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L'ESPRESSO

L'Espresso
28 11 2013

Ilaria Cucchi. La famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad ognuno di noi.

Rudra Bianzino indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia. Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà perché la pena è sospesa.

Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti” da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice, è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che provano intere famiglie».

Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia Moretti ha detto: “Potrei essere io”».

Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre 2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale».

Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il 5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona.

Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua. Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani , il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001 durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il 51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese.

Ci sono i volti di tutti loro. Che interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.

Francesca Sironi

L'Espresso
31 10 2013

Le foto e i nomi delle decine di minori siriani morti nel barcone affondato l'11 ottobre a 60 miglia da Lampedusa. La protesta dei familiari. Che lanciano una petizione: "Recuperate i corpi e aprite un'inchiesta". Ma i capi dei governi Ue hanno deciso di rimandare la discussione a giugno 2014.

L'Espresso ha raccolto le fotografie e i nomi dei bambini, dei loro genitori e degli altri profughi siriani che l'Europa ha abbandonato in pasto ai pesci. I capi di Stato e di governo dell'Unione Europea, riuniti a Bruxelles il 24 e il 25 ottobre per i lavori del Consiglio europeo, non hanno dedicato nemmeno una dichiarazione al fatto che, dei 268 morti nel naufragio dell'11 ottobre a 60 miglia a Sud di Lampedusa, soltanto 26 corpi sono stati recuperati durante i soccorsi ai sopravvissuti: le altre 242 salme di padri, madri e bimbi, alcuni di pochi mesi, sono state lasciate in mare con il relitto, nella totale disperazione dei loro familiari, molti dei quali hanno la cittadinanza o la residenza nell'Ue.

Tutte le fotografie e i nomi nel blog Undercover. 

Per la maggioranza dei capi di Stato e di governo europei non è urgente nemmeno la circostanza che nei primi undici giorni di ottobre in Europa siano complessivamente annegate 646 persone, tra cui una sessantina di bambini siriani e sedici bimbi eritrei. E non lo è la coincidenza che tutti loro avessero diritto di richiedere asilo in base alle convenzioni internazionali che gli Stati rappresentati a Bruxelles hanno firmato, ma non avessero trovato altro passaggio se non quello offerto dalla mafia degli scafisti.

Il Consiglio europeo, chiusi i lavori del 24 e 25 ottobre, ha infatti deciso di prendere tempo. E di rinviare soltanto a giugno 2014 una "riflessione di lungo termine sulle politiche dell'immigrazione". Cioè tra otto mesi, dopo le elezioni di maggio per il rinnovo del Parlamento europeo. Una vergognosa furbizia politica per non scontentare il proprio elettorato. E sarà soltanto una riflessione di lungo termine. Non una decisione.

Al di là delle parole di rito, l'ultimo vertice europeo è stato l'ennesima dimostrazione di cinismo e indifferenza. Ola Izoli nel naufragio dell'11 ottobre ha perso il fratello di 19 anni, Mohamed Jafar. E nella sua email a l'Espresso inviata da Dubai, Ola descrive la sua disperazione: «La Croce rossa italiana mi ha detto di avere pazienza. Ma fino a quando? Se mio fratello è ancora sott'acqua, come farò a riconoscere il suo corpo dopo tutto questo tempo?».

Per assistere i familiari come Ola Izoli i governi europei, l'Italia in testa, non hanno istituito nessuna unità di crisi. Nemmeno un numero telefonico dove cercare informazioni attendibili. Al contrario, le dodici famiglie sopravvissute che le operazioni di soccorso avevano separato sono ancora divise tra l'Italia e Malta. Fra di loro alcuni bambini, dai nove mesi ai tre anni. I ministeri dell'Interno e degli Esteri italiano e maltese stanno seguendo la procedura ordinaria di ricongiungimento che richiede mesi. L'Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati sta cercando una soluzione più rapida. Sono famiglie scampate alla guerra civile in Siria. Poi all'inferno del naufragio. Ma dopo tre settimane quei bambini sono ancora in Sicilia. I loro genitori a La Valletta. Una lontananza disumana. E meno male che sia l'Italia, sia Malta fanno parte dell'Unione Europea.

Gli argomenti che i governi europei dovrebbero affrontare urgentemente non mancano. A cominciare dalle ridicole regole dell'assistenza in mare, la cui applicazione nel Mediterraneo è responsabile negli anni di centinaia di morti. Basta il naufragio dell'11 ottobre a denunciarne tutta la loro pericolosità. Il primo intervento è infatti partito da Malta, ad almeno 230 chilometri di distanza. E non da Lampedusa, a 110 chilometri, circa 60 miglia, la metà del tempo necessario. Questo perché il punto in cui il peschereccio stava affondando ricade, secondo gli accordi internazionali, sotto la competenza di ricerca e soccorso di Malta, non dell'Italia. «Le navi militari sono arrivate sul posto dopo quasi due ore dalla prima chiamata di sos», racconta Racha Muhriz. Racha ha perso la sorella Taghrid, 31 anni, e la nipotina Cham, 5 anni, scomparse in mare, ma ha raccolto la testimonianza del cognato, sopravvissuto al naufragio con la figlia gemella e ora trattenuto con la piccola a Malta.

Attraverso le carte nautiche del Canale di Sicilia, l'Espresso ha calcolato che il relitto con il suo carico di corpi rinchiusi nella stiva e nelle camere del ponte principale si sarebbe adagiato su un fondale tra gli 80 e i 100 metri. Una profondità accessibile ai sommozzatori: con l'impiego di una campana pressurizzata e, in superficie, di una camera iperbarica per la decompressione, secondo tecniche comunemente usate dai sub specializzati nella manutenzione delle piattaforme petrolifere, ma anche dalla Marina militare.

I familiari dei dispersi con una petizione chiedono il recupero delle salme. E che al più presto sia eseguita l'ispezione dello scafo affondato e la localizzazione dei corpi: operazione, questa, che la Marina potrebbe concludere nel giro di pochi giorni utilizzando le telecamere di "Pluto", il robot subacqueo teleguidato acquistato dal ministero della Difesa per le attività di sminamento. Un intervento senza alcun rischio per il personale. Sarebbe invece il primo importante passo di un'inchiesta per pirateria e terrorismo: il vecchio peschereccio con almeno 480 profughi a bordo secondo la testimonianza dei sopravvissuti sarebbe colato a picco per i colpi di mitragliatrice sparati da una motovedetta di Tripoli o, sostengono altri superstiti, da una imbarcazione inviata dalle milizie libiche, forse nel tentativo di rapinare i passeggeri.

A bordo c'erano molti professionisti siriani, medici, ingegneri, con le loro famiglie, i bambini e qualche scorta di denaro per l'esilio. Oltre a un centinaio di profughi sub sahariani che erano stati chiusi a chiave nella stiva perché non fossero visti dai siriani durante l'imbarco. I trafficanti libici di Al Zuwarah che avevano venduto il viaggio verso Lampedusa, avevano promesso meno passeggeri del solito. Per questo hanno nascosto gli africani nella stiva. Così ai profughi fuggiti dalla Siria hanno potuto chiedere un prezzo più alto: tremila dollari a testa, invece di milleseicento.

Sempre secondo le testimonianze raccolte a Malta, il vecchio peschereccio era stato affidato a quattro scafisti, tre tunisini e un libico. Con loro anche un passatore siriano di Aleppo: l'uomo che aveva contattato le famiglie e che con la sua presenza a bordo aveva garantito sulla sicurezza. Durante la traversata, il livello dell'acqua sempre più alto nello scafo ha invece spento il motore diesel. A quel punto uno dei tre tunisini è andato a controllare ed è rimasto ustionato da un getto di vapore. Subito dopo sul ponte è scoppiata una rissa tra il passatore di Aleppo e gli scafisti. Alcuni testimoni riferiscono di una sparatoria tra di loro, mentre le famiglie ammassate con i bimbi nelle cabine e gli africani chiusi a chiave nella stiva gridavano disperati. Perché, racconta un papà che ha perso in mare la figlia e la moglie, «ormai era evidente a tutti che saremmo affondati».

Fabrizio Gatti

 

L'espresso
22 10 2013

La società “Lampedusa Accoglienza” non ha nulla a che vedere con l’isola da cui prende il nome. La società è un consorzio appartenente al Gruppo Sisifo, contenitore di una serie di imprese della Lega Coop. “Lampedusa Accoglienza” da alcuni anni è la ditta alla quale la prefettura di Agrigento ha affidato la gestione del centro di detenzione dove vengono rinchiusi per legge gli uomini, le donne, i bambini sopravvissuti alla traversata del mare Mediterraneo.

“Lampedusa Accoglienza”, il suo presidente Antonio Zarcone, 60 anni, e il suo amministratore delegato Cono Galipò, 62 anni, da settimane assistono in condizioni indecenti i profughi arrivati vivi. Così indecenti che, sbarcati sani, i bimbi siriani qui hanno preso i pidocchi. Così scandalose che la società di Zarcone e Galipò ancora non ha fornito coperte di lana, brande, materassini puliti e tanto altro ancora costringendo centinaia di persone già provate dal viaggio e dalle paure che lo hanno provocato, a dormire per terra, a mangiare per terra. Come i cani randagi che, chissà perché, vengono ospitati nel centro di “Lampedusa Accoglienza” e la notte girano ad annusare e urinano sui bagagli, sugli indumenti dei profughi.

“Lampedusa Accoglienza” nel 2012, anno in cui gli sbarchi sono stati quasi inesistenti, ha incassato dallo Stato 3 milioni 116 mila euro. Nel 2011 ha incassato altri 3 milioni 202 mila euro. Poiché riceve circa 30 euro per ogni profugo ospitato per ogni giorno di assistenza, soltanto con le 709 persone presenti ieri Zarcone e Galipò hanno incassato 21.270 euro. Soltanto ieri: 21 mila li incasserà oggi, 21 mila euro al giorno li ha incassati in tutti questi tragici giorni.

Con 21 mila euro al giorno se ne comprano di coperte. Fa invece impressione vedere i bambini avvolti in lenzuola di carta e sdraiati sulla terra o sulle piastrelle del pavimento. Fa impressione guardare le loro mamme stringerli per riscaldarli nel freddo di queste notti di maestrale. I numeri danno l’idea dell’indecenza: 709 reclusi di cui 504 uomini, 69 donne, 136 bambini e ragazzini compresi gli adolescenti non accompagnati. Reclusi sì perché in violazione ai principi costituzionali, dal centro ufficialmente non si può uscire. E le passeggiate in paese possibili per i buchi nella recinzione non sono un normale diritto ma un’elargizione. Questa violazione costituzionale ormai è accettata da tutte le Procure d’Italia che evidentemente fingono di non sapere.

Eppure per ogni persona “Lampedusa Accoglienza”, Zarcone e Galipò incasseranno i compensi anche per le brande, le coperte, le lenzuola, gli spazzolini, il sapone che non hanno fornito. Le condizioni igieniche così scadenti stanno ovviamente ricadendo sulla salute dei profughi. Ieri una bambina siriana è stata trattenuta con il padre nel centro e il resto della famiglia trasferita in Sicilia. La piccola non ha potuto partire perché ha i pidocchi. Ora le hanno avvolto i capelli in un lembo di lenzuolo di carta. Non hanno trovato altro rimedio. Altri bambini e adulti lamentano pidocchi e punture di insetti.

"Io e il mio aborto impossibile"

  • Ott 17, 2013
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
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L'Espresso
17 ottobre 2013

Respinta, trattata con sufficienza, accolta in reparto solo a centinaia di chilometri da casa. Questa è la storia di Sara, e del suo calvario per un'interruzione di gravidanza in Italia. Un dolore che ha deciso di raccontare dopo l'inchiesta pubblicata dall'Espresso.

"Io e il mio aborto impossibile"

  • Ott 17, 2013
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
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l'Espresso
17 10 2013

Respinta, trattata con sufficienza, accolta in reparto solo a centinaia di chilometri da casa. Questa è la storia di Sara, e del suo calvario per un'interruzione di gravidanza in Italia. Un dolore che ha deciso di raccontare dopo l'inchiesta pubblicata dall'Espresso.

Quella che segue è la storia di Sara, 28 anni, attrice ed insegnante di teatro. Una ragazza come tante altre, con una storia simile a migliaia di altre. E che denuncia quanto in Italia sia diventato impossibile per una donna esercitare un diritto che riguarda la sua salute: avere accesso ad una cura scomoda, e dolorosa (soprattutto per chi la richiede) come l'interruzione volontaria di gravidanza. Un'anomalia denunciata dall'Espresso più volte. Ecco la sua testimonianza.

Scopro di essere incinta nel marzo del 2011. Un errore di calcolo del ciclo. Parlo subito con la dottoressa Lisa Canitano , che so essere un faro nella notte, perché non ho intenzione di portare avanti la gravidanza. Poiché però devo andare in scena di lì a poche settimane e non me la sento di affrontare l'intervento, le chiedo di illuminarmi sulla pillola.

Mi spiega che l'unico ospedale di Roma a dare la pillola abortiva è il San Camillo. Mi dice di andarci con le analisi, ma di non nutrire troppe speranze: per prendere la cura è necessario non aver superato le 7 settimane, ed essere ricoverate per 3/4 ore. E al San Camillo ci sono solo 3 letti al giorno.

Vado al San Camillo con il mio ragazzo, verso le 6 di mattina. L'entrata per le interruzioni di gravidanza non è quella di ginecologia, né di ostetricia: si scendono scale, si gira intorno all'ospedale. Quasi a dire: gli aborti? Nel seminterrato! Via, lontano dagli occhi!

Quando arrivo ci sono già circa 20 donne di tutte le età, di tutte le nazionalità. Il reparto è ancora chiuso. Ci mettiamo d'accordo tra noi per l'ordine di entrata. Quando aprono, le infermiere ci dicono senza mezzi termini: «È inutile che ve organizzate, entrate come viene!»

Il reparto è a dir poco fatiscente. I tubi a vista, incrostazioni e infiltrazioni ovunque. Comincio la trafila tra gli uffici. Vada allo sportello A, poi B, poi ritorni alla A. Mi manca la fotocopia del documento, quindi mi mandano via. Devo tornarci il giorno dopo.

Il giorno successivo, nonostante vi fossero altre 25/30 donne in fila, riesco ad entrare nella sala per la visita e l'ecografia trans-vaginale, che verificherà di quante settimane è l'embrione per decidere riguardo alla pillola. Riesco ad evitare il colloquio con lo psicologo: non mi occorre, ho deciso. Entriamo nella saletta in due. Io passo oltre una tenda, l'altra ragazza aspetta.

«No, nun te spoglià tutta, basta una gamba del pantalone e della mutanda. Siediti. Apri le gambe». Procede. Poi si blocca, con lo strumento inserito, e con me lì, con una gamba sì e una no, ad aspettare il responso. È una dottoressa, una donna.

«Carlo! Carlo, vie' qua un po'».

Entra un altro dottore, a malapena mi guarda in faccia, sicuramente non mi saluta.

«Guarda un po' st'embrione...de quant'è secondo te?»
«Boh...»
«Sarà di sei o di sette»
«Boh, direi quasi di sette».

L'hanno deciso così, con un boh.

«Allora, signorina, è quasi di sette, e sicuramente non troveremo un letto libero entro i tempi. Prenoti l'intervento nell'altro ufficio».

Mi tiro su i pantaloni incrociando lo sguardo dell'altra ragazza, mi pare fosse indiana. Mi ricordo che mi è venuta in mente la canzone di De André... "che aveva il tuo stesso identico umore...ma la divisa di un altro colore".

Mi dirigo verso l'altro ufficio un po' stordita, frastornata dalla poca umanità, umiliata e triste. Sì, triste, perché quando una donna decide di abortire non è mai facile, non è mai scontato, non è mai una scelta fatta senza rimorso. Senza dolore.

All'altro ufficio mi fissano l'intervento per l'8 maggio. Al limite dei 3 mesi.

«Ma... sarò già di 2 mesi e oltre l'8 maggio...»

«Signorì, prima non c'è posto. Che le cambia?»

È superfluo spiegare che un mese in più - un mese in più in cui un bambino ti cresce dentro, in cui il tuo corpo cambia, in cui senti la vita nella tua vita - fa un'enorme differenza. Potrebbe anche farti cambiare idea, un mese in più. Potrebbe subdolamente darti il tempo di sentirti troppo in colpa. Aspettare un mese. Non ce la potevo fare. E in più l'8 maggio era giorno di spettacolo: uno spettacolo in allestimento da quasi un anno.

Chiedo alla dottoressa Canitano quale sia l'ospedale più vicino dopo il San Camillo. È a Pontedera, mi risponde. In provincia di Pisa.
Telefono all'ospedale toscano, e le voci mi sembrano più umane. Più calde. Mi fissano un appuntamento proprio allo scadere della settima settimana. Mi spiegano come funziona: una prima pillola, per bloccare l'embrione. La seconda, per espellerlo.

Partiamo di notte, la notte dopo Pasquetta. Arriviamo a Pontedera appena in tempo per l'appuntamento. Per strada non ho fatto altro che vomitare. Per arrivare in tempo prendiamo una multa di 270 euro. Meno 6 punti di patente.

All'accettazione controllano le mie analisi. Ma manca il gruppo sanguigno (al San Camillo non se n'erano accorti), che è necessario, visto che perderò molto sangue dopo la seconda somministrazione. Corriamo come pazzi a cercare un laboratorio privato. Pago altre analisi. Debolissima, dopo il vomito e il prelievo, ritorno in ospedale. Mi somministrano la prima pillola, che blocca l'evoluzione dell'embrione. La seconda dovrò prenderla dopo due giorni, e in quel momento verrò ricoverata.

«Mi raccomando», mi dice la dottoressa, una donna finalmente calma, e comprensiva, e rispettosa: «cerca di non vomitare».

Non vomito: sono stata brava. Sono rientrata a Roma, ho lavorato tutto il giorno lì, quello successivo a Napoli, e poi sono tornata a Pontedera, per la seconda pillola. Ed è andato tutto bene. A parte il dolore, la frustrazione, l'indignazione, la rabbia.

Nella capitale d'Italia solo un ospedale concede quella che è ormai riconosciuta come la misura abortiva più sicura e meno invasiva. Solo un ospedale, e a sole 3 persone al giorno. Solo un ospedale, e non lo fa vedere: queste pratiche sono degne dei sotterranei... non dei reparti puliti e colorati. Non è ammissibile che una donna al settimo mese, in ospedale per il controllo periodico, incroci una madre degenere, che a cuor leggero decide di far fuori suo figlio. Non sta bene.

Nascondiamole, queste "vergogne" della società. Rendiamo loro le cose più difficili, più dure, più umilianti. E anche se il nostro lavoro lo facciamo, veicoliamo il nostro disprezzo per altri canali, meno "verbali".

E se non avessi avuto un uomo accanto, pronto ad accompagnarmi in Toscana?
Se non avessi avuto un'auto, o i soldi per il treno e la benzina?
Se fossi stata ignorante, o una straniera, che non conosce lingua e burocrazia?
Se non avessi avuto una famiglia aperta, pronta a sostenermi in ogni caso?
Se non avessi incontrato Lisa Canitano?

Questo era il racconto di Sara. Che ci tiene ad aggiungere che non è stato facile, fare quella scelta. Per niente. Che l'interruzione di gravidanza è stata dolorosa, prima, durante, e dopo: «A volte ho pensato che se avessi vissuto in un paese con gli asili nido all'università, con i sussidi per le giovani mamme, con qualche possibilità in più del lavoro precario, con più dignità per gli artisti e gli attori... boh, magari ora sarei mamma», conclude: «Non lo so. Sicuramente non ero pronta, allora. E sicuramente il pensiero di quel giorno mi rimarrà dentro per tutta la vita. E sarà un pensiero doloroso, e un senso di colpa insolvibile».



Aborto: la legge che vive solo grazie ai volontari

  • Ott 16, 2013
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
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Francesca Sironi, L'Espresso
14 ottobre 2013

La salute delle donne in Italia viene calpestata ogni giorno. E sull'interruzione di gravidanza le cose andranno sempre peggio. Perché la legge 194 non è mai stata applicata. E i suoi sostenitori ideali, in reparto, sono sempre meno. Parla Lisa Canitano, presidente dell'associazione Vita di Donna.

Obiezione di coscienza, pagano le donne

  • Ott 10, 2013
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
  • Letto 3963 volte
Silvia Cerami, L'Espresso
10 ottobre 2013

In Italia la possibilità di abortire è sancita dalla legge 194, voluta dai cittadini col referendum. Ma 7 ginecologi su 10 sono obiettori di coscienza, e quindi farlo in ospedale è sempre più difficile. Così molte italiane vanno all'estero, fanno su e giù per la Penisola o ricorrono all'aborto clandestino.

Centri antiviolenza, rischio chiusura

  • Set 23, 2013
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
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Giacomo Russo Spena, L'Espresso
22 settembre 2013

Arriva in parlamento il DL sul femminicidio, dove nemmeno si parla dei luoghi in cui, ogni anno, oltre 14000 donne trovano assistenza psicologica e rifugio se sono vittime di soprusi in famiglia. Eppure molte di queste realtà sono allo stremo per mancanza di fondi. E ad alcune non resta che chiudere i battenti.

Centri anti violenza, rischio chiusura

  • Set 23, 2013
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
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Espresso
22 09 2013

di Giacomo Russo Spena

Arriva in parlamento il DL sul femminicidio, dove nemmeno si parla dei luoghi in cui, ogni anno, oltre 14mila donne trovano assistenza psicologica e rifugio se sono vittime di soprusi in famiglia. Eppure molte di queste realtà sono allo stremo per mancanza di fondi. E ad alcune non resta che chiudere i battenti
 
Finanziamenti a singhiozzo. Affitti salati da pagare. Rischio di sfratti. Pochissime risorse da investire. Il lavoro che si trasforma automaticamente in volontariato. Fino, in alcuni casi, alla chiusura di centri e case rifugio per donne maltrattate che dovrebbero svolgere un ruolo centrale e determinante nel contrasto alla "guerra silenziosa" che ogni anno fa in Italia centinaia di vittime.

La situazione dei centri anti violenza (CAV) in Italia peggiora di giorno in giorno, nell'indifferenza del Palazzo. Tagli e difficoltà ad accedere periodicamente alle programmazioni regionali, una mannaia. Il decreto sul femminicidio, varato durante l'ultimo Consiglio dei ministri prima della pausa estiva, non menziona nemmeno i CAV. Per Titti Carrano, presidente della D.i.Re (Donne in rete contro la violenza), nel dl manca "qualunque riferimento al riconoscimento del ruolo che i centri svolgono da anni in Italia: chiediamo il loro coinvolgimento nei tavoli tecnici che si occupano di violenza e lo stanziamento di specifici e adeguati fondi definiti nella legge di stabilità".
Un provvedimento (andrà in aula il 23 settembre) che esclude - come previsto dalla Convenzione di Istanbul - gli interventi di prevenzione. Come quelli svolti dai CAV: supporto legale e psicologico alla donna maltrattata, collaborazione con forze dell'ordine e servizi sociali, Telefono Rosa h24 per le emergenze, attività di promozione culturale con corsi nelle scuole, convegni, seminari e iniziative di vario genere. Poi le case rifugio per ospitare le donne in pericolo e impossibilitate a tornare a casa per paura del compagno aguzzino.
Sono 124 le donne uccise nel 2012 e 14mila quelle che si rivolgono, ogni anno, ai 63 centri anti violenza aderenti a D.i.Re. A questi vanno aggiunti un'altra quarantina autocensiti per un totale di 100 centri presenti sul territorio nazionale. E nel 2013 sono in aumento le donne che si rivolgono ai CAV, sintomo di una maggiore consapevolezza.

"E' arrivata un'ingiunzione di pagamento, siamo a rischio sfratto" denuncia Cinzia Maroccoli, presidente del CAV di Potenza, l'unico dell'intera Basilicata. Si caratterizza per costituirsi parte civile ai processi contro gli uomini maltrattanti. Aperto dal 1989, fino al 2001 è andato avanti con autofinanziamenti. "I soldi arrivano a singhiozzo - spiega - Siamo ancora in avanzo della cifra del 2011 mentre non conosciamo ancora l'importo per il 2013". In mancanza di risorse, ecco la riduzione dei servizi, il lavoro delle operatrici che diventa volontariato e la morosità nella locazione di 1200 euro al mese. Il CAV ha anticipato soldi e si è indebitato con la banca, con la speranza che arrivino i finanziamenti regionali. Prima o poi. Assenti le risorse per ampliare la casa rifugio al momento capace di ospitare 5 donne. "A volte dobbiamo rifiutare le richieste per mancanza di posti e indirizzare le donne maltrattate verso altre strutture di accoglienza" spiega la presidente "La nostra è precarietà esistenziale, non riusciamo a prospettare un intervento di lungo periodo. Ci negano un futuro". E due signore ospitate sono all'ottavo mese e sul punto di partorire.

Altri centri rifugio sono stati costretti direttamente a chiudere. Come il caso a Cosenza del "Roberta Lanzino". Parliamo con la responsabile, Antonella Veltri, che racconta come nel 2010 abbiano preso la sofferta decisione per la mancanza di fondi. Ad oggi sono morosi con il proprietario dello stabile. Rischiavano di chiudere anche il centro di supporto legale e psicologico, per fortuna è arrivata una boccata d'ossigeno: "La Provincia ci ha assegnato un posto". Un passo importante.

"Ovviamente il lavoro" afferma Veltri "resterà volontario e una qualsiasi spesa sarà coperta da autofinanziamenti o iniziative autorganizzate (riffe o vendita di candele per strada)". I pochi spiccioli in arrivo dalla Regione non sono sufficienti.

Se al Sud si evidenziano situazioni limite, al Nord i CAV versano in condizioni poco migliori. A parte il Trentino che è la regione più virtuosa e più attenta al finanziamento dei centri. Secondo un calcolo dell'Unione europea, ogni Paese dovrebbe prevedere un posto sicuro per vittime di violenza di genere ogni 10mila abitanti. In Italia ne servirebbero circa 6mila. Nella realtà sono soltanto 500. A fine anno potrebbero essere ancora meno le case rifugio. Così come le operatrici spesso disincentivate da tale corsa ad ostacoli.

'Noi intersex chiediamo rispetto'

  • Set 20, 2013
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
  • Letto 2991 volte

l'Espresso
20 09 2013

Chi da bambino non è immediatamente riconoscibile come maschio o femmina si trova spesso 'imposto' un sesso dal medico. Decisione che ha pesanti conseguenze sul resto della vita. Ora per la prima volta in Italia gli intersex scendono in piazza, per sostenere il diritto a scegliersi da soli il proprio destino.

Bambini che nascono con organi genitali "ambigui", non immediatamente riconoscibili come maschi o femmine. O che hanno un corpo femminile, ma un corredo genetico maschile. Fino a poco tempo fa, quella dell'"intersessuale" era una condizione che le famiglie nascondevano, e che la sanità tentava di risolvere con operazioni invasive e affrettate. Oggi l'intersex comincia finalmente ad avere un riconoscimento pubblico: gli ospedali e i medici sono sempre più attrezzati a individuare quello che in passato veniva descritto come "ermafroditismo", e che ora la comunità scientifica definisce "disordini della differenziazione sessuale" (dsd); le tipologie sono innumerevoli e presentano variazioni degli organi genitali, dei cromosomi o dell'aspetto fisico.

Ma, soprattutto, cresce la consapevolezza nelle stesse persone intersex: molti di loro, diventati adulti dopo percorsi accidentati, faticosissimi e spesso pieni di sofferenza, cercano di uscire dall'isolamento e cominciano a organizzarsi in associazioni. E contestano il modo in cui sono stati trattati finora: per la prima volta nella storia del nostro Paese scenderanno in piazza, in occasione del congresso mondiale di endocrinologia pediatrica, che si terrà a Milano dal 19 al 22 settembre.

Slogan della manifestazione, indetta contro i medici riuniti a convegno, è "No alle mutilazioni genitali": i movimenti, sostenuti da autorevoli pareri internazionali e perfino da una raccomandazione dell'Onu, ritengono che sia un errore intervenire chirurgicamente sui neonati e i bambini, come oggi accade, e che per eventuali operazioni si debba aspettare l'età del consenso informato. Anche perché spesso a un intervento ne seguono vari a catena, per diversi anni, cure ormonali e pesanti conseguenze sulla psicologia della persona.

La comunità italiana dei medici è di opinione diversa, spesso opposta, anche se negli anni l'atteggiamento è cambiato, ammorbidendosi: oggi, a differenza che nei decenni passati, in svariati casi i dottori decidono di non operare e di attendere che il bambino formi da solo la sua identità.

Va detto subito che per il momento non ci sono dati uniformi sugli intersex in Italia: un registro unico delle nascite verrà creato il 28 settembre con una riunione dei massimi esperti al San Camillo di Roma, come ci spiegano il direttore generale Aldo Morrone e il chirurgo pediatrico Giacinto Marrocco. "Vorremmo che ci fossero solo due o massimo tre centri autorizzati in tutto il Paese per la diagnosi avanzata e gli interventi, in modo da creare poli di eccellenza e non disperdere le specializzazioni", dice Morrone.

"I dati finora disponibili - aggiunge Marrocco - parlano di una nascita intersex ogni 4500/5000 parti, con un incremento del 5% e picchi del 10% negli ultimi 5 anni. Studi ormai consolidati mostrano che c'è una maggiore incidenza dove agiscono i cosiddetti 'disturbatori endocrini', sostanze chimiche presenti nei cibi industriali e in diversi inquinanti. La variazione più frequente, circa il 70% dei casi, è rappresentata dalla sindrome surreno-genitale: bimbe con genitali virilizzati, con il clitoride cioè ingrossato, che si avvicina alla forma di un pene. Segue la cosiddetta sindrome di Morris: individui che geneticamente sono maschi, ma che hanno il corpo femminile, almeno in apparenza. Si scopre poi, nella pubertà, per un'ernia o quando emerge l'infertilità, che hanno dei testicoli interni, ritenuti nell'addome".

"Un altro fenomeno è quello del 'pene ipospadico', ovvero poco sviluppato o malformato in persone geneticamente maschi", continua il chirurgo. "Fino a venti anni fa avrei operato tutti, era diversa la cultura e gli studi scientifici. Oggi mi trovo a intervenire sul 70% dei casi rispetto al passato. Adottiamo politiche più conservative: se possiamo, attendiamo lo sviluppo del bambino. Interveniamo sicuramente quando c'è un rischio sanitario: se ad esempio l'uretra e la vagina sono fuse in un unico canale, ed è impossibile urinare, o se c'è un evidente rischio oncologico".

Antonio Sciotto

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