L’Espresso
10 02 2015
Il trucco, per gustarle meglio, è leggere ad alta voce. Con l’enfasi di una nonna che racconta, e l’indugio sui termini gergali: in quel siciliano caricaturale e onomatopeico che, quando vuole, smette di essere dialetto e diventa koinè globale.
“Le principesse di Emma” (edito da Baldini&Castoldi), dove Emma sta per la regista palermitana Emma Dante, è una trilogia che riunisce “Anastasia, Genoveffa e Cenerentola”, “Gli alti e bassi di Biancaneve” (già usciti qualche anno fa per La Tartaruga) e l’inedita “La bella Rosaspina addormentata”. Ed è una rilettura visionaria delle più note favole dei fratelli Grimm. Un libro singolare, a partire dal target di lettura: i più piccoli, ai quali queste storie sono da sempre destinate? O gli adulti, più in grado di intercettare l’ironia di una riscrittura dove di tradizionale, nella forma e nella sostanza, non resta alcunché?
Il filone è quello del revisionismo letterario: l’idea di rilanciare le fiabe dell’infanzia, riadattandole a un mondo dove non solo scenario e modelli sono cambiati, ma persino la morale originale è in discussione. Operazione ricorrente: da “Biancaneve bella sveglia” di Francesca Crovara ed Emanuela Nava (Carthusia) alla “Cenerentola” griffata di Steven Guarnaccia (Corraini); da “La bella addormentata è un tipo sveglio” di Annalisa Strada (Piemme), dove Aurora, una volta ridestata, non ci pensa proprio a convolare a nozze col bel principe, fino alle tante varianti di Cappuccetto Rosso (Teresa Buongiorno, in “Dizionario della fiaba”, Lapis, ne fa una lunga carrellata); da Roberto Vecchioni (“Diario di un gatto con gli stivali”, Einaudi) a Vladimir Luxuria (“Le favole non dette”, Bompiani), tanto per non scomodare i maestri della psicoanalisi, non si contano più le riproposte pop dell’immaginario infantile. Obiettivo: fare falò delle versioni originali, discriminatorie e sessiste. E, soprattutto, irrobustire l’identità delle bambine con colpi di scena dalla loro parte. Cedendo, talvolta, alla tentazione di strafare.
Qui è una realtà pragmatica e disincantata a prendere il posto delle atmosfere Disney dai colori saturi: i sette nani sono minatori che hanno perso le gambe; Cenerentola si chiama Angelina e rimpiange il padre che l’“annacava” (cullava) chiamandola “picciridda mia”; la regina di Biancaneve interpella lo specchio mentre si depila col rasoio. E Maria Pina, alias Rosaspina, canta a squarciagola De André: «Mentre attraversavo il London Bridge, un giorno senza sole... vidi una donna piangere d’amore, piangeva per il suo Geordie».
L’autrice frulla tutto, stereotipi e aspettative, con la passione e l’audacia alle quali ci ha abituati nei suoi lavori sul palcoscenico: da ultimo “Gisela!”, opera di Hans Werner Henze, con la quale ha appena aperto la stagione del Teatro Massimo di Palermo.
Un ruolo decisivo hanno i disegni dell’illustratrice e color designer Maria Cristina Costa, che sottolineano il testo e lo rafforzano, giocando con distorsioni, caricature e segni particolari: nei, baffi, ghigni che raccontano, dei personaggi, qualità morali, caratteristiche fisiche, difetti. Puri divertissement: come i collant che sciattamente scivolano dalle gambe della cattiva di turno.
Perché i conti tornano sempre. Anche quando i finali cambiano e i ruoli s’invertono, chi la fa l’aspetti: vedi la matrigna e le sorellastre di Cenerentola, trasformate in mastino napoletano con due zecche incorporate. E che importa se Rosaspina, smascherato l’amato, scopre che è una donna (dai capelli blu). Lo stupore svanisce con la bellezza di un bacio esagerato. E vissero felici e contente.