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L'ESPRESSO

Takoua, il sogno della libertà diventa un fumetto

  • Lug 10, 2014
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
  • Letto 2874 volte

L’Espresso
10 07 2014

L'infanzia alle porte del Sahara nella bianca cittadina di Douz, il distacco dal padre durante la dittatura di Ben Ali, l'arrivo in Italia, la scelta di indossare il velo e un processo d'integrazione non privo di ostacoli.

“My Name Is Takoua” è lo short documentary che affronta la storia della giovane disegnatrice tunisina Takoua Ben Mohammed.


Girato con il solo utilizzo di una reflex digitale dai giornalisti Antonella Andriuolo e Lorenzo Cinque, impegnati da settembre nel lancio del service multimediale REC, il video nasce dalla volontà di raccontare il percorso artistico, ma soprattutto personale, della graphic novelist Takoua, figlia di un rifugiato politico, costretto ad abbandonare la Tunisia durante gli anni '90 a causa di forti e continue pressioni governative.

È in quel periodo che Takoua inizia a sviluppare una passione, quella per l'impegno sociale e il disegno - oggi sua principale attività - che si manifesta con la grande attenzione e il sentito coinvolgimento verso le tematiche legate a Primavera Araba, diritti umani, lotta ai pregiudizi e al razzismo.

L'incrocio narrativo del documentario introduce presto anche il padre di Takoua, Mohamed Ben Mohamed, figura rilevante nelle vita della ragazza ed esponente religioso di spicco dell'Associazione Culturale Islamica Al Huda.

Quando padre e figlia si ricongiungono, nella periferia della multietnica Roma, Takoua ha già otto anni e si prepara ad affrontare sfide significative come far accettare la sua fede ai coetanei italiani in un momento storico, il 2001, in cui l'opinione pubblica conosceva l'Islam principalmente attraverso la lente distorta dei terribili attentati dell'11 settembre.

Lo short documentary percorre un anno di vita con Takoua, dalle prime mostre che riconoscono il valore artistico e sociale delle sue tavole manga, alla partecipazione al corteo di Roma in sostegno delle vittime di guerra del regime siriano di Bashar al-Assad, fino all'iscrizione alla Nemo Academy of Digital Arts di Firenze dove la giovane fumettista intraprende la strada verso un nuovo sogno: quello dell'animazione, per trasformare le “statiche” strisce in vere e proprie pellicole animate.

Il lavoro è stato presentato nell'ultima edizione del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia in occasione dell'incontro “Graphic Journalism: l'integrazione attraverso i media”.

Perché il Caimano è gay friendly

  • Lug 04, 2014
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
  • Letto 4206 volte

l'Espresso
04 07 2014

La cosa davvero strana è che il Caimano gay friendly - come l’ha ribattezzato “Il Foglio” - sembra più “macho” dell’altro. Più macho del Berlusca battutaro, quello che ironizzava sulla virilità degli altri dall’alto dei tacchi 
e da dietro il cerone un po’ Drag Queen. 
Al punto che la sortita del Cav sulle unioni civili tra omosessuali è stata presa tremendamente sul serio dai suoi. 
E, pur tacciata di ipocrisia dagli oppositori, è suonata talmente “naturale” da spaventare i teocon. Si è detto che Silvio era omofobo e omofobo rimarrà (per la verità, battute a parte, ha sempre asserito che qualcosa bisognava fare per i diritti). Si è detto che Berlusconi non voleva 
dire proprio quello che ha detto 
(per la verità non è mai stato così chiaro). Si è addirittura detto che l’ha fatto per indebolire Alfano (come se ci fosse bisogno di scomodare i gay). Nessuno, invece, si è fatto la domanda inversa: cosa c’è di destra in quelle parole 
che sembrano così di sinistra?

Diciamo subito che un pezzo di verità sta a palazzo Grazioli. Già, come sempre, quando si parla di lui, c’è di mezzo la famiglia. In questo caso, la coppia di fatto Silvio-Francesca. La giovane fidanzata, 
che assieme al burbero ma certo non bacchettone Vittorio Feltri, s’è iscritta all’Arcigay, ne avrebbe condizionato 
il pensiero. Beh, poco male. Francesca è la consorte fantasma, la first lady di serie B, privata di ogni diritto, estranea in casa propria. È costretta a fare la moglie tirando sul prezzo dei fagiolini ma, a rigor di legge, è solo un’ospite nelle dimore 
del suo Silvio. Se si aggiunge il vizietto del Cav di fare leggi ad personam, il gioco è fatto.
Altro che matrimonio e bella presenza di rappresentanza. Ottenendo che Silvio Berlusconi si pronunciasse in favore di unioni civili e diritti dei gay, la first lady ha dimostrando di essere arrivata in cima alla scala e di potere ormai praticamente tutto.

Il testo base della norma firmato da Monica Cirinnà, oltre a garantire l’unione fra gay, introduce i diritti per 
i conviventi, i milioni di italiani che stanno messi come Silvio e Francesca. E salva capra e cavoli: a lei lo status giuridico di compagna di vita, a lui la pax famigliare con i figli, contrarissimi al terzo matrimonio di papà.

Tutto bene, ma non può essere solo così. Altrimenti le parole di Berlusconi 
si perderebbero nella cazzimma politica. E invece, stavolta, hanno fatto alzare 
la testa a molti. Perché c’è davvero qualcosa di destra nel suo dire di sinistra, nel suo rompere col clericalismo, nel suo ridicolizzare i “teocon” Giovanardi, Roccella, Sacconi, Formigoni e nel 
suo imporre a destra la parola “gay”, 
fino a pochi giorni fa una parolaccia. Con quella dichiarazione pubblica, infatti, Silvio diventa un Tory a sua insaputa.

Imbocca - senza forse nemmeno rendersene conto - la strada che la destra europea, che in Italia gli oppositori di B. invocano come panacea di tutti i mali, 
ha intrapreso da tempo. Già, non è Berlusconi a essere cambiato, ma è il tema della “famiglia gay” che non è più di sinistra. La battaglia dei “diversi” - che proponevano un modello alternativo 
di vita e di relazioni sociali - è ormai da anni diventata la battaglia degli “uguali”, che invoca la parità per tutti. E, nel nome dell’uguaglianza, il matrimonio fra persone dello stesso sesso. Ed ecco il punto: 
se i diritti dei gay possono essere stati erroneamente classificati come qualcosa di sinistra, il “matrimonialismo” non lo è mai stato. È anzi un pilastro culturale dei conservatori. Se oggi festeggiano i gay, che possono andare dal sindaco e dire il fatidico “sì”, domani festeggeranno quelli come Giovanardi, perché solo se tutti 
si sposano, la famiglia è davvero salva. 


E così quella battaglia è diventata per forza una battaglia di tutti, proprio come ha detto Berlusconi. E proprio per questa stessa ragione David Cameron, in Inghilterra, si era già da tempo pronunciato a favore dei matrimoni gay.
Non perché faccia quello di sinistra, 
ma perché li considera l’unica strada per rivitalizzare un’istituzione in crisi profonda. Ecco perché quell’uscita ha fatto questo strano effetto. Ecco perché Gasparri ci ha dovuto pensare su. E perché l’Arcigay si è come anestetizzata di fronte al Caimano gay friendly. Aprendo un dibattito surreale su chi gli dovrà consegnare la tessera, 
se il circolo di Roma o quello di Arcore.

Tommaso Cerno


Ecco le 70 bombe nucleari in Italia

  • Lug 03, 2014
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
  • Letto 4036 volte
L'Espresso
2 luglio 2014

C'è un angolo della provincia di Brescia dove la Guerra Fredda non è mai finita. Negli hangar dell'aeroporto di Ghedi ci sono ancora oggi caccia italiani pronti al decollo per andare all'attacco con bombe nucleari sotto le ali. Incredibile? Non è la sola rivelazione sull'arsenale atomico attivo nel nostro Paese.

Ecco le 70 bombe nucleari in Italia

  • Lug 02, 2014
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
  • Letto 2858 volte

L'Espresso
02 07 2014

Un'immagine satellitare della base di Ghedi mostra parte dell'infrastruttura nucleare
C'è un angolo della provincia di Brescia dove la Guerra Fredda non è mai finita. Negli hangar dell'aeroporto di Ghedi ci sono ancora oggi caccia italiani pronti al decollo per andare all'attacco con bombe nucleari sotto le ali. Incredibile? Non è la sola rivelazione sull'arsenale atomico attivo nel nostro Paese. Una ricerca della Fas, Federation of American Scientists , documenta come l'Italia custodisca il numero più alto di armi nucleari statunitensi schierate in Europa: 70 ordigni su un totale di 180. E siamo gli unici con due basi atomiche: quella dell'Aeronautica militare di Ghedi e quella statunitense di Aviano (Pordenone). Due primati che comportano spese pesanti a carico del governo di Roma: spese che, a 25 anni dalla fine della Guerra fredda e degli incubi nucleari, appaiono ingiustificabili.

Eppure le forze armate italiane sono fiere di essere al fianco della potenza Usa nella missione atomica, tanto da aver festeggiato da poco le “nozze d'oro” di questa alleanza: i 50 anni dell'arrivo delle testate nucleari a Ghedi. Un anniversario celebrato con tanto di torta alla panna con le bandierine e una targa commemorativa che loda queste armi terribili “per avere protetto le nazioni libere del mondo”.

Ufficialmente, questo arsenale in Italia non esiste: né il governo di Washington né quello di Roma hanno mai ammesso la loro presenza. E nella targa commemorativa appena inaugurata non si accenna neppure ad esse: si parla genericamente di “missione Nato”. Il riserbo che, però, circonda questi armamenti presenti sul suolo italiano è un classico segreto di Pulcinella. Che viene demolito dall'esperto americano di armamenti Hans Kristensen, direttore del “Nuclear Information Project” dell'organizzazione “Federation of American Scientists” con sede a Washington DC, che ha appena pubblicato un rigoroso studio sulle armi nucleari Usa presenti nella base di Ghedi.

Kristensen cita due informazioni tecniche che permettono di dimostrare la presenza di queste armi a Ghedi: «Uno dei più importanti segni rivelatori è la presenza del 704esimo Squadrone Munitions Support (Munss), un'unità della US Air Force che consta di circa 134 militari e che ha il compito di proteggere e mantenere operative le 20 bombe nucleari B-61 presenti nella base. Il Munss non sarebbe presente nella base se non ci fossero armi nucleari. Esistono solo quattro unità Munss nell'aviazione militare statunitense e sono dislocate nelle quattro basi in Europa dove le armi nucleari sono conservate per essere lanciate da aerei della nazione ospitante».

Il secondo segno rivelatore, spiega Kristensen, è la presenza di alcuni speciali veicoli Nato fotografati dai satelliti: in gergo si chiamano “Nato Weapons Maintenance Trucks” (WMTs), grandi camion militari equipaggiati di complesse tecnologie. «La Nato ha dodici di questi camion, che sono progettati in modo specifico per permettere di fare la manutenzione delle bombe nucleari sul posto, nelle basi in cui sono immagazzinate in Europa. Un'immagine satellitare, fornita da Digital Globe attraverso Google Earth, mostra uno di questi camion Wmt parcheggiato vicino gli alloggiamenti del 704esimo Squadrone Munss a Ghedi in data 12 marzo 2014. Un'immagine più vecchia del 28 settembre 2009, mostra due camion Wmt nella stessa posizione», scrive Kristenssen.

Le venti bombe di Ghedi sono di proprietà americana, custodite da militari statunitensi. Hans Kristensen spiega a "l'Espresso" che gli ordigni della base sono di due tipi: i B61-4 con potenze da 0.3 a 50 kiloton e i B61-3 con potenze da 0.3 a 170 kiloton, ovvero 11 volte la carica dell'atomica che distrusse Hiroshima nel 1945. Ma è previsto che queste armi devastanti vengano sganciate da cacciabombardieri Tornado italiani: i velivoli del Sesto Stormo. Un reparto celebre, i cui piloti vengono chiamati “I diavoli rossi”: sono stati i protagonisti delle campagne aeree in Iraq nel 1991, in Bosnia nel 1996, in Kosovo nel 1999 e due anni fa in Libia. Assieme alle missioni di bombardamento convenzionale, gli equipaggi vengono continuamente addestrati per l'eventualità di uno “strike nucleare”. E nel futuro sono destinati a proseguire questo doppio compito sugli F-35, che avranno la capacità di imbarcare gli ordigni nucleari.

Ma questa eredità della Guerra Fredda pone un triplice problema, che dopo cinquant'anni di silenzio dovrebbe finalmente venire affrontato dal Parlamento: le spese a carico dell'Italia per l'arsenale nucleare, la sua legittimità in base ai trattati internazionali e i pericoli per la popolazione.

RISCHIO ATOMICO
Esistono pericoli per la popolazione italiana legati alla presenza di queste armi nella basi di Ghedi e Aviano? Ovviamente tutta la materia è coperta da un ferreo segreto militare. Kristensen, però, non manca di ricordare uno studio del 1997 commissionato dalla stessa US Air Force che evidenziava il rischio di esplosione nucleare nel caso in cui un fulmine avesse colpito il deposito di un ordigno nella fase di smantellamento, ossia quando la testata viene smontata dal resto della bomba. Un'eventualità remota, ma che è stata presa in seria considerazione dal Pentagono. Probabilmente questo è uno dei motivi che hanno portato la Nato a pianificare una sostituzione graduale dei camion speciali Wmt con veicoli più avanzati, in gergo militare “Stmt”, che offrono anche una protezione maggiore dai fulmini. Dieci di questi Stmt sono pronti per le basi di Italia, Belgio, Olanda, Germania, Turchia, i cinque paesi in cui sono schierate tutte le armi nucleari americane presenti in Europa. La consegna dei camion Stmt è prevista per questo mese: costano un milione e mezzo di euro ciascuno.

LEGITTIMITA'
Come fa notare l'esperto Hans Kristensen, la presenza di questi ordigni americani pronti all'uso nelle basi italiane pone numerosi quesiti. I nostri piloti si addestrano per essere sempre pronti a utilizzare le bombe nucleari, come previsto dal patto segreto con gli Usa. Ma l'Italia e gli Stati Uniti hanno firmato il Trattato di non proliferazione, che impone di “non ricevere armi nucleari o il controllo diretto o indiretto di esse da nessuno”. È vero che le armi nucleari sono arrivate a Ghedi nel 1963, in un periodo precedente al Trattato di non proliferazione. Oggi però questo accordo è una pietra fondante della comunità internazionale: come si può conciliare con quello che avviene a Ghedi?

SPESA PUBBLICA
Il problema dei costi, infine, è un altro grande punto dolente. Kristensen non fornisce cifre, ma scrive che l'Italia «si fa carico della presenza nella base di Ghedi del 704esimo Squadrone Munss, dell'aggiornamento delle misure di sicurezza necessarie per proteggere le armi, dell'addestramento dei piloti e del mantenimento degli aerei Tornado che devono attenersi a rigorose procedure di certificazione per essere idonei alle missioni nucleari. E inoltre ci si aspetta che il costo nella messa in sicurezza delle bombe B-61nelle basi europee aumenti più del doppio nei prossimi anni (fino a 154 milioni di dollari) per assicurare gli aumentati livelli di sicurezza richiesti dall'immagazzinamento delle armi nucleari americane». Tutti costi che, scrive Kristensen, sono sempre più difficili da giustificare, data la grave situazione finanziaria dell'Italia.

Lo studioso dà alcune misure per far capire l'incidenza della crisi economica nel ridimensionamento delle spese militari: le ore di volo annuali dell'Aeronautica sono scese da 150mila nel 1990 a 90mila nel 2010, l'addestramento è stato ridotto dell'80 percento tra il 2005 e il 2011. E altri tagli sono in arrivo. In queste condizioni, conclude lo studioso, sarebbe meglio che l'Italia mantenesse una forza nucleare solo se davvero le servisse. Ma abbiamo veramente bisogno delle bombe atomiche?

Nella targa commemorativa che celebra il 50esimo anniversario, le armi di Ghedi vengono celebrate, seppure senza menzionarle, per “aver protetto le nazioni libere del mondo” anche dopo la fine della Guerra fredda. «Questa, nel migliore dei casi è un'esagerazione», scrive Hans Kristensen, «è difficile, infatti trovare una qualche prova che le armi nucleari non strategiche schierate in Europa dopo la fine della Guerra fredda abbiano protetto una qualsiasi cosa o che la loro presenza sia in qualche modo rilevante. Oggi la più grande sfida sembra essere quella di proteggere queste armi e di avere i soldi per farlo».

Negli Usa le cure ai gay per diventare 'etero'

  • Lug 01, 2014
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
  • Letto 3665 volte

L’Espresso
01 07 2014


Con diciannove stati in cui il matrimonio fra persone dello stesso sesso è legale e 31 stati in cui è intervenuta la legge a dichiarare incostituzionali i divieti esistenti in tal senso. Con un presidente che, in particolare negli ultimi tre anni, ha fatto dell’eguaglianza dei diritti uno dei punti centrali della sua amministrazione. Con un’opinione pubblica sempre più critica verso le discriminazioni basate sulle scelte sessuali, gli Stati Uniti sembrano, a uno sguardo superficiale, una “terra promessa” per la comunità gay, lesbica e transessuale.

E, per certi versi, lo sono: matrimonio, adozioni, carriera non sono più miraggi riservati agli eterosessuali, tanto che anche molte aziende se ne sono accorte e hanno cominciato a rappresentare, nei loro spot pubblicitari, famiglie diverse da quelle “tradizionali”, dove per tradizionale si intende “alle quali siamo abituati” perché composte da un uomo e una donna.

La realtà, tuttavia, è meno rosea. Soprattutto quando si scopre che in soli due stati, la California e il New Jersey, sono state vietate le cosiddette “terapie per la conversione dei gay” che, invece, in tutti gli altri, sono ammesse e perfettamente legali. “Ho perdonato mia madre e mio padre perché loro erano convinti di fare ciò che dovevano per “salvare” un figlio dalla perdizione”, dice Samuel Brinton, 26 anni, laureato in Ingegneria Nucleare ad Harvard e uno dei più ascoltati attivisti del movimento LGBT che, per un anno, quando viveva in Kansas, è stato sottoposto a terapie che dovevano “curare” la sua omosessualita’.

Figlio di un missionario battista, Samuel si era ritrovato in ospedale, per la prima volta, mentendo sull’origine del suo “incidente”, dopo che suo padre, al quale aveva rivelato di provare attrazione sessuale per un suo compagno di scuola, lo aveva colpito duramente. Le “punizioni” corporali erano durate per un po’ facendo salire la quota dei suoi ricoveri di urgenza a sei; perciò la scelta era caduta sulle soluzioni che garantivano la “restituzione” di un figlio modello, purificato dal suo peccato.

La terapia, una vera e propria tortura legalizzata, era iniziata con un periodo durante il quale a Sam veniva ripetuto, quotidianamente, che lui era l’ultimo gay rimasto vivo perché il governo li aveva uccisi tutti e lo stesso avrebbe fatto con lui se lo avesse scoperto; per spaventarlo ulteriormente lo convinsero anche che era malato di AIDS.

Contestualmente, il ragazzo era stato sottoposto ad una terapia “fisica” che associava immagini “peccaminose” con il dolore: Sam, infatti, mentre guardava foto di uomini in atteggiamento affettuoso era costretto a stringere fra le mani cubetti di ghiaccio o cose bollenti. “Ancora oggi" racconta nei suoi incontri pubblici "quando stringo la mano ad un uomo sento una certa sofferenza”. Venne poi il tempo del “mese dell’inferno” in cui gli venivano conficcati quotidianamente degli aghi nelle dita per mandargli scariche elettriche ogni volta che i suoi occhi si trovavano di fronte ad immagini “proibite”. La vista di un uomo e una donna in atteggiamenti intimi non produceva nessun effetto negativo, ovviamente.

La storia di Sam si evolve quando, disperato, decide di lanciarsi dal tetto di casa. “Tutto il dolore che subivo, però" dice Sam "mi aveva fatto capire che morire non era coì semplice e che lanciarsi dal tetto avrebbe potuto significare anche solo procurarsi una sofferenza ancora più atroce”. Da lì la decisione di “fingersi guarito” per convincere i genitori a fargli smettere le terapie: dopo circa dieci anni, Sam, sentendosi abbastanza forte, fa “coming out” e viene cacciato di casa.

“Ho provato a ritornare per vedere i miei fratelli" dice "ma mio padre ha minacciato di uccidermi e allora ho smesso di insistere”. Anche in occasione del Gay Pride di domenica scorsa, Sam ha ricordato via Facebook l’inutilità delle terapie di “conversione” che però restano una triste e pericolosa realtà in quasi tutto il paese.

E se l’Illinois e lo stato di New York sembrano essere vicinissimi a una risoluzione sul modello della California e del New Jersey, i repubblicani del Texas hanno adottato, un paio di settimane fa, una piattaforma che include il sostegno per le terapie che mirano a “convertire gli omosessuali in eterosessuali”. Grazie al voto dei circa diecimila accorsi, come ogni anno, a Fort Worth alla convention repubblicana, la possibilità di “curare” i gay dall’essere omosessuali dovrebbe diventare un punto centrale della campagna presidenziale del 2016.

Ovviamente, per evitare di incorrere in qualche stop da parte della Corte Suprema, Cathie Adams, presidente del Forum conservatore “Texas Eagle”, precisa che “nulla è obbligatorio ma le terapie devono essere disponibili se scelte dal paziente”. Pazienti, ricordiamo, quasi sempre minori di diciotto anni, che come Samuel, non possono scegliere un bel niente e subiscono torture che neppure una vita lunga e felice potrà mai del tutto cancellare.

E siccome i repubblicani del Texas, come il padre di Samuel, picchiano duro ma solo “in nome di Dio e dell’amore”, hanno anche deciso di contestare le decisioni della California e del New Jersey perché “limitative” della libertà personale.

Poco importa, evidentemente, che le maggiori organizzazioni per la tutela della salute mentale abbiano espresso dura condanna, in maniera ufficiale, di queste terapie che, sottolineano, non si basano su nessun dato scientifico che ne supporterebbe la “validità o la sicurezza”.

“Le terapie per la conversione dei gay" ha dichiarato intanto un portavoce del governatore, Andrew Cuomo "sono una pratica oscena e discreditata che non può trovare posto nello Stato di New York”. L’Assemblea di Stato ha passato la regolamentazione che le renderebbe illegali ma i repubblicani, che controllano il Senato, ne hanno bloccato la votazione in aula. Non tutto, però, è ancora perduto. La battaglia continua e “io sono pronto a firmare la legge”, ha reso noto Cuomo.

l'Espresso
20 06 2014

Un attacco vergognoso. Segno che l'omofobia non è un passato, ma un presente quotidiano. Il giornalista dell'Espresso risponde: «Capita tutti i giorni a ragazzi che non possono denunciarlo come ho potuto fare io». Per questo «Serve una legge efficace». Sullo sfondo, una polemica locale. Ma importante

La risposta è stata più forte dell'attacco. Molto più estesa, sentita, trasversale. L'attacco: un troll, un account twitter con sette follower e un profilo inneggiante al nazismo, pubblica una foto agghiacciante: una tavola imbandita con intorno dei cappi. E scrive «Finocchio di merda, stasera sei invitato a cena... porta anche i tuoi amichetti, mi raccomando». Destinatario è Tommaso Cerno, giornalista dell'Espresso. Che ripubblica l'insulto ricevuto. Ed ecco la risposta: centinaia e centinaia di messaggi di solidarietà. Da esponenti politici di destra e sinistra, colleghi, attivisti, ragazzi e cittadini. Scrivono #Iostoconcerno. Nichi Vendola: «Sono davvero stufo di insulti e omofobia», Clara: «Gli insulti a gay nel 2014 sono pura ignoranza», Simona: «Io sto con chi, come Cerno, combatte omofobia e ignoranza a colpi di intelligenza, ironia e ragione».

Perché raccontarlo? «Perché un attacco schifoso come questo, se colpisce una persona come me, ottiene questa risposta, riesce a scatenare quest'incredibile, meravigliosa reazione di solidarietà», spiega Cerno: «Ma quanti insulti così gravi colpiscono ragazzi gay ogni giorno, e loro non possono o non hanno il coraggio di denunciarli? Per tutte queste persone violenze del genere sono un tormento quotidiano, una ferita profonda che non si può rimarginare». «Per questo servirebbe una legge contro l'omofobia efficace», continua: «Anch'io vorrei vivere in un'Italia in cui il gay pride non serve più, in cui la difesa dall'omofobia arriva dalle istituzioni, e non fuori. Ma ancora non è così».

L'insulto su twitter arriva in un momento in cui Cerno si era esposto pubblicamente contro alcune dichiarazioni omofobe in una polemica locale, ma significativa. Il caso parte dalle spiagge di Lignano Sabbiadoro, sempre più vuote per via della crisi, ma anche per colpa di una proposta turistica che fatica ad innovarsi. Proprio per cercare nuove strade era stata chiamata una società specializzata. Che dopo mesi di studi, ricerche, analisi, è arrivata da albergatori e commercianti dicendo: oltre alle famiglie, bisogna puntare sul turismo gay, che è già riuscito in molti casi a risollevare le sorti di località spagnole, italiane ed europee.

Caos: una spiaggia gay? È un ghetto? È una bella idea? A che serve? Come si fa? «Questa proposta non giova a Lignano», dichiara allora ai giornali locali Bruno della Maria, presidente degli albergatori della provincia di Udine: «Chi la presenta dovrebbe almeno dire come fare, che nuovi tipi di servizi introdurre, quali soluzioni adottare, altrimenti fare queste sparate è controproducente per la stessa città. Così ci facciamo solo del male». Il turismo gay fa male? «Dichiarazioni come queste passano per essere normali, qualunquiste, ma sono omofobe. Punto e basta», sostiene Cerno, che ha risposto pubblicamente alla posizione del presidente provinciale, portando ad esprimersi la Federalberghi regionale, che ieri ha preso le distanze dall'albergatore.

La polemica udinese non è banale. Perché a Fregene, pochi mesi fa, due ragazze lesbiche erano state denunciate da una famiglia per essersi appartate in un angolo della spiaggia e baciate in modo considerato eccessivo. «Ho seguito molti casi simili», ha spiegato allora l'avvocato che le difendeva, Gianluca Arrighi: «quasi sempre frutto del pregiudizio e che spesso si sono conclusi con decreti di archiviazione o sentenze di assoluzione». Restano un segnale però, che cambiare atteggiamento serve. Anche in spiaggia, fra gli ombrelloni. Partendo dagli alberghi. E arrivando alle leggi.

Femminicidio, le dimenticanze di Matteo Renzi

  • Giu 17, 2014
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
  • Letto 3765 volte
Carmine Gazzanni, L'Espresso
17 giugno 2014

I dati restano preoccupanti e quanto accaduto sabato sera a Motta Visconti nel milanese ne è la conferma: ancora molto dev'essere fatto per combattere la violenza di genere e l'ondata di femminicidio. È stato, d'altronde, lo stesso Viminale a snocciolare i numeri, non a caso nel giorno delle festa della donna.

L'Espresso
17 06 2014

I dati restano preoccupanti e quanto accaduto sabato sera a Motta Visconti nel milanese ne è la conferma: ancora molto dev’essere fatto per combattere la violenza di genere e l’ondata di femminicidio. È stato, d’altronde, lo stesso Viminale a snocciolare i numeri, non a caso nel giorno delle festa della donna. Mentre calano gli omicidi di genere, non calano quelli che hanno avuto come vittime le donne: dai 528 omicidi del 2012 si è passati ai 501 del 2013, mentre per i femminicidi, all’opposto, dai 159 registrati due anni fa si è arrivati l’anno scorso a quota 177, quasi uno ogni tre giorni. Una tendenza che, purtroppo, pare trovare conferma nel rapporto sull'omicidio volontario pubblicato proprio oggi, realizzato dall’Eures in collaborazione con l’Ansa.

Dal dossier emerge come nel contesto familiare e affettivo la vittima sia principalmente donna (61,1%), di età compresa tra i 25 e i 54 anni. Mentre il killer in oltre 9 casi su 10 è un uomo. E, forse, non è un caso che gli omicidi tra compagni interessino quasi la metà (49,1%) delle vittime totali di uccisioni in famiglia. I dati, poi, raccontano anche di un impressionante trend decennale: dal 2003 al 2012 si sono contati ben 1.838 omicidi volontari consumati all’interno della sfera familiare o affettiva, con una media annua di 184 vittime, pari ad una vittima ogni 2 giorni.

Numeri, insomma, su cui bisognerebbe riflettere e non poco. Anche in ambito istituzionale.

Negli anni, è vero, tanto è stato fatto. Nel 1996 venne approvata la legge sulle “norme contro la violenza sessuale” e poi nel 2009 con il decreto (poi convertito in legge) recante “misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori”. Due provvedimenti importanti che hanno dotato il nostro Paese di strumenti per il contrasto alla violenza di genere.

Affinché però ci possa essere una reale azione di tutela delle donne, si sa, sono necessari fondi di cui possano avvalersi centri e associazioni presenti sul territorio. Ce l’ha detto, d’altronde, anche l’Europa con la Convenzione del 7 aprile 2011 sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ratificata in Italia il 19 giugno scorso. Cristallino l’articolo 8: “Le Parti stanziano le risorse finanziarie e umane appropriate per un’adeguata attuazione di politiche integrate, di misure e di programmi destinati a prevenire e combattere ogni forma di violenza rientrante nel campo di applicazione della presente Convenzione”.

Ed ecco allora che - anche in funzione delle disposizioni comunitarie - nell’agosto del 2013 è stato approvato un altro decreto tramite cui si prevede anche un finanziamento “per la realizzazione di azioni a sostegno delle donne vittime di violenza”. Dieci milioni per il 2013. Ma non basta: governo e Parlamento sembravano voler fare realmente sul serio, e allora è stata inserita un’ulteriore norma nella legge di stabilità 2014, attraverso cui si è incrementato il fondo di 10 milioni di euro per ciascuno degli anni 2014, 2015 e 2016. Un finanziamento significativo per far partire il “Piano di azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere”.

Un impegno importante, anche perché, per l’anno in corso, risultano a disposizione non solo i 10 milioni previsti per il 2014 ma anche ulteriori 8 di risorse non utilizzate nell’anno precedente. Per un totale di 18 milioni di euro. E, in effetti, già si saprebbe come investirli. Basti prendere in mano il bilancio di previsione della Presidenza del Consiglio dei ministri: 10 milioni di euro per il già menzionato “Piano d’azione”; 7 milioni per l’assistenza e sostegno territoriale a donne vittime di violenza e ai loro figli; 300.000 euro per la stipula di convenzioni o accordi finalizzati all’aggiornamento di statistiche sulla criminalità contro le donne e all’istituzione di una banca dati sui possibili servizi offerti; e infine 700.000 euro per la prosecuzione delle attività per il contrasto alla violenza di genere e allo stalking.

Tanti buoni propositi che, ad oggi, restano solo propositi visto che manca la firma. Come lamentano le tante associazioni di settore, i soldi sono fermi al palo poiché nessuno li ha ancora effettivamente stanziati. Il motivo? Bisogna che se ne occupi “il ministro delegato per le pari opportunità”. Questo prevede il decreto del 2013. Peccato però che, ad oggi e contrariamente ai suoi predecessori, Renzi abbia tenuto per sé la delega. E non abbia pensato ad assegnare nemmeno una piccola fetta dei 18 milioni. Insomma, non c’è nessun ministro, viceministro o sottosegretario che possa occuparsi della questione, semplicemente apponendo una firma a quanto già predisposto e previsto a bilancio.

D’altronde anche la compagna di partito di Renzi ed ex viceministro proprio con delega alle pari opportunità, Maria Cecilia Guerra, aveva messo in guardia l’ex premier in un’intervista del 30 aprile scorso: fino ad ora, argomentava la Guerra, il governo Renzi non ha prestato la dovuta attenzione alla tematica, “prima con l’abolizione del Ministero e ora per via di questa delega ancora in capo al Presidente del Consiglio. Mi permetto di dubitare non certo delle buone intenzioni di Renzi nei confronti di questo problema, ma semplicemente del fatto che i compiti del suo ufficio gli lascino lo spazio per occuparsene. Per ora è tutto fermo”.

L'Espresso
11 giugno 2014

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L'Espresso
09 06 2014

Un rapporto di coppia poco soddisfacente. Una ricerca di svaghi virtuali più assidua. Cyber Sex. Film porno. E poi il baratro. Non riuscire più a smettere. E perdere il controllo. Un 'sex addict' racconta la sua storia

DI ANGELA VITALIANO

“In fondo, cercavo solo una “distrazione” che mi permettesse di non tradire mia moglie, invece ho trovato l’inferno”. Parte da una conclusione e da una raccomandazione, che mi farà più volte durante l’intervista: non rivelare il suo nome. Come se un Charlie o un Michael, negli Stati Uniti, fossero facilmente riconoscibili anche solo fra quei 16 milioni che, secondo statistiche sicuramente non esaustive, sono “sex addict” dichiarati e in cerca di aiuto. Gli dico che il nome può sceglierlo lui e che io voglio solo ascoltare la sua storia per poterla raccontare. Steve, questo il nome che sceglie, mi ha chiamato per la prima volta dopo che un suo amico ha acconsentito a metterci in contatto. Ovviamente, il suo numero è schermato e la prima telefonata serve solo a presentarci brevemente. Si comprende subito la sua difficoltà a parlare, a raccontarsi senza essere sopraffatto da quel senso di vergogna che lo accompagna da un po'. Allo stesso tempo, però, ha voglia di fare qualcosa che gli faccia pensare che quel periodo, quello della sua “dipendenza”, è ormai alle spalle e, dunque, può essere condiviso. “Anche per aiutare altri – mi dice – perché è spesso difficile comprendere che il “sesso” sta diventando un problema, almeno finché non è troppo tardi”.

La prima volta che nel paese si è cominciato a parlare, in maniera “scientifica” di dipendenza sessuale è stato nel 1983 quando la Hazelden Foundation, un’organizzazione con sede in Minnesota, pubblicò un libro, ancora in circolazione, dal titolo “Out of the Shadows: Understanding Sexual Addictions”, scritto da Patrick Carnes il quale spiega che la dipendenza dal sesso funziona esattamente come tutte le altre, favorendo dei comportamenti compulsivi che poi, nel tempo, hanno conseguenze molto serie nella vita quotidiana dei soggetti malati.

“Ero sposato da 15 anni – dice Steve – e non avevo mai tradito mia moglie. La nostra era una vita “serena”, caratterizzata da una relazione consolidata, un figlio e una bella casa. Il mio lavoro, poi, nella finanza, mi teneva molto impegnato e mi dava anche delle discrete soddisfazioni. Solo il sesso, con mia moglie, era diventato sempre piu raro, troppo raro rispetto ai miei bisogni”. Steve, dunque, ricorre al “rimedio” più semplice e diffuso: la pornografia. “Era una “scappatoia” innocente – racconta – che mi consentiva di dare sfogo alle mie pulsioni sessuali senza, però, tradire mia moglie: punto che per me era fondamentale”.


Internet e la gratuità di molti siti, negli anni, hanno reso la fuga verso il porno sempre più immediata e senza troppi ostacoli. “In pochi mesi, guardare film – continua Steve – era diventata una necessità incontrollabile e, di conseguenza, anche la masturbazione. Non andavo in ufficio senza aver prima visto qualche spezzone di film e consumato il primo orgasmo della giornata e continuavo a ritmi che diventavano sempre più incontrollabili. Persino in ufficio, concentrarmi era diventato difficile e le mie “fughe” in bagno sempre più frequenti”.


Come per ogni altra dipendenza, anche quella sessuale non viene riconosciuta come un pericolo e l’addict ripete a sè stesso, come una cantilena, che potrebbe smettere in ogni momento. “Ci si prende in giro, magari smettendo per qualche giorno, quando ancora è possibile, solo per dimostrare a se stessi di esserne capaci – conferma Steve – ma poi il “richiamo” è troppo forte e si cede senza nemmeno opporsi più di tanto”.


Quando il porno e la masturbazione, però, non bastano più, allora si comincia a diventare più “audaci”, cercando delle donne vere con le quali relazionarsi. “All’inizio – racconta – mi sono limitato al sesso virtuale; cercavo donne che vivessero lontano da me, perché ancora non mi sentivo pronto a tradire mia moglie, ma i film da soli non bastavano più. Con tutte davo sfogo a fantasie che non avevo mai sperimentato e della loro vita reale non mi importava nulla, non mi chiedevo nemmeno se il nome o l’età che mi dicevano di avere fossero reali”.


Uno dei sintomi della dipendenza sessuale sta, infatti, proprio nel considerare i partner solo degli oggetti di consumo e mai come delle persone con cui stabilire una situazione “intima”. “Quando mia moglie, insospettita dal mio cambiamento – racconta ancora Steve – ha scoperto tutto per me è stato dolorosissimo comprendere il male che le avevo fatto e anche separarmi da mio figlio. Ho provato, perciò, a cambiare, smettendola con la pornografia e frequentando una donna in maniera “regolare”. Con lei, però, non riuscivo a sentire nessuna intimità e, quindi, in breve, ho cominciato a considerarla come le donne che incontravo online: un semplice oggetto di consumo”.

Naturalmente, con il “fallimento” del tentativo relazionale, il ritorno al porno e al cyber sex è inevitabile; solo che ora gli stimoli devono essere sempre più intensi e, dunque, le amanti “virtuali” vengono sostituite da amanti reali, incontrate tramite annunci su siti per appuntamenti. “Ero un “consumatore” compulsivo e non me ne rendevo conto – dice – ma il mio lavoro aveva cominciato a risentirne e prendevo sempre più giorni di ferie per poter restare a casa a guardare porno per ore. A quel punto ero malato ma ancora non pronto ad ammetterlo”.

Un giorno, poi, mentre Steve sta andando a prendere suo figlio a scuola, in metropolitana adocchia una donna: si guardano e quando lei scende lui la segue fino a casa dove fanno sesso. “Mio figlio era uscito dalla mia mente completamente – confessa – e quando ho trovato tutte le sue chiamate sul cellulare mi sono sentito veramente un fallito”.

Da qualche mese, Steve frequenta gli incontri dei SAA, Sexual Addict Anonymous, e ha, finalmente, capito la gravità della sua dipendenza. “Come per gli alcolisti o i tossicodipendenti – dice – anche io devo stare “lontano” dalla fonte di dipendenza: niente porno, niente masturbazione e niente incontri casuali. è difficile. Una delle cose più difficili che abbia dovuto fare, ma sono determinato a uscirne fuori. Soprattutto per mio figlio, ma anche per me che, nonostante tutto, sento di aver diritto alla felicità come tutti”.

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Zeroviolenza è un progetto di informazione indipendente che legge le dinamiche sociali ed economiche attraverso la relazione tra uomini e donne e tra generazioni differenti.

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