbastanza clienti, o sbattuta nelle periferie industriali dove non bazzicano i fai-da-te della tutela della “dignità femminile”?

Il modello svedese è un chiaro esempio di come la criminalizzazione dei clienti ricada inevitabilmente sui diritti dei/delle sex workers.
Entrato in vigore nel 1999, questo modello, a cui le/i pro- criminalizzazione fanno quasi sempre riferimento, prevede pene per i soli clienti (si va dalle multe al carcere fino a sei mesi) e vanta la diminuzione del 40% della prostituzione di strada dall’entrata in vigore sino al 2003. Negli anni successivi all’approvazione della legge la maggior parte delle prostitute, per poter lavorare, si è spostata al chiuso, spesso in situazioni di maggiore rischio per la loro incolumità fisica. La criminalizzazione dei clienti, inoltre, ha favorito un clima di omertà riguardo alle vittime di tratta.

Lo stesso accade nei nostri territori, quando ordinanze anti-prostituzione, ronde di cittadini o paladini della santità del corpo delle donne inducono le prostitute a spostarsi in zone meno disturbate, ma più pericolose.
A ciò si aggiunga che le velleità borghesi e privilegiate di chi spesso pretende di agire per (ma non con) le prostitute ignorano, volutamente o meno:
-che il lavoro sessuale è spesso un servizio nei confronti di disabili, anziani ed altri soggetti che per diverse ragioni hanno una minore capacità di accesso all'attività sessuale;
-che le/i sex workers sono soggetti pienamente capaci, organizzati, consapevoli, in grado di gestire la propria professione né più né meno di altr* lavoratori e lavoratrici;
-che la clientela del lavoro sessuale sono i nostri genitori, datori di lavoro, insegnanti, amici, chiunque in diverso modo attraversi le vite di tutt* e che ritenere che una prostituta sia più vulnerabile rispetto a questi stessi soggetti sia un atto di disvalore e di infantilizzazione paternalista;
- che molt* di noi svendono la propria preparazione e il proprio cervello a cifre che si aggirano dai 3 ai 6 euro all'ora, ma “la figa no, è sacra e dobbiamo conservarla, ce l'ha detto madre Chiesa”.
Detto questo, non crediamo in un processo di legalizzazione che rinchiuda il sex work nei confini asfittici che stritolano altre categorie di lavoratori e lavoratrici autonom*.
La Nuova Zelanda, ad oggi, è forse l’esempio migliore di come si dovrebbe affrontare il tema della prostituzione: i neozelandesi hanno scelto di percorrere la strada della depenalizzazione del lavoro sessuale valorizzando i diritti e bisogni delle/i sex workers, permettendo loro di esercitare il proprio lavoro in modo informale e senza bisogno di pratiche amministrative.

Ma per tornare a noi, ai nostri territori e ai nostri spazi, pensiamo che ancora molto debba cambiare e non solo in termini giuridici e amministrativi. Fino a quando vi sarà chi insiste nel dipingere la figura della/del sex worker in modo stigmatizzato, come un soggetto da salvare - da un pappone, da un cliente o da se stess* -, come una persona che non è in grado di decidere per sé, perché “nessuna donna venderebbe il proprio corpo”, o fino a quando, in egual misura, si continuerà a vedere i clienti (inevitabilmente maschi?) sempre e comunque come sfruttatori, violenti e traditori, vorrà dire che abbiamo ancora un lungo lavoro politico e culturale da portare avanti.
Vulva la revolución!

Assemblea permanente We Want Sex

Da 15 anni mi prostituisco e non me ne pento

  • Venerdì, 10 Luglio 2015 12:54 ,
  • Pubblicato in Flash news

Abbatto i muri
10 07 2015

Ho iniziato a prostituirmi 15 anni fa e ancora non mi pento della scelta che ho fatto. All’epoca non era come adesso. Non c’era un uso allargato di internet e i divieti sembravano moltissimi. In cambio, però, c’erano in giro meno abolizioniste che oggi sembrano ossessivamente concentrate sull’idea di redimerci e salvarci anche quando non abbiamo alcun bisogno di essere salvate. Nei paesi in cui la prostituzione era un mestiere regolarizzato si poteva stare bene e non c’era quell’enfasi dedicata alla guerra contro la prostituzione che c’è adesso.

Le prostitute si proteggevano, l’un l’altra, e avevano anche una sorta di accordo con le forze dell’ordine, per cui si pattugliavano da sole, potevano stare insieme, potevamo vivere insieme, cosa molto importante se vuoi evitare che un cliente violento possa farti male senza che nessuno lo veda. Quando ho iniziato avevo poco più di 20, un matrimonio sbagliato alle spalle e un figlio. Non ho mai pensato che la prostituzione, al contrario del mio matrimonio, fosse un lavoro umiliante. Non lo pensavo allora e non lo penso neanche adesso. Era ed è un lavoro che mi ha permesso di emanciparmi dal bisogno, di mantenere mio figlio e di fare cose che altrimenti non sarei riuscita a fare.

Ho comprato casa, ho viaggiato, ho anche vissuto relazioni amorose intense e positive, finite per altre ragioni che non c’entrano con il mio mestiere. Quello che so è che il più delle volte mi sono divertita, a prendere in giro, bonariamente, i clienti che avevano senso dello humour, a fotografare l’animo di tanti esseri umani e a osservare le esperienze da un punto di vista privilegiato. Non hai modo di conoscere bene qualcuno fin quando non ci vai a letto. Così ho visto la parte vera di certi esseri umani e ne ho goduto, perché a me chiedevano altrettanta franchezza e non c’è mai stato un solo cliente che da me si sia sentito giudicato.

Con me finiva l’ansia da prestazione, la preoccupazione di non essere all’altezza, o quella di dover per forza erigersi sull’attenti in vista dell’amata. Io sono stata in grado di confortare molti uomini e perfino alcune donne. Li ho tirati fuori da una zona buia della loro vita. Li ho rifocillati di umanità ed empatia. Li ho baciati nei punti sensibili, quelli delicati, dove fa più male. Sono stata e sono ancora la loro confidente, amica, amante, psicologa, un’ascoltatrice attenta ai loro bisogni e una terapeuta dell’aspetto più importante e bistrattato per molti esseri umani: la sessualità.

Voi non potete immaginare quanti uomini siano impreparati, imbranati, impauriti, perché non hanno la più pallida idea di come vivere una gioiosa sessualità. Chi dice che i clienti di una prostituta sono tutti violenti non ha mai fatto il mio mestiere perché altrimenti saprebbe che gli uomini, in gran parte, stanno a testa bassa, ad aspettare inutilmente un’erezione o a chiedere soltanto di non essere derisi perché la pressione è troppa. La cultura che fa male a tutti noi fa male innanzitutto a loro. Hanno il dovere di essere machi, riusciti, efficienti, dall’erezione e dalla prestazione perfetta. Ma sul serio credete a tutte le parole vuote che vengono diffuse da uomini spocchiosi che si vantano di aver “trapanato” questa o quella?

Dopo essere stati con una come me potranno anche dire di averle “sfondato il culo” perché è questo che si aspettano gli amici, i colleghi, gli altri uomini, tutti a mentirsi gli uni con gli altri, ma quasi mai è vero. Le donne sanno, ne sono certa, che dietro tanta sfrontatezza spesso c’è una montagna di insicurezza. A letto vedi gli uomini per quel che sono in realtà: fragili, impauriti, bisognosi d’affetto, di carezze, di rilassarsi, perché sempre sotto pressione per un motivo o per un altro. Non sto dicendo che la fragilità sia esclusiva degli uomini ma, secondo il mio punto di vista e secondo la mia esperienza, le donne sono più abituate a renderla evidente, gli uomini invece no.

Molti sono ancora tristemente vittime di una cultura maschilista che li vuole a misurarsi, l’un con l’altro, il pene per fare a gara a chi ce l’ha più lungo. Sono terrorizzati all’idea che si scopra che non ce la fanno ad avere una normale erezione e temono di essere etichettati come “froci”, perché per loro l’omosessualità significa il fallimento più assoluto. Sono perciò uomini, influenzati in larga parte da una cultura omofoba, come se essere froci volesse dire essere “impotenti”, che temono di essere fallimentari in quanto maschi. Non ce la fanno a dire a se stessi che il valore della propria vita non si misura dalla buona riuscita di un’erezione o dalla durata della stessa.

Mi hanno parlato di relazioni monche, donne con le quali non riuscivano a parlare abbastanza o che avevano troppi guai e troppe incertezze per pensare pure a quelle dei mariti, fidanzati, conviventi. Le prostitute diventano l’ultima risorsa, a volte anche la prima, per una larga schiera di uomini che sono troppo umiliati per fingere di voler fare i cavalieri e i nostri salvatori, giacché solo un misogino, autoritario e sovradeterminante, può ritenere di voler salvare una donna che non vuole essere salvata. Diventano una risorsa per uomini che hanno soltanto bisogno di rilassarsi e respirare, in piena libertà, senza temere giudizi e sentenze.

Ho avuto clienti di ogni tipo e alcuni volevano soltanto imparare a ridere di sé. Altri volevano essere cullati o volevano fare sesso eccitandosi per il baratto di intimità più che per la vista di due tette e un culo. Noi prostitute siamo sempre state viste come nemiche dalle altre donne, quelle che hanno bisogno di segnare limiti sulla morale sessuale di ciascuno per evitare di sentirsi inadeguate. Sono quelle che giudicano le altre, i propri compagni, se stesse e non sanno farne a meno. Sono le vittoriane del secolo corrente, le moraliste, le bacchettone che non hanno la più pallida idea di quel che noi viviamo e di quali siano davvero le nostre esigenze. Oggi potete chiamarle fanatiche, neofondamentaliste, proibizioniste o abolizioniste.

Io so solo che dopo 15 anni non ho ancora deciso di smettere e che ho ancora tanta strada davanti. E chi lo sa: un giorno, forse, potrei scrivere un libro per dire com’è stata la mia vita. Nessun@ però provi a prevedere quel che scriverò o ad immaginare la firma di una vittima. Io non lo sono e non lo sono stata. Non tutte vivono un’esperienza grama. Dunque perché non accettare che prenda voce anch’io?

Ps: è una storia vera. Grazie a chi me l’ha raccontata.

laglasnost

Prostituzione e paternalismo di Stato

picassoAlcuni parlamentari del Pd hanno presentato una proposta di legge - la n. 1838 - che ancora una volta parla di prostituzione. [...] costoro decidono che lo sfruttamento della prostituzione si attesterebbe al 95 per cento, lasciando che solo a un 5 cento scarso sia riconosciuto il diritto di potersi dire espressione di un mestiere gestito in modo autodeterminato dalle sex workers.
Eretica, Cronache del Garantista ...

Abbatto i muri
30 04 2015

Dibattito infuocato attorno al tema della prostituzione. Sui social incombono i toni di abolizioniste che stanno compiendo una crociata per la fine di quello che loro chiamano ‘sistema prostituente’. Punizione per i clienti, boicottaggio delle attività delle sex workers, invisibilizzazione delle istanze dei/delle sex workers, chilometri di polemiche su un termine, sex work, che infastidisce perché in fondo dice che il lavoro sessuale è lavoro. Così hanno scelto di chiamarsi le persone che vendono servizi sessuali e così dobbiamo chiamarle noi che diciamo di avere rispetto di chi in modo autodeterminato si dichiara ‘soggetto’.

Poi ci sono quelli che sostengono di voler consentire ai/alle sex workers di pagare le tasse, gli serve che facciano cassa e però sono più orientati verso la riapertura delle case chiuse che mai sono piaciute ai lavoratori e alle lavoratrici sessuali e mai certo gli piaceranno. Che siano abolizioniste o che siano persone che vogliono relegare i/le sex workers al chiuso, lontano da occhi di persone moraliste, si tratta sempre e comunque di gente che esprime lo stesso orientamento: delegittimano i soggetti a nome dei quali dichiarano di voler decidere; li criminalizzano o comunque amano renderli funzionali ai loro progetti ideologici.

Da un lato alcune abolizioniste che considerano valida la parola dei/delle sex workers soltanto quando dichiarano di essere stat* sfruttat* e di aver subito violenze inenarrabili, dall’altro i seguaci delle case chiuse che vorrebbero le ‘prostitute’ di nuovo sfruttate alle dipendenze dello Stato. In entrambi i casi non si considera la parola di chi suggerisce altre soluzioni, di chi descrive piani che includono la capacità di impresa dei/delle sex workers e parla, a ragion veduta, con cognizione di quel che servirebbe per lottare contro la tratta, di prevenzione delle violenze. Chi progetta le leggi in nome dei/delle sex workers finisce per non consultar* mai.

A mettere un po’ d’ordine tra le varie proposte fatte dai parlamentari in materia di prostituzione, sia per quel che riguarda i disegni di legge realizzati senza consultare i/le sex workers che quelli fatti dopo colloqui e confronti con le parti in causa, potrebbero essere i 70 parlamentari che hanno presentato da poco un manifesto in cui si parla di revisione della Legge Merlin. L’annuncio di questa iniziativa ha portato il dibattito, soprattutto in rete, ai massimi livelli di scontro. Volano insulti, episodi di squadrismo evangelizzatore, certe abolizioniste che insultano sex workers e supporters chiamandole tutte, dalla prima all’ultima, ‘pappone’, ‘colluse con i criminali’, e non si riesce a ragionare su un dato certo, ovvero il fatto che la discussione su quanto si ritenga bella o brutta la prostituzione dovrebbe proseguire senza condizionare il dibattito parlamentare necessario alla approvazione di una nuova legge.

Ancora oggi si parla del fatto di concordare o meno con la posizione di chi sceglie di abortire, ma anche chi non farebbe mai quella scelta, infine, ha concluso che è necessaria una legge che soddisfi le esigenze di chi la vuole fare, perché una legge dovrebbe essere sempre laica, a garanzia e difesa di chi non vuole e a garanzia di chi invece vuole. Nessuna persona, o donna, può dire a un’altra donna, come dovrà essere la sua vita. Nessuna donna potrà dire all’altra che se non fa questo o quello è meno femminista, perché il femminismo, per dirla con Amanda Palmer, dovrebbe consentire a te a te a te di essere quello che vuoi, rispettando la tua decisione, la tua scelta, senza che mai tu possa imporre a me quello che non voglio e lo stesso vale per te.

Affinché sia restituita ai/alle sex workers la dignità di soggetti e perché siano ascoltat* da chi dice di voler promuovere leggi che parlano di loro, il Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute, Codacons, l’Associazione Certi Diritti, una rete di sex worker, escort, gigolò, promuove per il 30 Aprile, vigilia del 1 Maggio, festa di lavoratori e lavoratrici, inclusi quelli che operano nella vendita di servizi sessuali, una conferenza stampa che si terrà alle ore 15.00, a Roma, in Via Torre Argentine al numero 76. Più tardi, alle 22.30, a partire dai Fori Imperiali, a far sentire lontano lo slogan “Niente su di Noi senza di Noi“, si svolgerà una sfilata di ombrelli rossi, simbolo dei/delle sex workers, per ricordare perché il 1 Maggio è anche la loro festa.

Così, in un volantino, ci ricordano che: “Non ci hanno mai rispettato, mai considerato, mai supportato, ma ora che hanno bisogno di far cassa eccoli pronti a riconoscerci come categoria lavorativa pur di tassarci senza consultarci. Siamo lavoratrici e lavoratori del sesso e vogliamo poterlo essere alla luce del sole e della luna ma esigiamo rispetto dalle istituzioni e dalla società, da tutti. Prima rinchiuse nelle case chiuse, poi nel limbo del quasi illegale, spinte ai margini perché giudicate immorali e indecorose, all’aperto multate e perseguitate, in casa denunciate e arrestate, costantemente denigrate, insultate, disprezzate e stigmatizzate. E ora improvvisamente vogliono tassarci? Se una legge su di noi vogliono fare, ci devono convocare e ascoltare. Visto che non lo fanno, lo facciamo noi.“

Siate numeros*, con un solo avviso: portate un ombrello rosso.

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