L'Espresso
21 08 2013
Si chiamano proprio così, come i terroristi italiani di trent'anni fa. Ma sono gruppi di ragazze che nell'Uttar Pradesh pattugliano le strade contro gli stupratori. Dopo aver appreso l'arte del Kung Fun. In un polveroso quartiere alla periferia di Lucknow, la capitale di uno degli stati più poveri e più conservatori dell'India, l'Uttar Pradesh, un gruppo di vigilantes si sta facendo un nome e una fama.
Non si tratta di vigilantes ordinarie. Sono ragazze, soprattutto adolescenti, che pattugliano le strade proteggendo giovani donne dalle molestie sessuali. Se ne vanno in giro indossando la tradizionale Salwar Kamiz, rossa e nera, punendo e umiliando quegli uomini convinti che il sesso sia un'arma molto potente in grado di ristabilire (chissà quale) ordine primordiale della famiglia.
Sono spinte dai dolori del passato. Ogni ragazza delle 'Brigate Rosse' - è questo il loro nome – è infatti stata vittima di uno stupro. Alcune sono state violentate dai loro stessi familiari. E nella maggior parte dei casi i crimini sono rimasti impuniti, la vittima lasciata sola soffrire il trauma in silenzio della propria vergogna. Dicono di essere costrette ad agire, perché nessun altro lo farà.
Non si sbagliano. I crimini sessuali in India sono aumentati da 2.487 nel 1971 a 24.206 nel 2011, secondo le stime ufficiali del National Crime Records Bureau, l'ente pubblico indiano responsabile della raccolta e dell'analisi dei dati sulla criminalità nel Paese.
Ormai la chiamano la 'cultura dello stupro'. I numeri parlano di un abuso commesso ogni 20 minuti, spesso di gruppo. "Questo non è un problema culturale, è un problema sociale, perché in India gli uomini hanno uno status sociale più elevato rispetto alle ragazze", racconta alla Cnn Usha Vishwakarma, ex docente e leader del gruppo.
Ha aperto il suo movimento di 'rondini' contro la violenza sessuale nel 2009 dopo essere rimasta vittima di uno stupro e dopo aver scoperto che una sua allieva di 11 anni era stata violentata da suo zio. "Il suo racconto mi sconvolse", e decise che era il momento di combattere il silenzio della comunità.
Al principio erano solo in 15, oggi sono un centinaio. Ogni 29 del mese convocano una manifestazione per sensibilizzare il Paese e le istituzioni sulla violenza contro le donne. Il giorno commemora lo stupro fatale subito lo scorso anno da una studentessa di 23 anni su un autobus di Nuova Delhi. Un punto di non ritorno. Che ha spinto il governo centrale a varare norme che includessero la pena di morte per i reati sessuali. In corteo, le 'brigatiste', scandiscono due slogan: "Stop alla violenza, ora!", "Vogliamo più sicurezza".
Si allenano in una palestra fatiscente e praticano le arti marziali seguite da un istruttore di Kung Fu. Gyan gli insegna a sferrare calci e pugni, e a rompere la presa di un aggressore che vuole abusare del loro corpo. Una foto sbiadita del leggendario Bruce Lee le guarda con approvazione, mentre ciascuna di loro attacca il maestro. Sono determinate, hanno la rabbia nel cuore. "Quello che sono costrette a fare è umiliante", spiega Gyan. "Io lo faccio per mia figlia".
Pooja, 18 anni, ride, ricordando la lezione inferta ad un ragazzo "troppo maleducato". "Lo abbiamo circondato, bloccato prendendogli le braccia. All'inizio ha pensato che stessimo scherzando, ma noi non scherzavamo. Lo abbiamo sollevato in aria, lasciato cadere a terra e schiaffeggiato".
"L'idea è quella di umiliarli. Siamo all'interno dei nostri diritti - ribadisce Vishwakarma - questa è auto-difesa, la polizia è assente per cui per cui dobbiamo difenderci". Mentre parla indossa anche lei la Salwar Kamiz rossa e nera. Rossa come il pericolo e la lotta, nera - dice - come la protesta.
L'Espresso
06 06 2013
Il quotidiano 'Herald Tribune' (versione europea del 'New York Times') dedica la sua prima pagina ai centri di detenzione per migranti nel nostro Paese. Carceri di massima sicurezza, con guardie in tenuta antisommossa e detenuti allo stremo che non hanno mai commesso alcun reato: «Strutture inumane, inefficaci e costose»(05 giugno 2013)ANSA/Tonino Di Marco"Il Cie alla periferia di Roma, dove gli immigrati illegali possono passare mesi in attesa di essere rimpatriati, non è una prigione. Ma la differenza è solo una questione di semantica". Si apre così l'articolo con cui l'International Herald Tribune apre oggi la sua edizione europea: un durissimo atto d'accusa all'Italia per il modo in cui, negli 11 centri di Identificazione ed Espulsione presenti sul nostro territorio, vengono trattati gli stranieri sprovvisti di permesso di soggiorno o asilo politico in attesa di essere espulsi dal nostro paese.
Il pezzo, dal titolo 'L'Italia sotto accusa per la detenzione degli immigrati illegali' ('Italy faulted on detention of illegal immigrants') è firmato dalla della corrispondente Elisabetta Povoledo ed è corredato di immagini del centro romano di Ponte Galeria e di quello di Bari. Si tratta di una lunga requisitoria sul fallimento del sistema dei Cie. Riportando le voci critiche che da più parti, negli ultimi anni, si sono alzate contro la gestione di queste strutture, il quotidiano li descrive come "inumani, inefficaci e costosi", riflesso di una "politica che identifica l'immigrazione con la criminalità, senza tener conto né del beneficio economico dell'emigrazione né della natura multiculturale della società".
A sostegno di queste affermazioni, si descrivono nel dettaglio le condizioni di vita del Cie romano di Ponte Galeria, teatro nel corso degli ultimi anni di varie rivolte degli immigrati reclusi, le cui condizioni di vita al limite della disperazione sono state più volte denunciate dal nostro giornale.
La descrizione che la giornalista dell'Herald Tribune fa del centro di detenzione è, volutamente, a metà tra il campo di concentramento e il carcere di massima sicurezza. Parla infatti di "alte cancellate di metallo che separano le file di basse costruzioni in singole unità che vengono chiuse durante la notte, mentre i cortili in cemento restano illuminati a giorno", mentre alcune guardie indossano "tenute antisommossa". I detenuti, spiega ancora, "possono indossare solo ciabatte o scarpe senza lacci", per non far male a se stessi o agli altri e nella sezione maschile, dopo una rivolta, "gli oggetti appuntiti, tra i quali penne, matite e pettini, sono stati vietati".
Sottolineando come le autorità italiane non smettano di precisare che il sistema di detenzione dei Cie è in linea con le linee guida dell'Unione Europea, l'articolo prosegue citando la denuncia dell' associazione LasciateCiEntrare, che fa campagna per la loro chiusura, secondo la quale "questi sono non-luoghi che non hanno alcun interazione con la società italiana, che è a malapena a conoscenza della loro esistenza", luoghi di sofferenza e "discariche politiche e sociali di cui si accorge a livello nazionale soltanto quando scoppia una rivolta".
Il quotidiano ha raccolto anche i dati di Medici per i Diritti Umani relativi alle pessime condizioni di salute dei detenuti: dagli atti di autolesionismo al massiccio consumo di anti-depressivi. Ma soprattutto sottolinea come, oltre che crudele, il meccanismo dei centri di detenzione ed esplusione sia anche inefficace. Solo la metà dei detenuti, circa 400 persone, sono effettivamente state espulse lo scorso anno, "una porzione ridottissima dei circa 440 mila irregolari che si stima vivano in Italia".
Citando infine un rapporto del ministero degli interni del 2013 che definisce "indispensabili" i centri, l'autrice del reportage dà la parola a chi vi è o vi è stato rinchiuso. Dall'egiziano Karim, la cui storia ad aprile è finita sui media nazionali, a un tunisino di 40 anni, ex muratore, che è finito in un Cie dopo aver scontato un periodo in carcere per spaccio di droga. E che di questa nuova condanna senza un termine stabilito dice: "La galera era meglio che stare qui".
L'Espresso
18 06 2012
Accordi segreti con la Libia, diritti umani violati, barconi respinti senza controllare chi c'é a bordo, nessuna struttura per l'integrazione. Così il nostro Paese si avvicina alla giornata mondiale del rifugiato che si celebra il 20 giugno
(18 giugno 2012) Stazione di Ventimiglia, ore due di notte. L'atrio si riempie: ragazzi marocchini, tunisini, iracheni, somali. Vengono a dormire qui, perché ci sono luce, amici e un po' meno di umidità. Chissà quanti fra di loro avranno in tasca il permesso di soggiorno come rifugiati politici. Perché non sarebbe strano, anzi: «A Milano ormai sono migliaia - racconta Marica Livio, psicoterapeuta, esperta di etnopsichiatria - gli eritrei che vivono abbandonati negli scali ferroviari, nonostante abbiano ricevuto lo status di rifugiato e la conseguente protezione. Una protezione che rimane sulla carta».
A pochi giorni dalla giornata mondiale del rifugiato, che si celebra ogni anno il 20 giugno, in tutta Italia si preparano iniziative, convegni, feste e momenti di riflessione. Perché l'Italia, nel 2012, è ancora ben lontana dall'essere un Paese dell'accoglienza. Ce lo ha detto l'Europa, con la condanna ufficiale, arrivata lo scorso febbraio, per i respingimenti in Libia nel 2009. E lo ripete in questi giorni Amnesty International, con un durissimo attacco al nostro Paese nel suo ultimo report, "SOS Europe". «L'Italia è sul banco degli imputati - spiega Christine Weise, presidente di Amnesty Italia - per il trattato ancora in piedi fra il nostro Paese e la Libia. Accordi tenuti segreti, che nonostante tutte le denunce portate avanti in questi anni il governo Monti ha scelto di rinnovare, con l'appoggio del nuovo esecutivo libico».
Il contenuto del trattato è segreto, ma l'applicazione è sotto gli occhi di tutti. Migliaia di profughi respinti e trattenuti in centri "d'accoglienza", meglio definibili di concentramento, al confine di Tripoli: «Da quando è scoppiata la rivoluzione - continua la presidente di Amnesty Italia - la situazione è addirittura peggiorata. I libici di pelle scura e gli africani dell'area sub-sahariana sono vittima di persecuzioni e violenze, a causa del pregiudizio comune che essi siano stati mercenari di Gheddafi». Nemmeno l' UNHCR, l'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati politici, può fare qualcosa: dal 2010 tutti i suoi servizi d'accoglienza in Libia sono stati bloccati, e non hanno mai ripreso a funzionare. I racconti che arrivano dai campi di Tripoli da coloro che sono riusciti a scappare durante la rivoluzione sono agghiaccianti: sovraffollamento, violenze, arbitrarietà di trattamento e giudizio.
Fra le pratiche italiane più criticate da Amnesty c'è quella della "caccia" ai barconi per respingere i migranti prima ancora che abbiano messo piede sul nostro Paese. Azioni che secondo Amnesty contravvengono la convenzione di Ginevra: «Fra gli obblighi che abbiamo siglato nel 1951 - spiega Christine Weise - c'è quello di non effettuare respingimenti di massa. Deve essere verificata la posizione di ogni persona, perché molti di coloro che cercano di arrivare in Italia rischiano la vita se vengono rimandati nel Paese da cui scappano. E prendere un barcone per mare riportando indietro tutte le persone che vi sono sopra è proprio il contrario di ciò che siamo tenuti a fare per rispettare i diritti dei richiedenti asilo». Su questo argomento, al Ministero degli Interni ci sono solo bocche cucite e la nostra richiesta di intervista è stata rifiutata.
Nonostante il trattato, solo nei mesi dell' "Emergenza Nord Africa", com'è stata ufficializzata nell'aprile scorso la nuova ondata di sbarchi dal Mediterrano, sono arrivati sulle nostre coste 22.216 migranti. A questi andrebbero aggiunti gli oltre duemila che sono morti in mare, secondo i dati raccolti da Fortress Europe. Molti di loro erano già profughi in Libia, scappati dalla guerra o dalle carestie: somali, eritrei, ivoriani, afghani, pakistani e molti altri.
Per loro in Italia esistono tre tipi di permessi di soggiorno, riconosciuti ai rifugiati: l'asilo politico, la protezione sussidiaria e quella umanitaria. «Nel '98, quando è nato il nostro servizio - racconta Dela Ranci, fondatrice di Terrenuove, una cooperativa di Milano che offre agli immigrati consulenza psicologica gratuita - i rifugiati scappavano soprattutto per cause politiche, etniche, religiose. Erano persone più consapevoli, che sapevano di aver pagato con la fuga, e magari con violenze e torture, delle loro scelte di vita. Oggi la maggior parte dei rifugiati che si rivolge a noi è scappata da guerre, carestie, povertà. Sono situazioni collettive, che fanno parte di una storia di popolo, spesso non personale. Soprattutto, sono situazioni che pochi di loro hanno scelto».