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L'ESPRESSO

L’Espresso
09 03 2015


Ci sono le battaglie di principio. E poi c’è la realtà. Avevamo gioito per la sentenza della Corte costituzionale, che il 9 aprile scorso ha cancellato il divieto di fecondazione eterologa in Italia. Oggi siamo impantanati: ostacoli, cavilli burocratici, caos normativo, Regioni che sulla sanità procedono in ordine sparso. E un impedimento sopra tutti: non ci sono i donatori di ovociti e spermatozoi. Risultato: dopo un iniziale rallentamento della “migrazione procreativa” verso paesi più attrezzati del nostro, ora le coppie italiane riprendono la via della Spagna, della Grecia, della Svizzera in cerca di una gravidanza.


E, visto che ora l’eterologa è legale, c’è anche chi decide di saltare il fosso: anziché aspettare le coppie italiane, i signori del business mondiale della fertilità vengono a pescare i pazienti/clienti là dove sono.

Succede a Milano, per esempio, dove ha appena aperto i battenti una filiale dell’Institut Marquès di Barcellona dove è finalmente possibile, a caro prezzo, tutto quello che dovrebbe essere possibile anche negli ospedali italiani. E non è: a quasi un anno dalla pronuncia della Consulta le coppie che sono riuscite ad ottenere questa prestazione senza volare nei centri esteri si contano sulle dita di una mano.

Commenta e raccontaci la tua esperienza

È successo all’Ospedale Careggi di Firenze (che però ha una lista d’attesa di oltre 1800 coppie), in un centro romano, in uno veneto. Niente, se si dà un’occhiata alle stime del bisogno.

Le riassume Andrea Borini, presidente della Sifes (Società Italiana Fertilità e Sterilità): «Se si stima che il 15 per cento della popolazione in età fertile abbia problemi a concepire, e che di questi il 10 abbia bisogno della fecondazione eterologa, possiamo immaginare che almeno settemila coppie resteranno, per il momento, a bocca asciutta, o torneranno a bussare alle porte dei centri esteri: i quali ci confermano quanto la richiesta dal nostro paese sia tornata ai livelli di qualche anno fa». Secondo l’ultimo rapporto dell’Osservatorio sul Turismo procreativo, nel 2010 sarebbero stati tra i 3500 e i 4500 italiani a decidere di affrontare un viaggio alla ricerca di un figlio. È verosimile che i numeri non siano cambiati di molto.


Il caos normativo è la cornice, ma il vero impedimento è la mancanza di donatori. Soprattutto, donatrici. È vero, lo scorso dicembre, nel maxiemendamento alla Legge di stabilità, è stato istituito il Registro nazionale dei donatori, per garantire la tracciabilità dei gameti. Ma finora di volontari se n’è visti pochi. In primo luogo, perché non è previsto alcun rimborso per le donne che scelgono di sottoporsi alla lunga e faticosa stimolazione ormonale che serve alla produzione di ovociti.

La legge vieta il pagamento di organi, gameti, cellule. Ma non solo. Rispetto ad altri paesi, in Italia la selezione dei potenziali donatori è resa più difficile da alcuni criteri contenuti proprio nelle Linee guida approvate dalla Conferenza delle Regioni il 4 settembre scorso. Una serie di paletti che di fatto rallentano, se non bloccano, la ricerca di candidati.

Il primo riguarda la donazione di ovociti. Le donne non solo dovranno sottoporsi alle cure necessarie per produrre ovociti utili per il prelievo a totale titolo gratuito, ma dovranno anche fare un tampone che certifichi l’assenza di infezioni vaginali come Candida o Chlamydia.

Un percorso che nessun altro paese europeo prevede, così come non lo prevedono le tecniche di fecondazione omologa. I sanitari assicurano che non ha alcun fondamento scientifico, visto che l’eventuale presenza di infezioni non rende più rischioso il prelievo, né il trasferimento in utero degli ovociti fecondati. E a molti viene il sospetto che si vogliano disincentivare le donazioni rendendole un vero e proprio percorso a ostacoli.


Il secondo paletto riguarda invece la donazione di seme: il Documento prodotto dalle Regioni prevede che i volontari maschi debbano garantire una concentrazione di spermatozoi nell’eiaculato assai superiore a quella stabilita come normale dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Un seme da superman, insomma. «Una richiesta», continua Borini: «Che certamente taglierà fuori molti potenziali donatori, non ultimi i partner maschili delle coppie che giungono ai centri di Pma, e che sono certamente più sensibili alla cultura del dono».

"Io dico no al commercio degli ovociti"

Non bisogna riconoscere soldi spese alle donne che donano. Altrimenti, è un mercato nascosto. Parla Antonio Gioacchino Spagnolo, direttore dell’Istituto di Bioetica dell’Università Cattolica di Roma

Per non perdere nemmeno una possibile donazione è nata Aidagg, l’associazione che raccoglie in un database tutte le richieste dei volontari. «In un mese», dice la segretaria Silvia Consolo: «Abbiamo ricevuto una quarantina di richieste, quasi tutte da parte di giovani uomini che vogliono donare il seme». Due sole le donne, però.

Così succede che molti centri, anche pubblici, stringono accordi con biobanche estere per importare i gameti da quei paesi in cui la cultura della donazione è più diffusa, o che mettono meno paletti tra le ruote degli aspiranti donatori. Il Careggi di Firenze, per esempio, ha appena annunciato una collaborazione con la Cryos International e la Nordic Cryobank danesi, e le spagnole Imer e Ovobank.

A Padova, la Biotech Pma non fa mistero di far arrivare i gameti dalla Spagna. Ma non è un’operazione semplice perché l’Europa delle autorizzazioni sanitarie è una Babele. E nella vita delle coppie si insinua il burocratese: “livello autorizzativo”.

Se un centro italiano vuole importare gameti può farlo solo da un paese che ha un centro di livello autorizzativo pari al nostro, che è il Centro Nazionale dei Trapianti (Cnt). «Ma in paesi come la Grecia o la Spagna (fatta eccezione per la Catalogna) non esiste un ente di pari grado, e i centri hanno un’autorizzazione sanitaria di tipo nazionale del tutto sufficiente a garantire la sicurezza delle procedure», spiega Claudia Livi, direttore scientifico del Demetra di Firenze.


Bisogna creare le condizioni concrete perché le famiglie possano avere un figlio in Italia. In sicurezza. L'intervento di Marilisa d'Amico, avvocato e professore di Diritto Costituzionale all’Università di Milano

Non per l’occhiuto Cnt che ha rapidamente fatto sapere ai centri italiani che importare dalla Spagna o dalla Grecia, come da tutti gli altri paesi “non conformi” non si può fare. Nessuno ha capito bene se il Cnt sta difendendo la salute delle coppie.

Ma uno come Antonino Guglielmino, direttore del centro Umr di Catania non ci sta: «Noi non accettiamo intimidazioni: la Regione Sicilia ci ha riconosciuto la possibilità di importare gameti, e noi continueremo a lavorare come abbiamo sempre fatto». Se è la sicurezza che sta a cuore al Cnt, conclude da Firenze Claudia Livi, non si capisce come mai negli anni passati si siano lasciate andare le coppie all’estero, in centri non verificati. E come mai si preferisca vederle partire di nuovo per chi sa dove.

Obiettivo Donna 2015, lo sguardo al femminile

  • Mar 06, 2015
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
  • Letto 6295 volte
l'Espresso
06 03 2015

Tre mostre e diversi appuntamenti, dal 6 marzo al 2 aprile a Roma, per la decima edizione di Obiettivo Donna. La rassegna ideata e prodotta da Officine Fotografiche e a cura di Emilio D'Itri, vuole rendere omaggio alla produzione fotografica femminile.

Tre le protagoniste dell'edizione 2015: Francesca Cao, Liliana Ranalletta e Marina Rosso, nei rispettivi progetti Temporary Life, Di Mastri e di botteghe, e The Beautiful Gene.

In "Temporary Life", Francesca Cao, con la curatela di Irene Alison/DER LAB, intraprende un percorso di mappatura del Paese, alla ricerca dei residui dei terremoti passati, delle ferite rimaste aperte, delle architetture dell’emergenza, delle ricostruzioni tentate e di quelle mancate, che hanno segnato il paesaggio post sismico anche nei modi e nelle forme del vivere delle comunità colpite.

Liliana Ranalletta nel progetto "Di mastri e di botteghe", percorre i vicoli romani alla ricerca dei mestieri antichi. L'operazione di mappatura attraverso la fotografia è ancora più esplicita nei ritratti di Marina Rosso in "The Beautiful Gene", progetto prodotto da Fabrica (Benetton), prndendo spunto dalla notizia secondo cui nel 2011 la banca del seme più grande del mondo ha smesso, per un certo periodo, di accettare donatori dai capelli rossi perché non richiesti dalle donne. La fotografa ha intrapreso un viaggio di sei mesi attraverso l’Europa alla ricerca di uomini e donne portatori di questa caratteristica genetica.

Plaza De Mayo, Nora sfida Chiesa e governo

  • Mar 05, 2015
  • Pubblicato in L'ESPRESSO
  • Letto 6603 volte

l'Espresso
05 03 2014

Sono passati 38 anni e Nora, di Carlos Gustavo, non ha mai saputo più nulla. Quello che sa è che l’attuale capo dell’esercito, Cèsar Milani, nominato dalla presidente Cristina Kirchner, “si è reso responsabile di violazione dei diritti umani” e potrebbe essere stato coinvolto nella sparizione di suo figlio o in quella di altri desaparecidos. Come sa che né i governi che si sono succeduti né la Chiesa hanno voluto fare piena luce sulla pagina nera della storia del suo Paese quando in Argentina tra il 1976 e il 1983 c’è stata la messa in pratica sistematica di un terrorismo di Stato da parte di una dittatura sanguinaria con sequestri, torture, omicidi degli oppositori politici cui strapparono anche i neonati.

Dal lontano 30 aprile del 1977, quando per la prima volta lei e altre 13 madri, decisero di andare in Plaza de Mayo a manifestare di fronte alla sede del governo trasformando il dolore per la perdita dei propri figli in coraggio nel fronteggiare la dittatura, le sue cariche a cavallo e le sue crudeli vendette, Nora non si è mai arresa e non intende farlo ora. Il movimento delle Madres de Plaza de Mayo, che ha unito migliaia di donne in quella piazza simbolo, da quel sabato e poi tutti i giovedì da allora sino ad oggi, è ora raccontato nei libri di scuola dei suoi nipoti come un pezzo fondamentale nel processo di democratizzazione in Argentina. Ma lei, che oggi ha 87 anni, non ci pensa proprio a farsi rinchiudere tra le pagine di un libro e ritiene, contrariamente ad altre Madres che hanno “diluito” la loro lotta, che l’impegno per la ricerca della verità debba proseguire senza sconti.

Quando l’attuale capo dell’esercito fu nominato, attacca Nora, la presidente Kirchner “sapeva” dei “sospetti” su Milani ma lo ha nominato lo stesso. Cèsar Milani, spiega la Cortinas, “era ufficiale nella zona dove mio figlio e altri giovani” furono inghiottiti dal regime. “Noi chiediamo che egli renda conto di quanto ha fatto. Deve dire quello che sa e far aprire gli archivi” su quelle vicende.
Niente sconti neanche alla Chiesa da questa donna cattolica. “Sono dimostrate le complicità dei vertici con la dittatura, cappellani militari davano l’estrema unzione ai desaparecidos prima che questi venissero gettati nel Rio de la Plata, il vertice, quattro o cinque vescovi, di cui solo uno credo oggi sia vivo, sono sempre stati schierati con il regime” e non c’è “mai stato un mea culpa”, ricorda Nora Cortinas.

All’attuale Papa argentino, Francesco, che in piena dittatura ebbe un ruolo di peso come Provinciale dei gesuiti in Sud America, chiede con forza giustizia: “so che Bergoglio durante la dittatura ha aiutato qualcuno ma so anche che sui desaparecidos non ha mai speso una parola, io non l’ho mai visto al nostro fianco. Si bea di essere moderno – lo sfida - dimostri la sua modernità chiamando l’episcopato argentino e ordinando che vengano aperti gli archivi della Chiesa per fare piena luce su quanto avvenne”.

Una cosa è certa. Gli anni della dittatura non sono stati ancora raccontati nella loro interezza, ci sono processi in corso, alcune condanne, e verità che, nonostante i passi avanti, incontrano resistenze. “Ho tre nipoti e ho tre bisnipotine e continuerò a lottare fino a quando mi rimarrà l’ultimo alito di vita”, afferma questa donna dall’energia inesauribile, con l’ostinazione di chi non intende scendere a compromessi su questioni che non ritiene negoziabili.

Ed è questo in fondo il motivo per il quale è divenuta ormai incolmabile la frattura, consumata nel 1986, tra l’associazione delle Madres de Plaza de Mayo guidata dalla più nota Hebe de Bonafini e l’associazione Madres de Plaza de Mayo, Linea Fundadora, di cui Nora fa parte. “I diritti umani, la ricerca della verità e della giustizia, non devono essere maneggiati da un governo o un partito, deve essere il popolo a difenderli attraverso istituzioni e organismi indipendenti. Tutte noi madri dobbiamo essere coscienti che se ci affidiamo ai governi finiamo per diluire la nostra lotta. Nessun governo può appropriarsi dei diritti umani, deve solo difenderli applicando la Costituzione”, sostiene Nora, aggiungendo che i Kichner hanno messo in atto un’operazione per “cooptare” il movimento delle Madri di Plaza de Mayo.

Il 29 gennaio scorso, a pochi giorni dal misterioso omicidio/suicidio del giudice che stava indagando su Cristina Kirchner e che ha messo a nudo la fragilità della democrazia argentina, a Plaza de Mayo c’erano due gruppi di donne arrivate a distanza di un quarto d’ora l’uno dall’altra. Le prime, quelle di Hebe de Bonafini che, tra stand e bandierine, hanno letto un comunicato dove esprimevano adesione cieca alla Kirchner: “l’attacco è contro Cristina, senza dubbio. Il sistema giudiziario sta attaccando la presidente. Cristina è la stella più lucente”. Le secondo, arrivate di lì a poco, un gruppo più piccolo, Nora era tra queste, giunte come tutti i giovedì a spiegare a chi ha voglia di fermarsi perché la loro lotta non è finita, con uno striscione dove si ricordavano i 30mila detenutos-desaparecidos vittime della dittatura.

“Le madri Linea Fundadora – spiega Nora Cortinas - chiedono che si aprano gli archivi e che ci dicano cosa accadde a tutti i desaparecidos, uomini e donne. Vogliamo che i giudici dicano a chi sono stati assegnati i figli strappati dal seno delle madri e che ora hanno circa 40 anni”. Ma il governo non lo fa: “non vuole aprire gli archivi perché i nomi che sono in questi archivi coinvolgono funzionari che ora sono in carica”, assicura.

Sul numero dei 30mila detenutos-desaparecidos in Argentina ancora si discute, con chi tiene a puntualizzare che sono stati di meno, anche se bastano le frasi del mai pentito dittatore Videla (finito in carcere solo nel 2003 e morto quasi due anni fa) a dare la misura di quanto è avvenuto. Videla amava ripetere: “prima elimineremo i sovversivi, poi i loro collaboratori, poi i loro simpatizzanti, successivamente quelli che resteranno indifferenti e infine gli indecisi”. Il materiale raccolto in questi anni dalle organizzazioni per i diritti umani, con le testimonianze delle vittime e le atroci ammissioni nei processi, confermano che il regime fece di tutto per realizzare quel piano.

Le vetrate dell’Esma, la scuola di addestramento della Marina che durante la dittatura si era trasformata (come altri luoghi sparsi in tutta l’Argentina) in scenario dell’orrore, sono ricoperte da migliaia di piccole foto che ritraggono i volti dei desaparecidos, foto caparbiamente conservate e diffuse dalle madri in tutti questi anni alla ricerca di qualsiasi notizia potesse restituire qualcosa, qualsiasi cosa, sui loro figli inghiottiti dal regime. “No, non sono raffigurati 30mila volti – risponde la giovane donna che tiene una visita guidata nello spazio della memoria ricavato dagli edifici che rimasero incredibilmente nella disponibilità dei militari fino al 2004 – questa cifra è stata fornita dalle associazioni a difesa dei diritti umani sulla base delle indagini che sono state svolte in questi anni. Certamente quello che sappiamo è che sono migliaia, come sappiamo che ai prigionieri veniva dato un numero, da 1 a 999, e che a partire dal millesimo desaparecido i militari ricominciavano a contare. Si è scoperto che lo stesso numero era appartenuto a più detenuti”.

La giovane donna dello “spazio della memoria dell’Esma” indica da fuori le stanze ridotte a cunicoli dove erano relegati i detenuti, quelle dove venivano torturati, il piazzale da cui partivano i voli della morte per il Rio de la Plata dove i desaparecids venivano gettati in mare. E anche le stanze, le uniche con le finestre, dove le donne incinta portavano alla luce i propri figli e poi venivano uccise.

I bambini strappati dal seno delle proprie madri, che sono stati affidati a famiglie di militari o legate al regime, si stima siano stati circa 500. Di questi, grazie alla ricerca instancabile delle loro nonne, che si costituirono nel movimento delle Abuelas, ne sono stati “recuperati” sinora 116. Un processo, quello della identificazione, lungo e doloroso, rifiutato peraltro da alcuni a causa dell’enormità nello scoprire che chi ti ha cresciuto è stato il carnefice dei tuoi veri genitori.

Tanto ancora è da ricostruire e non solo in Argentina: pochi giorni fa, nell’aula bunker di Rebibbia a Roma, si è aperto il processo Condor (dal nome del Piano messo in atto negli anni settanta capeggiato dagli Stati Uniti in diversi Paesi del Cono Sud dell’America latina per imporre il neoliberismo “a tutti i costi”, ricorda Nora). Quarantatré giovani di origini italiane sono stati sequestrati e uccisi tra il 1973 e il 1978 in Argentina, Perù, Bolivia, Uruguay e Cile e tra gli imputati, nessuno è di nazionalità Argentina perché l’Argentina non ha collaborato con la giustizia italiana e non ha notificato, come richiesto, gli atti per consentire agli imputati di partecipare al processo. Mentre a novembre scorso è stata lanciata in Italia una campagna di sensibilizzazione promossa dalle Abuelas poiché, hanno spiegato, alcuni figli di desaparecidos potrebbero trovarsi qui.

E in Argentina? A più di trent’anni dalla fine della dittatura, molti processi sono ancora in corso. Secondo i dati del Centro de estudio legales y sociales, aggiornati a metà 2014, sono oltre 2500 le persone accusate di aver violato i diritti umani, poco più di un terzo (981 persone) sono state processate, 545 di queste hanno ottenuto una sentenza e la quasi totalità, circa 500, sono state giudicate colpevoli. Solo 121 i giudizi conclusi tra il 2006 (quando i processi finalmente partirono grazie al cambio di clima politico) e il 2014, cioè il 30%. Prevalentemente, i giudizi aperti hanno riguardato uomini in uniforme e le organizzazioni dei diritti umani che lavorano al recupero di una memoria collettiva stanno spingendo affinché si indaghi sulle complicità in reati contro i diritti umani da parte di settori della società, come funzionari civili o imprenditori.

Il giudizio contro la giunta militare, aperto nel 1985, fu chiuso con rapidità. E dopo le prime condanne, arrivò un colpo di spugna con le leggi sull’impunità. “Con i governi Kirchner abbiamo ottenuto che ci fossero i processi e i primi condannati – spiega Nora - sono finiti finalmente in carcere. Ma –sottolinea - non dobbiamo applaudire tutti i giorni”. “Il gruppo delle madri che ha deciso di appoggiare il governo in tutto quello che fa, sarà domani responsabile e complice di quello che si dimostrerà essere sbagliato. Le Madri Linea Fundadora sono convinte che quando le cose non vanno è necessario dirlo, con tutto il rispetto, ma dirlo”.

Girando per Buenos Aires e parlando con chiunque abbia voglia di rispondere, la fotografia che viene restituita è di un Paese ancora non pacificato, dove le contrapposizioni sono nette. I commenti scettici nei confronti dei politici o di chiunque abbia un ruolo pubblico sembrano un intercalare, salvo poi la necessità di esprimere certezze per difendere il proprio vissuto e le proprie posizioni in quegli anni. “Che dovrei pensare? – afferma Nuccio un emigrante di origine italiana come ce ne sono tanti – Un giorno sono entrati nella fabbrica dove lavoravo e davanti ai nostri occhi hanno ucciso il padrone e il capo del personale”, dice in un discorso dove definisce i montoneros “terroristi” aggiungendo che “nessuno di loro ha pagato” e che anzi “oggi siedono in Parlamento”. Se gli si fa notare che la dittatura ne ha eliminati migliaia senza processo, risponde che “qualche eccesso c’è stato ma bisognava riportare l’ordine”.

“La gente è ingiusta – riflette Nora – chi parla così non si rende conto che questo esercito di occupazione, nel suo stesso Paese, stracciò tutti i diritti civili, qui si torturava, si uccideva e si rapivano i bambini. Qui smisero di funzionare i tre poteri dello Stato, e non c’era un solo giudice che indagasse, le porte della Chiesa ufficiale erano sbarrate, nessuno apriva quando bussavamo per chiedere informazioni”. In quegli anni si intensificò la propaganda alla radio e in televisione, "cercando di inculcare nella testa della gente le accuse contro chi poi sarebbe stato fatto sparire. Signora sa dove è suo figlio? Sa cosa sta facendo suo figlio?", ricorda.

Gustavo, racconta Nora, "cominciò la sua militanza con un sacerdote cattolico nella Villa 31, Carlo Mujica, che fu assassinato dalla tripla A (Alleanza anticomunista argentina) nel 1974” a causa del suo impegno a fianco dei poveri, per la loro liberazione e a difesa della loro dignità. “Quando il sacerdote fu ucciso – prosegue - Gustavo cominciò a militare in una unità di base del suo partito, la gioventù peronista. Era un giovane che sentiva il desiderio di contribuire a cambiare una società ingiusta”.

“Al principio del '74 c'era un gruppo che aveva deciso di impugnare le armi ma nel '76 in una dichiarazione delle stesse forze armate dissero che non c'era nessuna guerriglia armata nella Repubblica argentina. Ciò significa che in quel momento cominciò il terrorismo di Stato e un patto criminale tra forze armate, imprenditori e politica”, prosegue. Gustavo fu catturato la mattina del “15 aprile del 1977, un giorno che andava al lavoro nel Gran Buenos Aires, l'unica cosa che ho saputo di lui da allora è che lo avevano preso alla stazione dei treni Castelar dove vivevamo”. Subito dopo, un gruppo di militari irruppe a casa Cortinas per una di quelle operazioni “che furono migliaia e che non venivano registrate ma che godevano della complicità delle forze dell'ordine: misero tutto sottosopra, rubarono, minacciarono mia nuora".

Quel giorno Nora scese in strada e non si è "più fermata". "Ho iniziato a conoscere altre madri, cominciammo a contarci, andavamo negli uffici delle forze armate o alla sede dell'episcopato alla ricerca di risposte che non ci venivano date". I loro figli e le loro figlie erano spariti nel nulla.

Fu una Madre della prima ora, Azucena Villaflor, uccisa a sua volta nel dicembre 1977 insieme a un gruppo di familiari di desaparesidos e due religiose francesi e i cui resti furono ritrovati nel 2005, a proporre di andare in Plaza de Mayo “perché la gente ci vedesse”, di camminare nella piazza “visto che i militari ci obbligavano a circolare” e a lanciare il proclama iniziale: "tutti sono nostri figli”, trasformando una lotta individuale in una lotta collettiva, ricorda Nora Cortinas.

“Non c’è una cifra esatta di quante furono le Madres di Plaza de Mayo, così come non c’è una cifra esatta del numero dei desaparecidos, ma fummo migliaia in piazza. Ogni giorno fummo più numerose, perché ogni giorno avvenivano sparizioni. Questo metodo infame era sistematico, massivo, in tutto il Paese: dal Nord al Sud, dall’est all’ovest. Operazioni venivano fatte ovunque, nelle case, nelle fabbriche, nelle scuole e nelle università, in strada. Ovunque appariva una pattuglia e razziava quello che voleva”.

Governo e Episcopato argentino “devono aprire gli archivi”, insiste. “Di ciascun desaparecido, sia che siano stati 30mila o uno solo, deve essere chiarita la storia, dove lo presero i militari, cosa gli accadde e chi sono i responsabili diretti. E a chi ci chiede di perdonare io dico che per perdonare dovrebbero riemergere dal fondo del Rio de la Plata tutti quei corpi, quelle tombe senza nome. Il nostro compromesso, nel nome dei nostri figli, è cercare la giustizia, il nostro compromesso è che non si può dimenticare e che con i genocida non c’è riconciliazione. Con il popolo ci siamo riconciliate ma la riconciliazione civica non potrà avvenire finché i responsabili non riconosceranno quello che hanno fatto e finché non staranno in carcere. Non c’è un’altra strada possibile”.

Costanza Zanchini

L’Espresso
03 03 2015

Dopo i tanti annunci del premier Matteo Renzi, la riforma della Buona scuola italiana è in dirittura d’arrivo: martedì 3 marzo vedrà la luce in consiglio dei ministri il decreto che disegna il futuro di otto milioni di studenti, 54 mila istituti e 250 mila insegnanti precari.

Una rivoluzione copernicana attesa dopo anni di vacche magre e tagli all’istruzione pubblica. In cima alla lista nel dossier governativo c’è il sogno di ridare dignità all’insegnamento: «Un piano straordinario per assumere quasi 150 mila docenti: tutti i precari storici e gli idonei dell’ultimo concorso».

Il maxi-piano di assunzioni si è però arenato sui numeri. La questione è complicata: ha più diritto l’esercito di 150 mila abilitati spesso mai saliti in cattedra o chi non hanno mai fatto un concorso ma vanta 10 anni di insegnamento?

L’intesa è stata trovata riducendo le assunzioni da 150 mila a poco più di 100 mila: il ministero guidato da Stefania Giannini sì è accorto che per assorbire tutte le graduatorie ad esaurimento (Gae, chiuse dal 2007 con la conseguenza del cambio annuale di cattedra dei prof) manca qualche miliardo di euro.

"Noi ci stiamo credendo, ci stiamo lavorando, ci stiamo investendo mettendoci tanti soldi, che sono i soldi degli italiani". Così il premier Matteo Renzi in un messaggio agli studenti per la ripresa delle scuole registrato a Palazzo Chigi e pubblicato su Youtube

«Non sono i fondi il problema» dicono però a “l’Espresso” dal Pd. «Le assunzioni che mancano rispetto a quelle annunciate nel documento sulla buona scuola semplicemente sono state spostate al prossimo concorso».

Un rinvio dunque, secondo Francesca Puglisi, responsabile democratica per la scuola: «I numeri sono ancora ballerini ma ci siamo resi conto che per rispondere alle esigenze della scuola, per alcune classi di docenza, dovevamo potenziare i concorsi. Un po’ di precari continueranno per il prossimo anno a lavorare con un contratto annuale».

Sul piatto c’è infatti solo un miliardo di euro sufficiente per appena 100 mila precari. Troppo poche le risorse. E troppo lontana una riforma vera che preveda meno alunni per classe, più insegnanti assunti, e investimenti nell’istruzione, secondo addetti ai lavori e sindacati.

Per il futuro l’unica via d’accesso sarà il concorso per reclutare insegnanti all’altezza del compito che riserverà loro la scuola del futuro. I docenti attuali sono tra i più vecchi d’Europa e hanno varcato i portoni con vecchie logiche.

Altro nodo che divide maggioranza e opposizione in Parlamento sono le scuola private: nell’architettura del duo Renzi-Giannini è prevista la detrazione fiscale di almeno parte della retta per le famiglie che non scelgono istituti pubblici.

Un nervo scoperto, quello dei fondi pubblici per per le scuole private, al centro di un paradosso mai risolto: mentre le aule pubbliche cadono a pezzi gli istituti privati continuano a essere finanziati da Stato e Regioni con una dote che sfiora i 700 milioni di euro l’anno , senza che alle sovvenzioni corrisponda un controllo sulla qualità.

LA COPERTA TROPPO CORTA
Il punto cruciale della riforma renziana sono le nuove assunzioni: la legge di stabilità ha stanziato un miliardo di euro, fondi necessari a coprire circa 100 mila precari "storici" che da anni entrano in classe senza nessuna garanzia sul futuro.

Un miliardo pronto per l’anno 2015-2016 e poi in futuro una previsione di altri tre miliardi. Con gli stessi fondi sono comprese anche le voci per coprire l’alternanza scuola-lavoro (le ore di studio con attività in azienda), la formazione dei professori e le attività per potenziare apprendimento e aumentare il tempo pieno che consente il pomeriggio in classe.

Troppe voci per pochi stanziamenti e troppi i dubbi secondo la Cgil. «Occorre stabilizzare tutto il personale, partendo dalle graduatorie ad esaurimento fino agli insegnanti con 36 mesi di anzianità. Le risorse però non bastano. Bisogna programmare e dare una prospettiva per tutti» spiega Annamaria Santoro della Flc-Cgil: «Che senso ha un nuovo bando quando non hai ancora assunto i 12 mila vincitori del concorso di tre anni fa?».

Il numero dei precari italiani è controverso: circa 150 mila nelle graduatorie ad esaurimento, altri 100 mila che hanno seguito la strada dei tirocini e più di 450 mila senza abilitazione chiamati però per le supplenze annuali.

Quanti rimangono esclusi dal maxi-piano? Quattro insegnanti su cinque. Fuori tutti i reclutati dalle liste d’istituto per i quali al momento le porte sembrano chiuse ma che potrebbero vedersi riservare una quota di posti nei prossimi concorsi.

Rimane il problema, con la spending review imposta a tutti i dicasteri, di trovare i fondi necessari. Secondo Marcello Pacifico del sindacato Anief verrà ridotto ancora il fondo di ogni istituto per le spese generali (pari a poche migliaia di euro) e quasi certamente saranno bloccate le cosiddette “ricostruzioni di carriera”, le bizantine formule per gli avanzamenti professionali e l’incremento dello stipendio.

Un escamotage per bloccare 350 milioni di euro all’anno per alzare i salari.

«Il primo scatto d’anzianità potrebbe arrivare dopo dodici anni, bloccando le ricostruzioni di carriera, rinviandole magari a tempi migliori» spiega Pacifico: «Una riforma a costo zero che danneggia ancora una volta i neo-assunti: prima di tutto perché i fondi per procedere alle assunzioni sono stati stanziati anche per i prossimi anni e in secondo luogo perché, dopo la sentenza della Corte di Giustizia europea, è finito il tempo dei compromessi a danno dei precari».

IL NODO DELLE PARITARIE
«Vorremmo dare la possibilità anche a due operai di scegliere se mandare il figlio in una scuola pubblica o in una paritaria» ha spiegato il sottosegretario all’Istruzione Gabriele Toccafondi per annunciare la novità voluta dagli alleati di Governo del Nuovo Centrodestra: la detrazione fiscale di almeno parte della retta per chi sceglie una scuola non statale.

Un’idea di istruzione privata che piace anche dal ministro Stefania Giannini: «Il sistema pubblico ha due pilastri, scuola statale e non statale, lo stabilisce la legge, ma mancano le misure che rendono completamente attuato questo processo».

Interessati a questa corsia preferenziale quasi un milione di studenti, oltre 13 mila istituti e 100 mila tra insegnanti e personale amministrativo: tra questi ci sono almeno la metà di bambini delle scuole materne private.

Le rette sono il punto dolente della questione: possono arrivare anche ad ottomila euro per un anno di lezioni. Per questo si pensa ad una detrazione parziale.

E se esultano la Compagnia delle Opere e l’Associazione dei genitori delle scuole cattoliche, i parlamentari 5 Stelle della Commissione Cultura di Camera e Senato critica la decisione: «Sarebbe l'ennesimo occhio di riguardo per le scuole paritarie a scapito di quelle pubbliche. L'ultima legge di Stabilità aveva già stanziato 200 milioni di euro. Si fanno cadere i costi sulle spalle delle famiglie che iscrivono i propri figli alla statale, dove i contributi volontari di fatto sono diventati obbligatori».

Ma non si lamentano solo i Cinque stelle. Chi sta lavorando al testo in queste ore a “l’Espresso” conferma che il nodo delle paritarie ha messo in agitazione non tanto il governo (è contento il ministro Giannini, è contento l’alleato Alfano) quanto il Partito democratico, contribuendo ai ritardi.

Dopo settimane di discussione a porte chiuse, con una lettera pubblicata sul quotidiano dei vescovi Avvenire , e firmata da 44 parlamentari del Pd, di Scelta Civica, e di Nuovo Centrodestra (tra cui Paola Binetti e Rocco Buttiglione) il dibattito ha assunto anche una dimensione pubblica.

E se l’ex ministro democratico Giuseppe Fioroni rema a favore evocando scenari catastrofici («Se le scuole materne paritarie chiudessero oltre il 30 per cento dei bambini rimarrebbe a casa»), Pippo Civati illustra il punto di vista di chi è contrario: «Sono pronto a discutere di misure del genere solo una volta che la scuola pubblica sia stata messa in sicurezza con le risorse necessarie».

Nel governo pare consolidata la posizione di Fioroni: «La libertà di scelta sancita dalla Costituzione non deve essere una libertà solo per chi se lo può permettere. Il meccanismo della detrazione fiscale, che è la nostra battaglia, è compatibile anche con la scarsezza di risorse di questi tempi».

Nel braccio di ferro finale di queste ore una parte dei democratici si appella all’articolo 33 della costituzione (che in merito di scuole private prevede che siano «senza oneri per lo Stato»), e spera nella mediazione:«Questo provvedimento non era nelle bozze», continua Francesca Puglisi:«però è vero che il testo è tuttora aperto».

La dimostrazione di questo cortocircuito e della guerra tra i pasdaran della statale e i paladini delle strutture private è la Lombardia, dove esiste una dote ad hoc che in tredici anni ha fatto piovere sulle famiglie più di cinquecento milioni di euro di contributi regionali.

Un sistema che non si è inceppato neppure con il ricorso al Tar e la class action portata avanti dall’associazione “Non uno di meno” insieme all’Unione degli studenti.

«È un diritto allo studio al contrario» spiegano genitori, studenti e sindacati puntando il dito contro il Pirellone che garantisce, a parità di redditto, un contributo triplicato per chi sceglie istituti privati. La battaglia ora è al Consiglio di Stato dopo che la Regione ha impugnato la decisione dei giudici amministrativi.

L’INSEGNANTE MANAGER

Carriera, valutazione e merito degli insegnanti. Tabù per decenni, la carriera degli insegnanti è considerato uno dei punti cardinali della riforma Renzi. Per le sfide del terzo millennio l'unica strada sembra quella della valutazione e dell’incentivo in busta paga.

L'idea è premiare il merito con un bonus del 10 per cento per i docenti con funzioni aggiuntive. Di «mentore» se collegate alla didattica, di «staff» se incentrate su compiti organizzativi

Non è ancora chiaro però se il docente «mentore» rappresenterà il gradino più alto della carriera e quali saranno le sue funzioni o se ci saranno altre figure intermedie fra il docente neoassunto e il dirigente scolastico.

Per fare carriera occorrerà valutare i docenti, anche attraverso l'attività di formazione seguita nell'ultimo triennio.

E verrà messa sotto la lente di ingrandimento anche la sua attività didattica. Soltanto se promosso l'insegnante verrà considerato meritevole e potrà accedere agli incrementi di stipendio: circa 60 euro al mese netti ogni tre anni.

Una valutazione della prestazione e della formazione vista come fumo negli occhi dalla Cgil che solleva una domanda: perché mettere in competizione insegnanti con insegnati?

«È una scuola ridotta ad azienda, il dirigente scolastico deve essere capace di tenere insieme la comunità e coordinare didattica e lavoro dei professori. Hanno invece idea di un preside come un capo-azienda che decide sulla carriera delle persone e non si capisce come si misura la competenza» ragiona Domenico Pantaleo, segretario scuola della Cgil: «Abbiamo chiesto al ministro Giannini di non intervenire con la legge sulle materie contrattuali come orario, salario, carriera, organizzazione del lavoro».

Un terreno accidentato perché in ballo c’è il contratto nazionale della scuola, scaduto da sei anni, e tutte le necessità della scuola italiana: diminuzione degli alunni per classe, riduzione della dispersione, valorizzazione dell’orientamento, attenzione alle aree svantaggiate del Paese, incremento della didattica nei laboratori.

l'Espresso
26 02 2015

Quattro agenti indagati e un medico nei guai. Sta dando i primi frutti la complicata inchiesta sui pestaggi avvenuti nella “cella zero” del carcere di Poggioreale, nata dalla denuncia di alcuni detenuti ed ex detenuti, che hanno raccontato ai magistrati di essere stati picchiati a sangue da una squadra di agenti della polizia penitenziaria, nel buio di una cella al piano terra del penitenziario napoletano.

I procuratori aggiunti Valentina Rametta e Giuseppe Loreto e il pm Alfonso D’Avino hanno iscritto nel registro degli indagati quattro agenti della polizia penitenziaria, che ora non sono più in servizio a Poggioreale. Mentre rimane pendente una denuncia nei confronti di un medico del carcere, accusato da uno dei detenuti di non averlo neppure visitato, facendo finta di nulla quando lui si è presentato in infermeria con lesioni tipiche da pestaggio.

Le indagini stanno andando avanti in silenzio e non senza difficoltà, tanto che i magistrati napoletani hanno dovuto chiedere una proroga di sei mesi, in modo da rintracciare testimoni e altre probabili vittime che, nel frattempo, sono stati trasferiti in altri istituti di pena. Intanto, le denunce dei detenuti sono arrivate a quota 150.

Sospetti abusi di potere che anche l’Espresso aveva denunciato, raccogliendo le testimonianze dei detenuti.

Secondo i loro racconti, nell’istituto partenopeo che all’epoca dei fatti - nel gennaio 2014 - era il penitenziario più sovraffollato d’Europa, un manipolo di agenti della polizia penitenziaria, che si faceva chiamare “la squadretta della Uno Bianca”, commetteva abusi di potere e feroci pestaggi nei confronti dei detenuti (soprattutto stranieri o in attesa di giudizio) che venivano portati in una cella vuota e priva di telecamere, denudati, picchiati e infine minacciati perché non rivelassero a nessuno quello che era successo.

Qualcuno, però, ha trovato il coraggio di parlare. Prima con il garante dei detenuti della Campania, Adriana Tocco, che ha inoltrato un dossier alla Procura. E poi con gli stessi magistrati, che ancora in questi giorni stanno incrociando testimonianze e ricordi, andando a ritroso nel tempo e cercando di rintracciare anche detenuti che nel frattempo hanno lasciato il carcere o sono stati trasferiti in altri istituti, cercando di abbattere quel muro di paura e omertà che si sarebbe creato a Poggioreale.

I ricordi di quelle violenze sono ancora ben impressi nella mente di uno dei detenuti, R.L., uno dei primi ad aver sporto denuncia in Procura, che oggi racconta a l’Espresso: “Mi ricordo ancora come fosse ieri, era il luglio del 2013. Mentre mi portavano in quella cella uno degli agenti si sfregava le mani e si toglieva gli anelli, poi continuava a ripetermi: 'Tu sei una brava persona'. E più me lo diceva più io tremavo, perché capivo che stava per succedermi qualcosa”. I dettagli, agghiaccianti, concordano con quelli degli altri detenuti: “Una volta arrivato nella cella, gli altri agenti quando mi hanno visto hanno detto: “E chi è ‘sta munnezza?” Poi mi hanno fatto spogliare completamente nudo. E sono iniziate le botte”.

L’uomo - che era finito in carcere per una vicenda di ricettazione e che oggi ha scontato la sua pena - elenca anche altri dettagli, pure questi finiti sul tavolo del magistrati: “Le vittime di questi pestaggi erano soprattutto stranieri, o comunque persone normali, senza grossi curriculum criminali. Prima di pestare un detenuto, andavano a vedere nei registri chi era e cosa aveva fatto. Non si azzardavano a picchiare i camorristi, per paura di vendette e ritorsioni”.

Nel mirino dei magistrati però non sono finiti solo gli agenti della penitenziaria ma anche un medico, che avrebbe dovuto denunciare d’ufficio le botte subite dai carcerari, e invece non lo avrebbe fatto. “Quando mi sono fatto visitare in infermeria avevo paura a raccontare di essere stato vittima di un pestaggio, però le botte sul mio viso e sul corpo erano inequivocabili - racconta oggi a l’Espresso l’ex detenuto - Ma lui senza neppure visitarmi ha detto: “Torni pure in cella, è tutto a posto”. “In quella cella mi hanno umiliato, mi hanno ferito. Mi hanno annullato come essere umano”.

Accuse pesantissime che devono ancora essere dimostrate. Certo è che la notizia di questa svolta nell’inchiesta sembrerebbe aver dato ragione all’ex detenuto Pietro Ioia, uno dei primi a parlare dell’esistenza della “cella zero”, che oggi fa parte dell’associazione ex detenuti napoletani: “Qualcosa si sta muovendo, dopo anni di silenzio su quello che succedeva in quel carcere. Ora chi ha sbagliato deve pagare. Non dimentichiamoci mai che il carcere deve essere un luogo di recupero per chi sbaglia, non di tortura”.

E qualche effetto positivo, questa inchiesta, l’ha avuto: dopo un’ispezione, sono cambiati i vertici dell’istituto e della polizia penitenziaria e il clima a Poggioreale è decisamente migliore. “Con l’apertura delle celle e l'aumento di varie attività nel carcere - conferma il garante dei detenuti Adriana Tocco - non sto ricevendo più denunce, né verbali, né scritte per abusi e violenze”.

Arianna Giunti

L’Espresso
25 02 2015


L’ennesimo fotogramma dell’orrore risale all’altroieri. I jihadisti dello Stato Islamico, a bordo di una quarantina di pick up, attaccano interi villaggi cristiani assiri sul fiume Khabur, sulle colline del nord-est della Siria, a ridosso del confine con l’Iraq e la Turchia. Prendono in ostaggio la popolazione, danno alle fiamme alcune chiese, separano le donne e i bambini dagli uomini. Popolazioni civili sempre più costrette a vivere sotto il controllo di brutali gruppi armati e sottoposte ad attacchi, persecuzioni e discriminazioni.

Lo dice a chiare lettere il Rapporto 2014-2015 di Amnesty International, pubblicato oggi in Italia da Castelvecchi: se i leader mondiali non agiranno con urgenza di fronte alla mutata natura dei conflitti, lo scenario rischia di aggravarsi nei prossimi due anni, segnato da crescenti violenze e atrocità ad opera di gruppi armati non statali, che superano i confini nazionali: Boko Haram, Stato Islamico, Al Shabaab. «Il 2014 è stato un anno catastrofico per milioni di persone intrappolate nella violenza. La risposta globale ai conflitti e alle violazioni commesse dagli stati e dai gruppi armati è stata vergognosa e inefficace», ha dichiarato Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia : «Di fronte all’aumento degli attacchi barbarici e della repressione, la comunità internazionale è rimasta assente».


A poche ore dall'ultimo attacco in Siria nei pressi di Tell Tamer, non lontano da Al-Hasakah, con una chiesa bruciata e centinaia di caldei presi in ostaggio, le testimonianze raccolte nel video reportage dell’Espresso solo qualche mese fa sembrano profetiche. «Quelli dell'Isis sono peggio degli animali, il loro progetto per i cristiani è quello di ucciderli, convertirli o buttarli fuori dal paese». A parlare sono uomini e donne iracheni: medici, ingegneri, professori; tutti cristiani e in fuga dagli orrori compiuti dalle milizie dello Stato Islamico. L’Espresso ha raccolto le loro testimonianze in un reportage girato tra l'Iraq e la Giordania e realizzato in collaborazione con l'UNHCR.«I politici mondiali dormono e fingono di non vedere quello che sta succedendo qui», racconta all'Espresso Hassan, un professore che ha trovato rifugio in una chiesa armeno-cattolica ad Amman. «Se torniamo nelle nostre case, ci taglieranno la testa, cosa possiamo fare? Vi prego portate la nostra storia in tutto il mondo»di Duccio Giordano

Nel 2014 i gruppi armati hanno commesso abusi di diritti umani in almeno 35 Paesi, più di un quinto di quelli su cui Amnesty International ha svolto ricerche. «I governi devono finirla di affermare che la protezione dei civili è al di là dei loro poteri, e devono invece contribuire a porre fine alla sofferenza di milioni di persone», prosegue Marchesi.

NO AL DIRITTO DI VETO IN CASO DI GENOCIDIO
La gravità della situazione sta nei numeri snocciolati nel Rapporto, il frutto della ricerca sulle violazioni dei diritti umani condotta in 160 paesi: 18 Paesi in cui sono stati commessi crimini di guerra, oltre 4 milioni i rifugiati fuggiti dal conflitto in Siria, oltre 3.400 i rifugiati e i migranti annegati nel Mar Mediterraneo mentre tentavano di raggiungere l’Europa, 119 i paesi nei quali i governi hanno arbitrariamente limitato la libertà di espressione, tre paesi su quattro tra quelli esaminati da Amnesty International. Oltre ai governi nazionali, secondo l’organizzazione non governativa ancora una volta il grande assente è l’Onu, che non ha agito di fronte alle crisi in Iraq, Siria, Gaza, Israele e Ucraina. Adesso Amnesty chiede ai cinque stati membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di rinunciare al loro diritto di veto nei casi di genocidio o di altre atrocità di massa. «Potrebbe essere una svolta per la comunità internazionale e uno strumento per difendere le vite umane. Così facendo, i cinque stati membri permanenti invierebbero un segnale potente che il mondo non resterà a guardare passivamente di fronte alle atrocità di massa», prosegue Marchesi.

ARSENALI PRONTI ALL’USO PER L’IS
La disponibilità di armi in grandi quantità è uno degli aspetti cruciali del nuovo contesto internazionale. La scorsa vigilia di Natale, dopo una campagna durata oltre 20 anni, è entrato in vigore il Trattato globale sul commercio di armi, che ha l’obiettivo di limitare i trasferimenti internazionali di armi e munizioni. Se applicato, contribuirà a salvare migliaia di vite umane. Finora è stato sottoscritto da 130 Paesi e ratificato da 62. Amnesty International chiede a tutti gli Stati - compresi Stati Uniti, Cina, Canada, India, Israele e Russia - di ratificare il trattato. «Nel 2014, enormi forniture di armi sono state inviate a Iraq, Israele, Sud Sudan e Siria, nonostante la probabilità assai elevata che sarebbero state usate contro i civili intrappolati nei conflitti», aggiunge il presidente di Amnesty International Italia: «Quando lo Stato Islamico ha conquistato ampie parti dell’Iraq, ha trovato grandi arsenali pronti all’uso. L’irresponsabile flusso di armi verso chi viola i diritti umani deve cessare subito».

La risposta che alcuni governi hanno dato all’emergenza terrorismo, sottolinea il rapporto, non fanno altro che peggiorare la situazione, violando i diritti umani fondamentali in nome della sicurezza. Ad esempio, in Nigeria, dove la popolazione è già terrorizzata dalle atrocità commesse da Boko Haram, sono stati rilevati numerosi episodi di violenza da parte delle forze di sicurezza, uccisioni extragiudiziali, arresti arbitrari di massa e torture; in Pakistan le autorità hanno annullato la moratoria sulle esecuzioni capitali e hanno cominciato a mettere a morte i prigionieri condannati per reati di terrorismo; in Turchia, la legislazione antiterrorismo ha continuato a essere usata per per criminalizzare e limitare la libertà di espressione. «Sappiamo che le reazioni impulsive non funzionano. Al contrario, creano un ambiente repressivo nel quale l’estremismo può crescere», conclude Marchesi.

L’ITALIA E L’EMERGENZA SBARCHI. In questo contesto, l’Italia affacciata sul Mediterraneo riveste un ruolo di primo piano. Mentre la crisi libica peggiora l’emergenza degli sbarchi di migranti: 3.500 persone solo a gennaio, oltre il 60 per cento in più rispetto agli sbarchi del gennaio 2014. Nel capitolo riservato al nostro Paese, il Rapporto 2014-2015 di Amnesty International punta il dito contro le politiche del governo Renzi. «Dopo aver salvato oltre 150 mila rifugiati e migranti che cercavano di raggiungere l’Italia dal Nord Africa su imbarcazioni inadatte alla navigazione, a fine ottobre l’Italia ha deciso di chiudere l’operazione Mare nostrum», afferma Gianni Ruffini, direttore generale di Amnesty International Italia: «Avevamo chiesto al governo di non sospendere Mare nostrum fino a quando non fosse stata posta in essere un’operazione analogamente efficace, in termini di ricerca e soccorso in mare. Le nostre richieste non sono state ascoltate, con le conseguenze ampiamente previste di nuove, tragiche morti in mare, nonostante il pieno dispiegamento dei mezzi e l’impegno della Guardia costiera italiana, lasciata praticamente sola dalla comunità internazionale».

 

L’Espresso
25 02 2015

E' vero, se a quest'ultima tornata i sindacati si sono espressi contro il Jobs Act, almeno loro, le partite Iva e i freelance, hanno avuto risposte: sul blocco dell'aliquota contributiva e sul regime dei minimi, grazie al milleproproroghe. Ma questo intervento non lo considerano risolutivo: "E' solo un provvedimento di urgenza che rimedia agli errori degli ultimi mesi", spiega Anna Soru, presidente di Acta . Tanti sono ancora i nodi aperti e proprio questo venerdì, il 27, le associazioni si sono date appuntamento a Roma per manifestare: non solo gli autonomi iscritti alla gestione separata Inps, ma anche i tanti professionisti inquadrati negli ordini.

Quindi grafici, ricercatori, operatori del web, ma pure ingegneri, architetti, geometri, farmacisti, fino agli archeologi e agli archivisti. Ci saranno anche i giovani avvocati che a Natale scorso hanno lanciato la protesta dei selfie #ionomicancello, contro Cassa forense .

Un esercito di 1,4 milioni di lavoratori che finora hanno agito separatamente sta cercando di raccordare le proprie rappresentanze e stringere su una piattaforma comune. Ma le preoccupazioni non sono legate solo al proprio presente, cioè che reddito riesco a portare a casa e quanto mi resta in tasca al netto di tasse, contributi e spese varie. In tanti si chiedono quale sarà il futuro di questi professionisti che oggi hanno in gran parte tra i 30 e i 40 anni. Anche perché, se da un lato è vero che per il momento è stato bloccato l'aumento dei contributi dal 27,72 per cento fino al 33,72 per cento (ma il meccanismo ripartirà già dall'anno prossimo), dall'altro con il sistema contributivo si sa bene che meno versi, più basso sarà il tuo assegno pensionistico.

Il rischio, per chi ha carriere discontinue e un reddito che nei primi anni di attività non supera i 12-15 mila euro annui, è che la futura pensione sia molto bassa, si calcola in tanti casi perfino al di sotto dell'assegno sociale: tra i 300 e i 400 euro al mese. Gli autonomi però contestano il principio secondo cui l'unico modo per rimpinguare i propri conti previdenziali sia quello di aumentare i contributi: "Anche perché così finiamo strozzati, non possiamo né vivere né investire sul nostro lavoro – spiega Andrea Dili, di Associazione 20 maggio – Ipotizziamo che i contributi siano stati già portati al 30 per cento: per chi non rientra nel regime dei minimi, se applichi l'aliquota fiscale del 23 per cento, sei già al 53 per cento di incidenza sul tuo reddito. E' vero che poi con le detrazioni riscendi un po' sotto il 50 per cento, ma insomma così non andiamo da nessuna parte".

Non c'è una soluzione unica, perché l'esercito delle partite Iva è molto variegato: ci sono gli iscritti alla gestione separata Inps (circa 290 mila autonomi), ma poi a questi si aggiungono oltre un milione di professionisti che versano a ben 21 casse degli ordini. Esistono però tre richieste che accomunano tutti: riorganizzare il fisco, in modo che non sia penalizzante ma sostenga l'attività e la crescita; garantire adeguate prestazioni di welfare; istituire un meccanismo di solidarietà intergenerazionale, per cui chi oggi ha ricche pensioni garantite dal sistema retributivo aiuti chi domani potrebbe trovarsi con assegni molto bassi a causa del contributivo.

Quanto al fisco, si chiede una riorganizzazione dei regimi dei minimi, che ad esempio non scoraggi chi vuole crescere: in tanti cercano in ogni modo di stare dentro la soglia del regime dei minimi, per evitare il balzo sproporzionato delle tasse quando li si supera, addirittura arrivando a rifiutare commesse aggiuntive. E ancora: poter detrarre integralmente le spese per i viaggi e la formazione, chiarire (oggi il meccanismo risulta confuso) chi deve pagare l'Irap e chi no. Acta propone un vero e proprio "patto fiscale": "Siamo disponibili alla piena tracciabilità e alla massima collaborazione con l'Agenzia delle entrate, ma ci si abbassi la pressione fiscale".

Il welfare è ancora uno dei grandi incompiuti per questa categoria: la malattia grave viene coperta solo per 60 giorni (vedi la battaglia che da mesi compie la lavoratrice autonoma Daniela Fregosi). La maternità è coperta, ma per il momento sei obbligata a lasciare completamente il lavoro, e questo può determinare la perdita del parco clienti: si chiede di eliminare questo vincolo. Il governo la settimana scorsa ha spiegato di voler accogliere la richiesta di estendere il congedo parentale anche ai padri, seppure le bozze dei decreti che circolano al momento non siano ancora chiare su questo punto. Manca infine tutto il capitolo degli ammortizzatori sociali: le partite Iva, a fronte dei contributi che versano, chiedono di poter accedere almeno a una copertura figurativa previdenziale dei periodi di non lavoro. Alcune associazioni si spingono a ipotizzare la possibilità di istituire un assegno di disoccupazione, ma questo certamente porrebbe poi il problema di dove reperire le risorse necessarie.

Infine la previdenza, la grande preoccupazione per il futuro. Per quanto riguarda la gestione separata Inps, che negli ultimi mesi in tanti hanno minacciato di abbandonare, le associazioni concordano nella richiesta di bloccare definitivamente il già programmato aumento dei contributi, e possibilmente scendere dall'attuale 27,72 per cento al 24,72 per cento, parificando l'aliquota a quella di commercianti e artigiani. Sul come rimpinguare gli assegni di domani a fronte di questo "sconto" oggi, le ipotesi sono diverse. Secondo Anna Soru, di Acta, bisogna riprendere una proposta di legge presentata nel 2009 dal fronte "bipartisan" di Giuliano Cazzola e Tiziano Treu, pensata perché si applicasse a tutti coloro che sono nel sistema contributivo, e non solo alla gestione separata Inps: "Prevede che al raggiungimento di 10 anni di contributi si maturi un assegno pari alla pensione sociale, da integrare poi con il rendimento derivante dal contributivo puro. Assicurerebbe un assegno futuro di almeno 700-800 euro".

Secondo Andrea Dili, di Associazione 20 maggio, invece si deve riprendere la proposta di Chiara Gribaudo (Pd), approvata come ordine del giorno in Parlamento sotto il governo Letta: "Si chiede di istituire un equo compenso per gli autonomi: perché se pure aumenti i contributi fino al 150 per cento, se hai un reddito basso la pensione sarà comunque bassa. L'equo compenso, di cui si è discusso di recente ad esempio per i giornalisti, dovrà essere quello indicato dal contratto nazionale per i dipendenti che svolgono lo stesso lavoro. Poi se sei bravo, quando offri la tua prestazione sul mercato potrai anche chiedere il doppio o il triplo, ma deve essere una base al di sotto della quale non si può scendere". Un'alternativa, in pratica, sia alle tariffe stabilite dagli ordini, che al salario minimo definito per legge dal governo, tanto che la stessa Consulta delle professioni Cgil si è espressa a favore di questa ipotesi.

Entrambe le associazioni concordano sul fatto che le risorse necessarie dovranno venire non solo da un investimento della fiscalità generale su un settore che, vista la crisi del lavoro dipendente, può creare occupazione e sviluppo, ma anche dal contributo solidale delle generazioni che sono uscite con il sistema retributivo, come ha proposto tra l'altro Tito Boeri, oggi presidente dell'Inps: "Chi prende da tre volte in su rispetto alla pensione minima, potrebbe in parte restituirci quello che oggi diamo noi per pagare il suo assegno - dice Dili – Anche perché, come si sa, chi è uscito con il retributivo ottiene in prestazioni molto più rispetto a quanto ha versato".

Un esercito di autonomi e freelance, che conta circa 1,3 milioni di lavoratori in Italia, pronto a emigrare verso altre casse contributive: "Siamo stati tartassati sia sul piano previdenziale che fiscale da tutti i governi. E adesso abbiamo deciso di muoverci”

Una soluzione, quella della "solidarietà intergenerazionale", che Alessandro Trudda, docente di Matematica attuariale all'Università di Sassari, indica anche per tutte le casse professionali: "C'è un generale problema di sostenibilità delle Casse, alcune delle quali negli ultimi anni hanno introdotto importanti riforme strutturali, visto che non potevano reggere i costi del sistema retributivo, e giustamente hanno dovuto transitare verso il contributivo. Se prima un professionista ci metteva 3-4 anni a recuperare con il suo assegno quanto versato nell'intera sua carriera, e poi andava tutto a carico del sistema, oggi ci mette qualche anno in più ma in molti casi siamo ancora potenzialmente in squilibrio. Per i giovani che sono nel contributivo, al contrario la sostenibilità è assicurata, ma c'è il rischio di un assegno povero: e allora si deve incrementare attraverso altre leve. Una è sicuramente quella del contributo da parte dei più anziani, e questa mi sembra una delle rivendicazioni di chi scende in piazza. In altri casi si può utilizzare parte del costo aggiuntivo addebitato al cliente, in fattura, come 'contributo integrativo'".

Ma un suo ruolo può svolgerlo anche il governo, eliminando una anomalia tutta italiana, ovvero la doppia tassazione sul pilastro previdenziale obbligatorio: "Oggi tassato – conclude Trudda – prima a monte, sui rendimenti: al 26 per cento, quasi come se fosse un fondo speculativo. E poi successivamente, quando viene erogato l'assegno. Nel resto d'Europa l'imposizione fiscale interviene solo nel secondo caso".

L’Espresso
23 02 2015


Manca poco più di un un mese e poi, il primo aprile, i sei ospedali psichiatrici giudiziari attivi in Italia chiuderanno per sempre, ultimo capitolo della lunga transizione iniziata nel 1978 con la legge Basaglia.
Una passo atteso da tempo e che anzi, avrebbe già dovuto compiersi lo scorso marzo, salvo poi essere prorogato di un altro anno. Nonostante questo, però, sulla sorte dei malati-detenuti, c’è nebbia fitta e l’unica apparente certezza è che per loro cambierà poco o nulla.

Lo scorso 30 novembre, negli OPG italiani, risultavano detenute poco meno di 800 persone, più di 400 delle quali perfettamente dimissibili che, in base a quanto previsto dalla legge 81 del 2014, dovrebbero essere affidati ai dipartimenti di salute mentale delle Regioni di residenza.

Diverso invece il discorso per i non dimissibili, ossia per chi è considerato pericoloso per sé o per gli altri: a loro toccherà il ricovero nelle nuove REMS, residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza, strutture sanitarie che, in teoria, le regioni si sarebbero dovute preoccupare di preparare a partire dal 2008, o costruendole ex novo o riattando strutture esistenti. Solo che non lo hanno fatto.
Manicomi lager, il degrado delle strutture

“Nella migliore delle ipotesi le regioni sono in ritardo, nella peggiore non si vedrà nulla per anni - dice Michele Miravalle di Associazione Antigone, gruppo tra i più attivi nel monitorare la condizione di chi vive in carcere-e il risultato è che oggi, a 40 giorni dall’ora X, di Rems, in Italia, non si vede l’ombra.”.

Al ministero, in base a quanto si legge nella relazione trimestrale dello scorso settembre, disponibile sul sito del Ministero della Giustizia, sono arrivati piani, progetti, proposte (per una spesa complessiva di circa 88 milioni di euro) ma i tempi saranno lunghi, tanto che nella relazione stessa si legge testualmente: “Nonostante il differimento al 31 marzo 2015 del termine per la chiusura degli OPG, sulla base dei dati in possesso del Ministero della salute appare non realistico che le Regioni riescano a realizzare e riconvertire le strutture entro la predetta data”.

Quindi se il 31 marzo chiudono gli OPG e il primo aprile non aprono le Rems cosa succederà ai detenuti?
“Niente, o quasi: che le Rems dovessero sostituire gli OPG si sa dal 2008 e le regioni hanno avuto tutto il tempo e le proroghe per mettersi in regola - continua Miravalle - e comunque o non lo hanno fatto del tutto oppure comunque non sono riuscite a rispettare i tempi. E questo comporterà, di fatto, la non chiusura degli OPG che, in buona sostanza rimarranno operativi, sia per i dimissibili che per i non dimissibili, cambiando nome e poco altro, diventando strutture sanitarie e non più detentive, sulla scia di quanto in parte si verifica già da tempo a Castiglione delle Stiviere, in Lombardia e mettendoci una pezza, anche se le Rems sono e dovevano essere un‘altra cosa”.

Le Rems, almeno nelle intenzioni, dovrebbero essere strutture molto più piccole, espressamente terapeutiche, e presenti in ogni regione, cosa che evidentemente non sarà se ci si limiterà a un riciclo dei sei OPG esistenti.
E qui arriva il secondo snodo della faccenda, ossia l’intenzione da parte del Ministero della Giustizia di commissariare le regioni inadempienti, “Da parte del Governo - dicono da Via Arenula - c’è la ferma intenzione di dare attuazione concreta e definitiva al superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari entro l'annunciato termine del primo aprile 2015, senza ulteriori proroghe. Per questo sarà avviata la procedura di commissariamento per quelle Regioni che non sapranno garantire il completamento delle iniziative necessarie per la presa in carico dei soggetti dichiarati dimissibili e di quelli non dimissibili”.
In buona sostanza tutte, o quasi, rischiano il commissariamento ad acta.

“I ritardi- continua, Cesare Bondioli, responsabile OPG per il gruppo Psichiatria Democratica-sono da attribuire a vari fattori, primo tra tutti il fatto che molte regioni hanno presentato dei progetti faraonici che poi, giocoforza, hanno dovuto ridimensionare in corsa. Ad oggi solo quattro Regioni hanno dichiarato di essere in grado di rispettare la scadenza senza ricorrere al privato: Emilia Romagna, Campania, Calabria e Friuli Venezia Giulia, quest’ultima ricorrendo a strutture a gestione mista. Allo stesso modo, però, dieci regioni Veneto, Toscana, Marche, Lazio, Abruzzo Molise, Puglia, Basilicata, Sicilia e Sardegna e la Provincia Autonoma di Trento non sono state in grado di indicare un termine certo per la presa in carico dei propri internati. Una situazione che, anche sulla scia di quanto successo con la chiusura dei manicomi, l’ultimo dei quali ha chiuso i battenti con 20 anni di ritardo sulla Legge Basaglia, non lascia presagire niente di buono”.

l'Espresso
20 02 2015

Si sono alzati in piedi, hanno girato le spalle alle associazioni in difesa per la famiglia e hanno abbandonato l'aula a metà discussione. È quello che hanno fatto in Commissione Giustizia i senatori Monica Cirinnà e Sergio Lo Giudice, durante l’ultima audizione per la nuova legge sulle unioni civili. Giovedì scorso erano state ascoltate le associazioni Lgbt e oggi su iniziativa del senatore Ncd, Carlo Giovanardi, è stato il turno delle associazioni in difesa per la famiglia tradizionale. Tra queste il Moige, Manif Pour Touis Italia e Comitati Sì alla Famiglia. Secondo quanto twittato dal deputato di Forza Italia, Lucio Malan, sarebbe stata la frase della dottoressa Dina Nerozzi, medico psichiatra, ad offendere la relatrice del ddl Cirinnà e il primo firmatario Sergio Lo Giudice: "Va chiarito che cosa vuol dire “vincolo affettivo” - avrebbe dichiarato la rappresentante dell’associazione Comitato Articolo 26. Io ho affetto per il mio cane ma che significa?".

I due senatori Pd hanno dunque abbandonano l’aula, mentre l’audizione ha continuato con gli interventi dei rappresentati delle associazioni. Federica Bonomi (Comitato di mamma ce n'è una sola) ha indicato il pericolo che questa legge possa riconoscere, non solo l’unione tra persone dello stesso sesso, ma anche "unioni multiple o fra specie diverse". Mentre Mario Binasco, docente di psicologia e psicopatologia dei legami familiari, della sezione italiana dell'Ecole Européenne de Psychanalyse, ha paragonato il ddl alla cellula terroristica dell'Isis: "Qualcuno pretende di negare la realtà e piegarla ad una regola astratta, con la stessa logica dei campi di concentramento, ma questo non é possibile. Il riconoscimento della forma matrimoniale con altro nome, previsto dal ddl Cirinnà, tende a distruggere il riconoscimento e l'appoggio sociale ai legami umani, quelli che prendono in conto le differenze e il futuro, come sono i legami familiari originari. Prevalgono istinti di morte. l'Isis non è poi molto diverso".

Si conclude così questa prima fase per uno dei ddl più discussi degli ultimi mesi. La settimana prossima il testo Cirinnà sarà votato e allora partirà la fase emendativa. La più pericolosa che potrebbe stravolgere o affossare il testo.

Ma questo non spaventa il senatore Lo Giudice: “Ognuno di questi passaggi sarà complicato e difficile, pieno di insidie e pericoli. Ogni emendamento rischia di comprometterlo, soprattutto su una maggioranza così ballerina. Però mi conforta il fatto che noi stiamo arrivando alla votazione sul testo base che nella condizioni date è un ottimo testo”.

Il premier Matteo Renzi pochi giorni fa durante la direzione nazionale del Partito Democratico ha auspicato la ricerca di “un punto di equilibrio tra di noi e con gli altri” proprio su questa legge che dovrebbe concludere il suo percorso entro marzo.

Simone Alliva

L’Espresso
18 02 2015


“Se dico zingari, a cosa pensate?”. Domenico Modafferi è il presidente della cooperativa “Rom 1995”. Sta parlando a cento ragazzi delle medie. Attendono qualche attimo. Poi si lasciano andare senza convenevoli: “Puzzano, rubano, sono sporchi”. Quello che avrebbero detto tutti. “E se io invece rispondessi: aiutano l’ambiente, lottano contro la mafia, lavorano onestamente?”.

Modafferi inizia a raccontare una storia incredibile, poco conosciuta anche sul territorio. A metà anni ’90 i Rom erano concentrati al “208”, un campo del quartiere Sbarre. Un luogo famoso per il degrado. Ma anche per i “cavalli di ritorno”. Quando spariva un’auto si andava a cercarla lì. Il mezzo tornava solo dietro pagamento.

Nel 2007 il campo fu smantellato. Molti andarono a finire in quartieri a loro volta degradati. Alimentando diffidenza e razzismo. Per proporre un’alternativa vera nacque la cooperativa. Esattamente vent’anni fa.
Ecologia, cultura, sensibilizzazione, in particolare con le scuole. Queste le attività principali. “Non stiamo parlando di nomadi o migranti”, spiegano. “Sono persone arrivate qui dal ‘400”. Pur essendo ormai cittadini italiani, hanno mantenuto alcuni tratti culturali, in particolare la lingua, ma anche una sostanziale separazione dalla comunità locale.

"Rendere utile quello che fanno già"
L’idea per uscirne è semplice. Legalizzare e rendere di pubblica utilità quello che i Rom fanno da sempre. La raccolta “differenziata” nei cassonetti della città. Nasce così un servizio comunale. I cittadini telefonano e i temuti “zingari” entrano in casa e portano via lavatrici, divani, materassi. Tutte cose che prima venivano abbandonate per strada.

“All’inizio c’era molta diffidenza”, spiega Modafferi. “Poi una vicina raccontava all’altra di operatori gentili e professionali. E così la paura spariva”. Anche la sede ha una storia particolare. Si trova a Condera, un quartiere su una collina con vista sullo Stretto di Messina. Palazzi non finiti, buche lungo le vie in salita e strade senza nome, indicate spesso come “secondo tronco” o “seconda traversa”.

L’edificio era uno scatolone coi pilastri in vista e i ferri sporgenti. Senza intonaco. Ma era anche proprietà degli Aquilino, i boss della zona. Attivi nel racket dei fiori del vicino cimitero. Nel 1999 il capo famiglia è stato ucciso proprio di fronte al suo chiosco. Un luogo senza pace. Lo scorso 11 febbraio un altro negozio di fiori è stato completamente incendiato.

In un contesto di guerra, i Rom portano avanti la loro battaglia di normalità. Nel 2002, il bene degli Aquilino è confiscato. Diventa la sede della cooperativa. Ma, soprattutto, un ammasso di ferro e cemento si trasforma in un bel posto: una sala con ampie vetrate per gli incontri educativi; murales e manifesti; cassoni colorati per la raccolta. “Rom diversi, lavoratori uguali”, dice uno dei poster.

Isola ecologica
Nasce il centro per la raccolta dei rifiuti. Pesati e differenziati. Con rilascio di ricevuta. È l’unica isola ecologica della città. Smaltisce anche il materiale dismesso dalle scuole e i manifesti affissi abusivamente. Il progetto è appoggiato Italo Falcomatà, tra i sindaci reggini più amati. Sarà la leucemia a interrompere il suo mandato. Poi è il turno di Scopelliti, sindaco della destra. Nonostante le rassicurazioni, la “Rom 1995” perde l’appalto. La vicenda è controversa. Parallelamente, senza connessioni con la revoca, la gestione dei rifiuti comunali è travolta da scandali e infiltrazioni criminali.

Nel 2010 le attività sono sospese e i lavoratori finiscono in cassa integrazione. L’anno dopo alcune attività riprendono. Ma la crisi non è ancora superata. I Rom della cooperativa non sono rappresentativi di tutti quelli presenti in città. “Non si può negare il degrado e l’emarginazione, che producono microcriminalità. La gente si indigna per scippi e furti d’auto. Non fa altrettanto per i crimini della ‘ndrangheta”, spiega Modafferi. “Quello che serve è una reale opportunità di emancipazione. La nostra esperienza è una risposta all’idea che non c’è nulla da fare quando si tratta di Rom”.

Ripartire
Mentre il gruppo dei lavoratori è rimasto compatto, scegliendo la strada della protesta pubblica, le istituzioni non sono state coerenti. Anzi, hanno accumulato paradossi. Come quello della ricicleria. Quando il progetto era completo, tutto era pronto per recuperare e vendere oggetti che di solito finivano nelle discariche dei torrenti. Divani, mobili. Ma l’appalto non è stato confermato. Non si poteva più raccogliere. Soldi buttati.

I lavoratori hanno comunque voglia di ripartire. C’è un nuovo sindaco, è un giovane di 31 anni ed è il figlio del rimpianto Falcomatà. La città dei sequestri alle aziende delle ‘ndrine, delle assunzioni clientelari e del profondo rosso dei bilanci comunali è al suo anno zero. Magari partendo dall’esempio dei Rom. Il paradosso è che la gente adesso li rimpiange: «Era l’unico servizio comunale che funzionava».
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